Per molti, si tratta del vertice artistico degli antologici Amicus; io non sono del tutto d’accordo, e ne parleremo la settimana prossima, però devo ammettere che è un esempio perfetto di come realizzare un horror portmanteau comprensivo di quattro storie (cornice esclusa) e della durata di appena 88 minuti. Di solito il cinema dell’orrore britannico dell’epoca è famoso per i suoi ritmi letargici, mentre Asylum fila che è una meraviglia, ha uno stile dinamico e, soprattutto, riesce a chiudere la narrazione in un lasso di tempo brevissimo, dando però a ogni segmento un senso di compiutezza che spesso altre antologie, anche se moderne, non hanno.
Questo dipende principalmente dal modo in cui la cornice viene integrata dalla sceneggiatura di Bloch negli episodi, e in seconda battuta dalla bravura dello straordinario Baker, muscolare e aggressivo, con tutte le sue zoomate e i suoi cambi di fuoco repentini.
Se mi leggete da un po’, sapete per forza che Roy Ward Baker è tra i miei registi di horror inglese preferiti; questa è la sua prima esperienza con un horror antologico e la sua prima collaborazione con la Amicus, con cui avrebbe continuato a lavorare molto spesso, almeno fino alla seconda metà degli anni ’70, quando la casa di produzione chiuse i battenti.
Per quanto riguarda Bloch, invece, Asylum è la sua ultima sceneggiatura per la Amicus: da allora, lo scrittore si sarebbe dedicato a materiale prettamente televisivo.
La cornice
I film della Amicus, per distinguersi da quelli della coeva Hammer (e anche per motivi economici) avevano tutti un’ambientazione contemporanea: l’armamentario gotico ottocentesco è abbandonato, ma questo non significa che la Amicus non producesse film gotici, anzi. La grande intuizione sta proprio nell’aver proposto un’idea di gotico moderna, non so se dovuta a una scelta precisa o a necessità, ma inequivocabile.
La cornice di Asylum è, in tal senso, esemplare: siamo in un manicomio, che è spazio gotico per eccellenza, eppure le vicende narrate non solo si svolgono negli anni ’70, ma la loro componente soprannaturale non è certa né dichiarata; fatta eccezione per l’ultimo segmento, che guarda caso, è quello che rubacchia il tema portante dalla sf, il dubbio se si tratti di cose realmente accadute o frutto della psicosi dei pazienti dell’istituto è forte, e Baker e Bloch non hanno alcuna intenzione di fugarlo.
Possono sembrare questioni di scarsa importanza, ma in realtà sono determinanti nel definire l’identità di un gruppo di film poco noti, e spesso anche confusi con i più famosi gotici della Hammer o con quelli americani diretti da Corman più o meno nello stesso periodo.
La storia a cui spetta di fare da collante a tutte le altre vede un giovane psichiatra, Martin, arrivare nel manicomio per un colloquio di lavoro con il medico a capo della struttura, il dottor Starr; al suo posto, tuttavia, trova un altro personaggio, il dottor Rutherford, che gli racconta di come il povero Starr sia crollato psicologicamente e ora sia rinchiuso anche lui in una stanza del manicomio. Per ottenere il lavoro Martin dovrà interrogare vari pazienti e stabilire chi di loro sia il dottor Starr.
A differenza di ciò che accade spesso nei portmanteau, dove la cornice è poco più che una scusa per introdurre le storie, in questo caso la cornice è la storia, il nostro eroe ha uno scopo, una missione da compiere, e le interviste agli internati sono altrettante tappe nello svelamento del mistero, che è anche un gran bel colpo di scena costruito ad arte.
I segmenti
Si comincia con Frozen Fear, in cui la paziente Bonnie, che mai vedremo in faccia fino alla fine, racconta di quando il suo amante ha ucciso la moglie (ricca e fissata con la magia nera), l’ha fatta a pezzi e l’ha nascosta nel congelatore.
Peccato che i pezzi del corpo della donna si siano animati e abbiano aggredito e ucciso il marito fedifrago. Quando Bonnie arriva sulla scena del delitto, si ritrova a doversi difendere da gambe che strisciano sul pavimento, braccia che la afferrano, un torso che le si avvicina minaccioso e, vera immagine da incubo presente anche sulla locandina del film, una testa impacchettata che ancora respira.
