Periodo di fuoco per le uscite horror, questo. Piano piano ci occuperemo di tutto, ma era logico, se un minimo mi conoscete, che io dessi la precedenza a Sea Fever, film abissale più atteso dell’anno, almeno per la sottoscritta. Il problema è, tuttavia, che io mi aspettavo un film di mostri marini contro l’equipaggio di un peschereccio, e invece mi sono ritrovata ad assistere a uno straziante apologo sulla responsabilità individuale di fronte all’insorgere di una possibile pandemia. E no, vi assicuro che Sea Fever non è affatto un instant movie: è stato presentato a Toronto nel settembre del 2019, quindi si presume che sia stato scritto e girato addirittura nella seconda parte del ’18. Non posso dire neanche che sia profetico, perché non bisogna possedere il dono della veggenza per ipotizzare il rischio di nuove, sconosciute e letali malattie, e neanche per individuare nell’oceano un serbatoio di possibili specie ancora ignote. Però capita, a volte, che arrivi un film giusto al momento giusto, e questo è esattamente il caso di Sea Fever.
Racconta di una dottoranda in biologia marina, Siobhan, che si imbarca per qualche giorno su un peschereccio per completare il suo corso di studi sul campo. L’equipaggio è abbastanza disastrato e ha un gran bisogno di soldi, perché potrebbe perdere la barca se la battuta di pesca va male. E così, il capitano (Dougray Scott) decide di dirigersi in una zona vietata, senza dire nulla ai suoi uomini e men che meno alla guardia costiera. Lì, il peschereccio si incaglia in qualcosa, che poi si rivela essere una creatura vivente, una sorta di gigantesca piovra dai tentacoli fluorescenti, avvinghiati alla carena e che rilasciano una gelatina verdognola e appiccicosa. Quando il primo membro dell’equipaggio comincia a sentirsi male, si capisce che la creatura è portatrice di una malattia altamente infettiva e letale. E a quel punto bisogna scegliere come agire per evitare che l’infezione arrivi a terra.
Di Sea Fever è prima di tutto interessante lo sviluppo narrativo: i tropi del filone virus in uno spazio chiuso, quelli da La Cosa in poi, per capirci, ci sono tutti. C’è persino la scena del test per stabilire chi sia infetto e chi no; ci sono la paranoia, la mancanza di fiducia nei confronti del prossimo, i nervi che saltano, le accuse reciproche, i tentativi, tutti andati a vuoto, di neutralizzare o uccidere la creatura degli abissi causa della malattia; però il modo in cui Hardiman li inserisce nella successione degli aventi che è imprevedibile, perché il personaggio principale, Siobhan (Hermione Corfield sempre più brava) è frutto di una scrittura attenta e poco convenzionale, e funge da elemento destabilizzante di una formula consolidata. È, in sintesi, la variante impazzita in uno schema che ci illudiamo di conoscere e, nel caso specifico, questa variante è costituita da un comportamento razionale e analitico in un contesto che, nelle mani di una sceneggiatura meno intelligente, tenderebbe in automatico verso azioni sconsiderate e autodistruttive.
Siobhan, al contrario, si approccia al fenomeno con un atteggiamento scientifico, pacato, si assume tutte le responsabilità di essere l’unica persona a bordo a poterci capire qualcosa e, al netto degli inevitabili attriti, l’equipaggio le dà il più delle volte ascolto, persino quando le sue proposte, tipo quella di far passare corrente elettrica su tutto il ponte della barca, sono ad alto rischio.
Credo sia un modo inedito, e anche coraggioso, di raccontare una storia già sentita tante volte, perché si finisce per forza in una parabola anticlimatica, con il picco di tensione che arriva più o meno a metà film, poco spazio al sensazionalismo, tanto al ragionamento e alla ricerca di soluzioni efficaci, tra cui quella di mettersi in quarantena volontaria invece di rientrare in porto. Che poi è anche un espediente per contenere il budget e caricare il peso del film sulle spalle degli attori e del lavoro incessante della macchina da presa negli ambienti stretti del peschereccio, tra le cuccette dell’equipaggio, la cella frigorifera in cui si stipano i cadaveri, e la sala macchine, con l’indispensabile sistema di filtraggio dell’acqua a giocare un ruolo chiave in tutta la vicenda.
