WiHM 2020: Le registe di Into the Dark

Nella carriera da produttore di Jason Blum, con tutto l’amore che gli porto e sempre gli porterò, c’è una cosa che mi ha sempre creato un certo imbarazzo, e salta subito agli occhi se si va a scorrere la filmografia Blumhouse o anche quella del buon Jason come produttore: non ci sono film diretti da donne. O meglio, si trova un tv movie del 2018, diretto da Patricia Riggen e, l’anno prima, il semi sconosciuto The Keeping Hours, di Karen Moncrieff. Ma non si può parlare di film particolarmente rilevanti, neanche nel contesto Blumhouse: ha fatto più parlare di sé Sweetheart, per esempio.
Ed è molto strano, tutto questo, perché gli horror della Blumhouse hanno fatto parecchio per la rappresentazione di personaggi femminili al di fuori degli stereotipi (mi vengono in mente Ma!, la saga di Insidious e persino i due Happy Death Day), ma in realtà, il solo film ad aver causato un certo rumore, e per tutti i motivi sbagliati, prodotto da Blum e diretto da una donna è stato il recente e sfortunatissimo remake di Black Christmas, boicottato perché “le femmine non sono capaci”. Non ci credete? Guardatevi un istante in giro e rendetevi conto di quello che sta succedendo al box office con i film diretti da donne; poi tornate qui e ditemi che non è vero. Ho pure dei contatti su Fb che esultano di fronte a questo tipo di fallimenti.
Ma, tornando al nostro Jason Blum, ha incassato le critiche che gli sono arrivate ed è corso ai ripari (invece di frignare, come fanno tanti maschietti che conosco) e ha cominciato ad ampliare la sua scuderia di registi, senza neanche fare troppo clamore e senza proclami di sorta.
La prima mossa è stata Into the Dark. Ora, cos’è Into the Dark? È una serie antologica, ora alla sua seconda stagione, trasmessa d Hulu e prodotta, ovviamente, dalla Blumhouse.
Non si tratta di una serie a episodi canonici da 50 minuti e in onda a scadenza settimanale, ma di lungometraggi che escono una volta al mese, di solito dedicati a una festività in particolare oppure soltanto ambientati nel mese in cui arrivano nel catalogo del servizio streaming di Hulu.

Fino a ora, sono disponibili 18 film di cui 5 hanno una donna alla regia. Sono un po’ pochini, vero? Sì, e rispettano le proporzioni della media nazionale statunitense dove le donne dietro la macchina da presa sono ancora una sparuta minoranza, anche se in aumento (se gli studios le lasceranno fare, il che, visti i boicottaggi vari, sta diventando improbabile, ma non divaghiamo).
Cinque film, dunque, per cinque storie molto diverse tra loro, ma con una cosa importante in comune: uno sguardo inedito su vicende tutto sommato già affrontate dal genere in svariate circostanze. Into the Dark non è una serie che brilla per originalità, ma essendo l’originalità una virtù molto sopravvalutata, possiamo dire che la cosa ci interessa il giusto.
Si comincia con New Year, New You, diretto da Sophia Takal (cui probabilmente gli incel hanno stroncato la carriera, ma non divaghiamo), il quarto episodio della prima stagione, uscito ilm 28 dicembre del 2018 e ambientato, come da titolo, a Capodanno: quattro amiche decidono di passare insieme la fine dell’anno; una di loro è diventata famosa come influencer di prodotti salutisti (tisane detox e roba del genere). All’inizio tutto va per il verso giusto, ma presto affiorano dal passato brutti ricordi e la situazione precipita.
È poi il turno di All That We Destroy, per la regia di Chelsea Stardust, altra nostra vecchia conoscenza. Siamo all’ottavo episodio della prima stagione, sbarcato su Hulu a maggio per la festa della mamma. Il film narra di una scienziata che cerca di curare il figlio serial killer clonando ripetutamente una delle sue vittime, almeno fino a quando uno dei cloni non acquisisce un minimo di autonomia e autocoscienza.