Forse oggi un episodio come Frozen Fear potrebbe apparire datato: è, nonostante il tema, del tutto privo di anche il minimo accenno di gore; i pezzi di cadavere impacchettati nella carta da pacchi sono evidentemente finti, le reazioni di Bonnie molto teatrali, eppure devo ammettere che un po’ di inquietudine me la mette sempre. L’idea di un corpo morto che, pur smembrato, continua a volersi vendicare è molto forte e degna dei fumetti della EC (non li sto citando a caso), mentre la messa in scena di Baker, al solito, è quasi visionaria, proprio a causa dei limiti imposti da budget e censura; inoltre, l’esistenza di questi stessi limiti porta a un montaggio sincopato, frammentatissimo e avanti di una ventina d’anni buoni sul linguaggio dell’epoca.
Passiamo al segmento più “gotico” tra tutti quelli presenti nel film, quello che vede Peter Cushing in un ruolo abbastanza anomalo, e Barry Morse de Il Fuggitivo e di Spazio: 1999 a interpretare un paziente convinto di aver confezionato un abito in grado di dar vita alle cose inanimate. The Weird Taylor, questo il titolo dell’episodio, è un bel racconto d’atmosfera, basato tutto sull’aspettativa dello spettatore, che non sa a cosa serva quel vestito che un misterioso gentiluomo commissiona a un sarto sull’orlo del fallimento, imponendogli di usare un determinato tessuto e di lavorare solo a certe orari, quasi sempre notturni. Il sarto è costretto ad accettare, dato il suo bisogno disperato di soldi, ma quando andrà a consegnare il vestito, si accorgerà che il gentiluomo è ridotto male quanto lui. E fosse solo questa la scoperta più agghiacciante della sua giornata.
Cushing, sebbene nei titoli di testa sia uno dei primi nomi a comparire, è sullo schermo per una manciata di minuti e non è neanche il protagonista assoluto. Ma sprigiona lo stesso una classe invidiabile e addirittura fa una cosa che di rado gli ho visto fare in altri film: piange, o meglio, butta fuori un paio di lacrime, che già così fa abbastanza impressione.
Il migliore, nonché il più moderno, tra i quattro segmenti è di sicuro Lucy Comes to Stay, ove non solo potrete ammirare una giovanissima Charlotte Rampling, a cui fa da spalla addirittura Britt Ekland, ma vi delizierete con un’ottima trattazione del tema del doppio, efficace e tagliente, soprattutto se si pensa a come Bloch e Baker l’hanno compressa in circa quindici minuti di montato.
Quando Martin entra nella stanza di Barbara, la prima cosa che la ragazza gli chiede è di chiamare un avvocato, perché lei è lì per sbaglio, non ha fatto nulla di quello per cui la accusano e per cui è finita in manicomio: è stata Lucy, soltanto Lucy, la colpa è tutta di Lucy.
Comincia così un incubo psicologico condotto con rara maestria, che oggi diremmo deve tanto a De Palma, se non fosse che De Palma stava all’epoca cominciando la sua carriera, ma in realtà il riferimento mi serve solo per un motivo: sottolineare quanto Baker fosse un regista in grado di cogliere alla perfezione lo stato del cinema attuale, mettendosi comunque al servizio di una formula consolidata, fosse essa il classico gotico Hammer o quello un po’ più al passo coi tempi della Amicus.
Comunque la si pensi, Lucy Comes to Stay è straordinario, davvero un piccolo saggio di orrore psicologico senza mostri, senza buoni o cattivi, senza la la sconfitta del male o il contrappasso per un personaggio orribile. Credo che Lucy Comes to Stay potrebbe essere preso a esempio del momento in cui il New Horror si è affacciato in Inghilterra.