Siobhan, lo dicevamo prima, è il cuore del film, il motore che lo tiene in movimento per 90 minuti: non affronta la creatura come se fosse un nemico, neppure ha intenzione di ucciderla, ne è affascinata come oggetto di studi e teme il contatto tra essa e l’uomo, senza tuttavia attribuirle chissà quale disegno malvagio. Anzi, la malvagità viene proprio esclusa a priori dall’equazione; non ci sono valutazioni di carattere morale da fare, non ci sono buoni o cattivi, c’è una nuova specie che, come tutte le altre, ha il diritto di sopravvivere. E Siobhan si sente in dovere di capirla.
Non so se avete presente il classico conflitto, molto da fantascienza anni ’50, ma mai completamente superato da mamma Hollywood, tra scienziati e militari. Ne La Cosa da un Altro Mondo, il film originale cui si è ispirato Carpenter, gli scienziati vorrebbero comunicare con quella specie di melanzana spaziale, mentre i militari credono che sia giusto annientarla. Ovviamente, nell’ottica del film hanno ragione i militari, e questo è dimostrato dalla scena in cui lo scienziato si avvicina alla melanzana spaziale e per venire fatto fuori senza troppe cerimonie nel giro di tre secondi.
Sea Fever si muove in una direzione diametralmente opposta, e per questo appare come una novità, anche se, in fin dei conti, sfrutta un modello presente nel cinema e nella narrativa fantastici dall’alba dei tempi. Ma lo fa con tali grazia ed eleganza che quasi non ci si accorge di star ascoltando una vecchia canzone.
Hardiman, regista irlandese attiva soprattutto in tv, e in zona Marvel, dimostra con questo lungometraggio di poter essere una voce importante per il futuro del genere: idee chiare, scrittura dei personaggi (anche quelli secondari) ottima, messa in scena semplice ma molto funzionale e sempre al servizio del racconto e, soprattutto, una visione d’insieme moderna e lungimirante.
Credevo fosse un b movie, e invece ho trovato un tesoro. E dalle profondità dell’oceano, per oggi è tutto.
in questo periodo con la uni sto studiando un corso che ho soprannominato cose marine
perke non vengono soccorsi? dovrebbero avere il geolocalizzatore
Non vengono soccorsi perché nessuno sa dove si trovano, dato che stanno infrangendo la legge.
sembra una piccola perla! e stranamente adatto al periodo, visto il tema ‘malattie infettive da contenere’. non ne avevo mai sentito parlare ma mi accingo ad andare a pesca nel torrente, vediamo se esce fuori 😀
Se vai a pesca nel torrente, ti salta direttamente nella rete 😀
I film con ambientazione marina mi piacciono sempre e questo sembra molto interessante per il modo con cui si appocia allo spettatore. Lo vedrò sicuramente.
Ho sempre pensato alla cosa da un altro mondo come ad una gigantesca carota. Perché melanzana? Mi destabilizza … 😉
Non so da dove mi è uscito melanzana. È un ortaggio spaziale, però è vero che la carota è più vicina al suo aspetto 😀
Ma infatti nel film di Nyby non l’avevano chiamata “supercarota” o qualcosa del genere? 😀
Quanto a Sea Fever, interessante variazione di origine sottomarina sottomarina su tematiche fin troppo attuali, credo che andrò a torrenti anch’io…
Non so davvero da dove mi sia uscito melanzana spaziale. Ci stava bene col ritmo del pezzo 😀
Sono una persona semplice: vedo Lucia che recensisce un film che si svolge nelle profondità marine, vado a leggere senza esitazione ❤