Regia – Jenn Wexler (2018)
Wexler è stata, per anni, una produttrice di horror indipendenti e fa parte della scuderia di talenti della Glass Eye Pix, ovvero di Larry Fessenden. È proprio Fessenden, insieme a un’altra nostra vecchissima conoscenza, ovvero Andrew van den Houten, a produrre (e ad apparire, come al solito, in un piccolissimo ruolo), questo The Ranger, ove Wexler finalmente esordisce dietro la macchina da presa e sceglie di cimentarsi con un sotto-genere tra i più abusati (e, da queste parti, amati) di sempre: lo slasher. Questo per dirvi che l’horror è come il proverbiale paesino dove tutti si conoscono e tutti sono cugini di tutti; non solo, ma alla fine, si torna sempre negli stessi luoghi. L’importante, dato che di cinema si parla, è di avere su di essi uno sguardo fresco e diverso. E Wexler ci riesce, non tanto nell’innovare le dinamiche tipiche dello slaher: non hanno bisogno di essere innovate ogni tre secondi, grazie, ma nella scrittura dei personaggi, nel ritmo della narrazione, nelle scelte di montaggio e in tanti, piccoli slittamenti di prospettiva che fanno di The Ranger un’ottima variazione sul tema.
Chelsea e il suo gruppo di amici, quattro aspiranti musicisti punk rock, sono in fuga dalla polizia dopo una serata un po’ movimentata: la polizia ha fatto irruzione nel locale dove i ragazzi si trovavano con addosso una cospicua quantità di droga; la retata è finita malissimo, con un agente accoltellato e i nostri protagonisti ricercati.
Ma Chelsea (Chloe Levine; dove sei stata fino a questo momento?) ha la soluzione, ovvero una classica cabin in the woods, che apparteneva al suo defunto zio. O meglio, è il suo ragazzo a imporla come soluzione, dato che Chelsea appare un po’ riluttante a usare la capanna come nascondiglio. Il motivo è un fattaccio avvenuto quando lei era appena una bambina e legato alla morte dello zio e a uno strambo ranger (Jeremy Holm) che si aggira per i boschi. Il ranger del titolo, il nostro bogeyman di turno, in caso non lo aveste capito.
Il film non è il classico slasher che si basa nella sua interezza sulla mattanza dei giovinastri. Ovvio, la mattanza avverrà, e i ragazzotti verranno fatti fuori uno a uno, lasciando la final girl a confrontarsi col mostro, secondo la più battuta delle strade percorribili. Non c’è niente di scandaloso in questo, se funziona ed è condotto con un certo grado di consapevolezza. Wexler di consapevolezza ne ha parecchia, sa che noi sappiamo, quindi non ci tiene più di tanto a presentarci l’evoluzione degli eventi come una sorpresa, ma la dà quasi per scontata: è uno slasher, si muore uno dopo l’altro, ne rimane soltanto una. Quello che alla regista interessa è stabilire innanzitutto un rapporto tra assassino e final girl, andando a scavare con brevi, e ambigui, flashback nel passato di Chelsea, e in secondo luogo, nel presentarci le vittime in maniera tale da farci cadere in un tranello.
Ora, è cosa nota a tutti che i morituri in uno slasher debbano rappresentare dei tipi umani piuttosto sgradevoli, tanto da permettere allo spettatore un processo di identificazione con l’assassino prima e con la final girl poi, mano mano che questa acquista spessore e si distingue dai suoi compagni di sventura per qualche caratteristica particolare, che le vale il diritto alla sopravvivenza. The Ranger sembra, all’inizio, aderire al medesimo schema: esclusa Chelsea, i nostri sono un gruppo di insopportabili vandali, del tutto ignoranti in materia di regole basilari come: non si accende un fuoco a cazzo in mezzo al bosco e non si spruzzano gli alberi di vernice fucsia. Sono invadenti, chiassosi, sporchi, gettano rifiuti dappertutto, reagiscono al racconto di Chelsea sulla morte dello zio con noncuranza e sarcasmo e, insomma, per un certo lasso di tempo, non vediamo davvero l’ora che il ranger entri in azione e cominci la sua meritoria opera di sterminio.
Ma poi accade qualcosa di strano, perché al primo proiettile che vola, e alla prima vittima che si accascia a terra, scopriamo una verità diversa, ovvero che questi ragazzi, con tutte le disfunzioni e i difetti del caso, sono una famiglia, e come una famiglia si sostengono a vicenda, senza lasciare nessuno indietro a morire solo, e cercando di portare a casa la pelle tutti insieme. Tramite questo meccanismo, ci ritroviamo a soffrire ogni volta che uno di loro fa una brutta fine, mentre il ranger, con la sua ossessione per il rispetto delle regole, la sua aria autoritaria, la sua psicosi nascosta dietro l’apparenza rassicurante di una divisa, è uno dei mostri umani più efficaci, odiosi e spaventosi dello slasher recente. In parte, mi ha ricordato Mick Taylor, e io non faccio certi paragoni a caso.
C’è poi la questione del rapporto tra final girl e assassino che, messa nei termini di The Ranger, è molto interessante e niente affatto banale. Intanto, per una volta, il passato da disseppellire non è quello del killer, non riguarda i suoi traumi e le motivazioni che lo hanno portato a essere ciò che è, ma si torna al vecchio e amatissimo concetto dell’uomo nero di uno slasher come contenitore vuoto e privo di una qualsivoglia meccanismo assolutorio; in parte perché i flashback, di solito la parte più debole di un film di questo tipo, brillano di luce propria per atmosfera, messa in scena e ambiguità. Non sono, in altre parole, spiegoni, ma piccoli indizi atti a far comprendere meglio chi sia Chelsea, e da dove derivi il famoso “diritto alla sopravvivenza” che fa di lei una final girl. A interpretarla, da bambina, troviamo quel piccolo mostriciattolo di bravura di Jeté Laurence, già vista in Pet Sematary, ed è davvero interessante come Wexler riesca a caricare di dubbio e sottigliezze il personaggio.
Perché forse, e ci volevano parecchi anni, e parecchi slasher per arrivare a questo punto: la final girl non vince in virtù della sua purezza, della sua forza caratteriale che spicca rispetto ai quei pusillanimi dei suoi amici carne da macello, ma in virtù della sua somiglianza con l’assassino.
Come vedete, c’è tanta ciccia in un film a basso costo che dura a malapena un’ora e venti, titoli di coda compresi, e un genere ormai logoro come lo slasher può avere ancora tante cose da dire, basta, tanto per proseguire lungo la linea tracciata dall’horror contemporaneo negli ultimi dieci anni, attuare quell’indispensabile cambio del punto di vista che ha reso il nostro genere preferito più vivo e in forma che mai.
Anche io adoro gli slasher, quindi questo non me lo perderò di sicuro.
Wexler/Fessenden/van den Houten, una tripletta decisamente degna di nota… non c’è da stupirsi che siano riusciti nella non facile impresa di dare una nuova prospettiva al sotto-genere 😉
L’horror indipendente americano deve tantissimo a Fessenden. In pratica sta facendo da padrino a tutti gli esordienti. È una cosa bellissima 😀
Grazie per la segnalazione, l’ho appena finito di vedere e mi piacque.
Per tutto il tempo ho avuto l’impressione di avere già visto Chloë Levine da qualche parte, poi scorrendo sulla sua pagina imdb ho capito anche dove: The Transfiguration, film anch’esso molto interessante, un horror trasversale a base di suburbia e gioventù abbandonata a se stessa.