Tocca poi all’episodio del 4 luglio, Culture Shock: dietro la macchina da presa c’è Gigi Saul Guerrero, una regista con una sfilza di cortometraggi ed episodi per serie tv all’attivo, ma qui per la prima volta al lavoro sulla lunga distanza. Culture Shock è la storia di una giovane donna messicana, incinta, che cerca di attraversare illegalmente il confine e di arrivare negli Stati Uniti. Ci riesce, ma forse la realtà in cui è precipitata è anche peggiore di quella che si è lasciata alle spalle.
L’ultimo episodio della prima stagione è Pure, e alla regia troviamo Hannah Macpherson, che conclude la serie nel settembre dello scorso anno. In Pure, ci troviamo in un ritiro per la castità, dove delle ragazze si recano con i loro padri per passare un fine settimana all’insegna della purificazione. Per nostra fortuna, ci si mette di traverso Lilith.
Nella seconda stagione, cominciata a ottobre e ancora in corso, bisogna aspettare fino al quinto episodio, quello di febbraio, dedicato a San Valentino, per vedere di nuovo una donna alla MdP: Maggie Levin, esordiente assoluta con soltanto qualche corto all’attivo, dirige My Valentine, un incubo al neon che racconta di relazioni abusive e plagi musicali.

Come vedete, le cinque storie non si somigliano affatto, affrontano temi differenti, hanno ognuna di esse (a prescindere che siano più o meno riuscite) uno stile ben definito e riconoscibile: più tradizionali, per esempio, Pure e New Year, New You, più pirotecnici Culture Shock e My Valentine; sono vicende molto contemporanee, riflettono il momento storico che gli USA stanno attraversando e forniscono uno sguardo fresco, mai scontato o prevedibile, sulla società. Sono, tutti e cinque, molto divertenti da vedere e, non lo dico per partigianeria, ma nella qualità altalenante di una serie come Into the Dark, rappresentano le punte di diamante di questa produzione. Nomi più blasonati e conosciuti hanno fornito prove faticose e annacquate, mentre queste cinque registe si sono buttate anima e corpo nel progetto, forse perché si stavano giocando la loro prima, vera possibilità di accedere a un pubblico più ampio, cosa data per acquisita da registi come Marcus Dunstan o Patrick Lussier.
Se tuttavia devo andare a cercare l’elemento in comune tra questi cinque film, mi tocca ricadere su un discorso annoso, ovvero sull’abitudine che abbiamo, dovuta a decenni di narrazioni uniche, a guardare al mondo attraverso un unico punto di vista, considerato da sempre quello “giusto” e “universale”.

Dare uno spazio a registe e sceneggiatrici per raccontare le loro storie, senza che debbano essere altri a raccontarle al posto loro, non fa altro che arricchire lo spettro delle esperienze messe al servizio del cinema e, di conseguenza, arricchisce noi come spettatori e ci aiuta a comprendere meglio gli altri.
È singolare, per esempio, che nessuno dei cinque film presi in esame sia un revenge movie, che manchi in tutti la figura della final girl, che a nessuna delle registe sia venuto in mente di utilizzare lo stereotipo della “strong independent woman” tanto caro, al contrario, a molti registi che vogliono far vedere quanto sono progressisti e aperti alle istanze femministe; è presente, e ricorre spesso, il tema dell’abuso, declinato in varie maniere, sia esso un’esperienza traumatica del passato, come negli episodi di Takal e Levin, o il nucleo principale del film, come in Pure, ma mai viene usato in senso exploitativo, non si fa insomma spettacolo per guardoni, e del resto anche la violenza inferta (siamo in un’antologia horror) su corpi femminili assume una valenza niente affatto catartica, mancando quell’indulgenza nel mostrare la sofferenza delle donne che è propria di un certo tipo di produzione horror.
Voci nuove, quindi, voci che per la prima volta possono esprimersi senza alcuna soggezione, sfruttando al massimo la libertà creativa di solito concessa da Blum, nei limiti di un budget ristretto. Ma non è forse meglio così che sottostare alle leggi spietate del blockbuster?

