Cinema degli Abissi: Sweetheart

Regia – J. D. Dillard (2019)

È passato un mucchio di tempo dall’ultimo film veramente abissale, vero? Non che Crawl non conti, per carità, altrimenti non lo avrei proprio inserito in categoria; solo che c’è differenza tra un film dove l’acqua è un elemento, per così dire, accidentale (in quel caso c’era di mezzo un uragano) e un film dove, al contrario, l’acqua è onnipresente, è tutto, è un’immensità blu che circonda un piccolo lembo di terra, ed è la casa di una misteriosa creatura.
Insomma, Cinema degli Abissi puro e semplice: c’è un’isola, c’è un mostro, c’è una naufraga, unico personaggio in scena per tre quarti di film (la parte migliore), e c’è la paura dell’ignoto che arriva puntuale ogni notte, quando la solitudine si fa più intensa e il mostro emerge dall’oceano per nutrirsi.

Sweetheart è una produzione Blumhouse. Eh sì, proprio quel cattivone di Jason Blum, capace di sfornare soltanto i peggiori horror commerciali in circolazione. E invece la Blumhouse è parte integrante del cinema horror indie americano, e ogni anno sforna qualche nuovo talento da tenere d’occhio, grazie alla sua linea produttiva meno appariscente, quella destinata alle piattaforme digitali o al VOD. Sweetheart non è infatti mai uscito in sala: è stato presentato al Sundance di quest’anno, lo ha acquistato la Universal per distribuirlo, ed è finito dritto in digital download, dove in pratica non se lo è filato nessuno, perché in effetti a quale fascia di pubblico potrebbe rivolgersi un film di un’ora e venti scarsa e quasi del tutto muta, ambientato su un’isola deserta, senza spiegazioni di sorta e con protagonista femminile e di colore?
E invece, zitto zitto, Sweetheart ha conquistato la critica, ha cominciato a ricevere recensioni positive, è rimbalzato dalla stampa di settore a quella generalista e, nel suo piccolo, una fascia di pubblico se l’è conquistata.

Il film comincia a naufragio già avvenuto: quando Jenn (Kersey Clemons) approda sulla spiaggia in mezzo al nulla su cui resteremo per quasi tutto il resto del minutaggio, non abbiamo alcuna informazione su di lei; dalla presenza di un ragazzo in fin di vita, che ci lascia dopo pochi minuti, possiamo dedurre che si trovasse su un’imbarcazione con degli amici, poi affondata, e che lei sia l’unica superstite.
È anche una giovane donna piena di risorse perché, invece di fare come avrei fatto io, ovvero mettersi in posizione fetale sulla sabbia e piangere fino a lasciarsi morire, cerca di organizzarsi subito per sopravvivere.
Sull’isola ci sono degli indizi di una precedente presenza umana: uno zaino, delle vecchie foto, una borsa termica con delle bibite ancora dentro. Ecco, Jenn appare soprattutto preoccupata da che fine abbiano fatto i proprietari di quegli oggetti.
Ma lo scoprirà presto.

Non avevo mai sentito nominare J. D. Dillard, e credevo che questo fosse il suo primo film, quando invece si tratta del secondo; è comunque un regista molto giovane e molto interessante. Sweetheart è infatti stato girato in meno di quattro settimane su un’isola delle Fiji, ha un budget che definire micro è un eufemismo, e si pone anche un obiettivo difficilissimo: tenere desta l’attenzione dello spettatore con un’attrice e una minaccia invisibile, o quasi, ma sono dettagli.
Il fatto che riesca, anche se solo in parte, e non per motivi legati ai pochi soldi a disposizione, a raggiungere l’obiettivo e tenere non soltanto desta l’attenzione, ma molto alto il senso di pericolo e, in alcuni istanti, di orrore puro derivati dalla situazione disperata in cui si trova Jenn, sarebbe sufficiente a dargli tutti i dollaroni che servono a dirigere un blockbuster. Ma va benissimo anche se gli fate fare il terzo film con qualche lira in più. Non ci formalizziamo.
Dillard riesce nel suo intento perché capisce il significato della parola mistero, applicata alla carenza di mezzi e alla necessità di sceneggiatura di dare a Jenn un avversario soprannaturale (o naturalissimo, a seconda di come vedete voi i mostri marini); in altre parole, se voglio fare un monster movie, e non ho i soldi per farlo, costruisco l’intero film sull’attesa del suo arrivo. A un certo punto mi toccherà per forza farlo vedere, ma se me la gioco bene, a quel punto avrò già agganciato gli spettatori, e mi perdoneranno dei VFX che sembrano usciti da un film tv dei primi anni ’90.