Conclude l’antologia Mannikins of Horror, non solo ultimo segmento, ma anche ponte tra la cornice e le altre storie: Martin si trova a interrogare uno scienziato di nome Byron (Herbert Lom), convinto di aver creato delle riproduzioni di esseri umani in grado di muoversi, guidati a distanza dalla persona di cui hanno le sembianze; si tratta di robottini molto buffi, con la testa da bambola e il corpo di metallo. E tuttavia, anche se dall’aspetto volutamente comico, i robottini funzionano sul serio, Byron prende possesso del suo e dà il via a una concatenazione di eventi, molto ben gestita, che porta dritti allo svelamento del mistero su chi sia il dottor Starr e al finale, cupissimo, del film.
Vedere Asylum alla fine del 2019 e rendersi conto di quanto, al netto di ogni ingenuità e ristrettezza dovute al budget e alla struttura stessa del film, sia godibile e fruibile a distanza di così tanto tempo, e non per gusto archeologico o per la mia nota passione per cose antiche e un po’ scalcinate, ma per la modernità dei temi che affronta e per come li affronta, dovrebbe avere come principale conseguenza quella di rivalutare e dare un nuovo senso critico alla produzione Amicus: erano di sicuro prodotti inferiori ai fastosi e coloratissimi film Hammer, ma soltanto per un’estetica meno appariscente e per non poter contare sulle vere e proprie icone che la Hammer era riuscita ad accaparrarsi; la Amicus, al contrario, ha dovuto combattere una guerra persa in partenza con storie originali e mezzi limitati, ma ha sempre avuto un occhio più attento per cogliere la direzione che l’horror stava prendendo in quel determinato momento storico. E il film della settimana prossima lo metterà ancora di più in evidenza.
Bene, ora so che film guardarmi. Questo mi interessa molto e poi adoro le pellicole antologiche.
E allora, se ti piacciono gli antologici, preparati a una sorpresa per il 31 ottobre 😉
Perfetto! Data segnata.
L’ho visto giustappunto qualche giorno fa.
Tra quelli che ho visto fino ad ora, degli antologici della Amicus, è quello con l’episodio cornice migliore, ed è ottima la trovata di collegarvi l’ultimo segmento direttamente.
Sono un po’ più freddo di te sul valore degli episodi: il primo mi è sembrato della pochezza tipica del Bloch meno ispirato, il secondo è interessante e ha il sempre grande Cushing ma nel finale manda tutto in vacca, il terzo è bello e ha due interpreti splendide ma secondo me non esprime al meglio il suo potenziale, e alla fine il segmento che mi è piaciuto di più è quello con i bambolotti, shame on me.
Ottima l’idea, durante i titoli di testa, della carrellata sui quadri alle pareti che anticipano vari sviluppi; chissà se Ari Aster ha mai visto il film? 😀
Il mio preferito resta sempre il terzo, perché racconta tutto in maniera molto chiara e in un lasso di tempo brevissimo. Sono d’accordo con te sul finale del terzo, che svacca leggermente. L’episodio coi robottini è forse il più originale e inaspettato, soprattutto in un contesto di questo tipo. Ma il meglio deve ancora arrivare, secondo me.
Ti dirò, la mia impressione è che il finale del secondo possa svaccare molto meno (o addirittura per niente) se si vuol dare come certa la matrice soprannaturale -più che “semplicemente” psicotica- dell’intero episodio, o almeno così ha funzionato per me. Quanto al primo, oltre agli EC Comics che giustamente citi, sono solo io ad averci visto anche un omaggio diretto al racconto breve “The Return of the Sorcerer” di Clark Ashton Smith (il che fa guadagnare altri punti, ovviamente)? 😉
Ottimo il terzo, con entrambe le interpreti di altissimo livello e, quanto al quarto, il segreto di quei robottini è tanto originale quanto inquietante. Non che in quel manicomio ci si possa fidare più di tanto nemmeno di infermieri come Geoffrey Bayldon/Max Reynolds…
Non puoi fidarti soprattutto degli infermieri!
😀
Gente pericolosissima!
“La morte dietro il cancello”: bellissimo! Sicuramente si issa sul mio personalissimo podio Amicus, anzi gli rifilo una bella medaglia d’argento. L’oro immagino tu sappia già di chi è… 😉
Potrebbe essere il mio stesso oro, suppongo 🙂