Non voglio mettermi a fare classifiche o graduatorie: guardate gli episodi, scegliete voi i vostri preferiti, perché sono tutti, a loro modo, validi. Quello che, personalmente, mi ha convinta di più è All that We Destroy, un po’ perché Chelsea Stardust ha uno stile e un occhio per la messa in scena molto vicini alla mia idea di cinema, un po’ perché ha la sceneggiatura più forte e potrebbe essere considerato un sunto perfetto di quello che intendo per il cambio del punto di vista. Le storie di serial killer portate al cinema sono, a parte un’unica, macroscopica eccezione, sempre state filtrate attraverso uno sguardo maschile, ed è grottesco se pensate a come le vittime di questi spietati assassini siano nella maggior parte dei casi delle donne.
Stardust, con il suo episodio, compie una bella inversione di marcia: il punto di vista non è più del killer, ma di sua madre, tanto per cominciare, e il rapporto tra i due è di estrema complessità, distante qualche galassia dalla solita relazione castrante che ci viene data in pasto dalla filmografia sui serial killer da Psycho in giù.
Quando poi il centro del film passa dal rapporto madre e figlio a quello tra madre e clone creato appositamente per essere ucciso, si entra in territori davvero inesplorati. Vi consiglio di guardarlo con attenzione, accorgervi dei cambi di tono e degli spostamenti negli equilibri di potere che avvengono sotto ai nostri occhi, e poi chiedervi se avete bisogno di più storie come questa o se preferite che vi si continui a raccontare sempre la stessa.
Alla fine, la scelta sta a noi, siamo noi a decretare la vita o la morte di una narrazione; siamo noi a pagare il biglietto e siamo noi a diffondere il segnale. Facciamo in modo che queste voci non vadano perdute.

7 commenti

  1. Siccome alla fine sono dei piccoli film, per mancanza di tempo (l’ho scoperta troppo tardi l’anno scorso, quindi avevo almeno una serie da recuperare, impossibile farlo a scadenza mensile ç__ç) sono riuscita a vedere solo i primi quattro episodi, tra cui quello della Takal, che ho adorato (mai quanto Pooka) per il clima di ipocrisia montante che trasforma la “tranquilla” sera di fine anno in un delirio.

    A questo punto ne approfitto per chiederti: di tutto quello che è uscito finora, assieme all’episodio della Stardust, quali mi consigli di recuperare?

    1. Culture Shock di sicuro, perché è uno dei più fighi in assoluto e se la batte tranquillamente con quello di Stardust.
      Della seconda stagione ancora non ho visto niente, tranne l’episodio di San Valentino, per dare una panoramica completa in previsione di questo post.
      Della prima, se hai visto già Pooka, hai visto il meglio 😀

  2. non credo che tutti i film di serial-killer diretti da uomini trattino con morbosità la morte dei personaggi femminili, non più di quanta non ne mettano nella morte dei personaggi maschili, ma sul resto che dici sono d’accordo: c’è bisogno di più voci diverse

  3. Trovo molto interessante e ben fatta questa serie TV (non so se è giusto chiamarla così)..la qualità è quasi sempre molto alta..Cultur Shock mi è piaciuto molto… potente e molto attuale, anche l’episodio da te citato è stato molto interessante…devo davvero rivederlo,certe sfumature mi erano sfuggite… sono assolutamente d’accordo con te sul fatto che bisogna vedere più film diretti da donne..per lo sguardo preciso e puntuale..basti pensare a quel straordinario film che è the invitation .. sempre bello e ispirante leggerti.👍😊

    1. Tra Culture Shock e All that we destroy sono indecisa tra quale dei due sia il migliore. Forse preferisco il secondo perché è più nelle mie corde di spettatrice, ma funzionano entrambi alla grande.
      Grazie 🙂

  4. Giuseppe · ·

    Mi piace pensare che quando -finalmente- avremo in concreto la possibilità di vedere più film diretti da donne (scardinando così punti di vista “unici” e preconfezionati al maschile), sarà anche grazie a produttori come Jason Blum: nello specifico, Into the Dark mi sembra un primo passo nella giusta direzione e, se è pur vero che 5 registe sul totale dell’intera stagione rimangono effettivamente poche, la strada è comunque stata tracciata… ragion per cui confido che un tipo in gamba come lui (lontano dagli stereotipi e dalle leggi spietate del blockbuster) sappia continuare a percorrerla 😉

  5. Un articolo molto interessante che mi ha fatto conoscere dei registi che devo tenere d’occhio perché dimostrano un certo potenziale. Riguardo il tuo discorso iniziale su Black Chistmas sono d’accordo con te. Ho letto in rete dei commenti misogeni terrificanti e sta accadendo la stessa cosa con Birds of Prey. Questa è una cosa che mi da un profondo dispiacere.

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