Seguendo in maniera scrupolosa la prima regola del catechismo carpenteriano, ovvero “mai mostrare troppo, mai sforzarsi di essere chiari”, Dillard, almeno fino all’ultima mezz’ora del suo film, sfiora la perfezione: tra buchi che si aprono sul fondale sabbioso del mare e sinistre apparizioni all’orizzonte illuminate da un razzo d’emergenza (una delle più belle rivelazioni del mostro senza rivelarlo che io abbia mai visto), compie il piccolo miracolo di rendere la sua creatura degli abissi uno spauracchio che risveglia in Jenn antichi terrori infantili, e di conseguenza in noi che guardiamo: l’Uomo Nero arriva dall’oceano, in questo film.
Gli attacchi notturni sono costruiti con una cura maniacale per il sonoro, mentre montaggio e fotografia (va detto: spesso davvero troppo, troppo scura) fanno tutto quello che possono per rendere credibile, agli occhi di un pubblico smaliziato e abituato a vedere sempre tutto in campo, un film di mostri dove il mostro non c’è quasi mai.
Ma Dillard è eccellente anche nella scelta della sua protagonista: Clemons dà a Jenn tutto lo spessore che la sceneggiatura le ha negato. Siamo con Jenn non perché sia un personaggio ben scritto, ma perché l’interpretazione di Clemons comunica tutta la disperazione, tutta la paura, tutta la determinazione di questa ragazza di cui sappiamo così poco.

Ecco, il punto debole del film è, purtroppo  la scrittura e, finché hai un solo attore in scena e una situazione reiterata, puoi anche fare a meno di una storia propriamente detta; si poteva lasciare Jenn da sola per tutto il film a vedersela col mostro e nessuno si sarebbe lamentato, nessuno si sarebbe annoiato.
Evidentemente qualcuno deve aver detto a Dillard che c’era bisogno di altri personaggi, o forse è stato lui stesso ad avvertirne la necessità, non possiamo saperlo.
Sta di fatto che, a un certo punto, decide arbitrariamente di far arrivare qualcuno, e da lì in poi Sweetheart cambia, in peggio. Si tirano fuori conflitti e motivazioni di cui non avevamo bisogno, perché noi stavamo benissimo da soli con Jenn sull’isola. Se è comprensibile il bisogno di movimentare un film statico, di alzare la posta in gioco, persino di spiegare in parte cosa fosse successo agli altri passeggeri della barca naufragata, poteva essere fatto tutto meglio, in maniera più calibrata, con più cognizione di causa. Come se non bastasse, tutto ciò coincide con un’altra scelta discutibile: mostrare la creatura nella sua interezza, rivelando così la povertà degli effetti speciali, prima mascherata con tanta eleganza.
È un peccato, perché fino a quel momento, Sweetheart era il micro budget del mio cuore, e poi è diventato solo un buon esempio di cosa si può fare con un’attrice, una spiaggia e un mostro che non c’è.

3 commenti

  1. Mi dispiace solo che questa pellicola sia uscita in digital download. Sicuramente si sarebbe meritato di essere distribuito nelle sale (anche perché l’effetto dell’oceano e delle sue profondità sono qualcosa da vivere in sala secondo me).
    Comunque mi interessa molto e mi sembra dalla tua recensione un film molto intelligente nella sua messa in scena. Grazie per il consiglio!

  2. Mi è venuto in mente Monster, anche quello un film col mostro “senza” mostro girato con scarsissimi mezzi e pochissimo tempo. Mi piacque molto. E comunque questi film sulle isole deserte dove la gente fa una brutta fine o rischia di farla mi servono, perché così smetto di desiderare ardentemente di andarci a finire, da sola, su un un’isola deserta 🙂

  3. Giuseppe · ·

    Nonostante la tardiva e mal gestita impennata nel numero dei personaggi e nel mostrare una creatura che i modesti VFX consigliavano di continuare a tenere defilata, rimane comunque un buon esempio del fiuto di Blum nel riuscire a scovare giovani talenti 😉

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