Regia – Terence Fisher (1961)
The Curse of the Werewolf è l’unico film di licantropi realizzato dalla Hammer e segna l’esordio in un ruolo da protagonista di Oliver Reed, ancora senza la cicatrice sulla faccia che si sarebbe procurato durante una rissa nel 1964 e lo avrebbe caratterizzato fino alla fine della sua carriera. Alla sceneggiatura non troviamo Sangster, ma Anthony Hinds, altro sceneggiatore storico, nonché produttore della Hammer. Il film è tratto dal romanzo di Guy Endore, The Werewolf of Paris, che già era servito da ispirazione per Werewolf of London, del 1935, prima pellicola dedicata ai lupi mannari della storia di Hollywood e per L’Uomo Lupo della Universal, quello con Lon Chaney Jr. ; tuttavia, in nessun caso, prima della Hammer, il libro era apparso nei titoli di testa come fonte da cui il film veniva tratto.
Nonostante fosse la stessa Universal a distribuire negli Stati Uniti la Hammer, né Dracula né Frankenstein né La Mummia potevano essere ufficialmente dichiarati remake.
Il che è abbastanza logico, sia da un punto di vista commerciale e di proprietà intellettuale, sia da un punto di vista artistico, perché bisogna essere davvero stolti o in malafede per definire uno qualunque dei gotici della Hammer remake.
The Curse of the Werewolf è infatti lontanissimo da The Wolf Man, nella trama e nelle atmosfere, ed è anche uno dei pochi film in materia di uomini lupi a non far derivare la licantropia da un morso, ma a presentarla come condizione innata nell’individuo; una maledizione, appunto, come da titolo. O una malattia congenita e incurabile.
Il povero Leon nasce già licantropo, a causa del retaggio dei suoi genitori e della data in cui viene al mondo, il 25 dicembre, solitamente un omaggio alla cristianità, ma nel caso del povero Leon, figlio illegittimo di una violenza, un affronto a Gesù Cristo da pagare con la trasformazione in una bestia famelica a ogni luna piena.
È un campionario di sfighe mai visto, L’Implacabile Condanna: comincia con un mendicante sbattuto in cella senza alcun motivo da un signorotto locale (il film è ambientato in Spagna nel XVIII secolo) e lì rimane per tutto il resto della sua vita; l’unica persona a essere gentile con lui è la figlia muta del carceriere, che cresce e diventa una splendida ragazza (parliamo di Yvonne Romain, e vorrei ben vedere). Per sua sfortuna, rifiuta le attenzioni del signorotto, nel frattempo invecchiato e ridotto a un laido rottame; per il suo rifiuto, anche lei viene imprigionata, nella stessa cella del mendicante. Purtroppo, il poveretto ha perso qualunque caratteristica umana e aggredisce la ragazza.
Da questa violenza nasce il trovatello Leon, cresciuto da uno scapolo benestante e dalla sua governante.
E, in tutto questo, sono passati quasi 35 minuti e il protagonista ancora non è entrato in scena. Ne passeranno almeno altri 30 prima di vedere qualche effetto della sua maledizione e dovremo attendere il finale per la prima e unica apparizione del lupo.
Ammettiamolo: il licantropo come mostro cinematografico dà il meglio di sé a partire dai primi anni ’80, perché è soltanto lì che il progresso degli effetti speciali permette di rendere pienamente sullo schermo un uomo trasformato in lupo; il lupo mannaro, per funzionare, deve essere una belva scatenata, possibilmente con una tragica storia alle spalle, ma anche questo elemento è accessorio, se si pensa a Wolfen o al più moderno Dog Soldiers. Quello che contraddistingue tutti i film davvero riusciti sui licantropi è la natura ferina del mostro, la sua fisicità che può anche sprigionare una forte carica erotica, come in Compagnia dei Lupi o in Ginger Snaps. Da qualunque punto di vista lo si guardi, il licantropo deve essere una presenza forte sullo schermo e non importa neppure per quanto tempo ci stia, la cosa che conta davvero è la minaccia concreta, sanguigna da esso rappresentata.
Questo lo ottieni o con gli effetti speciali o con un attore che abbia un carisma così forte e una fisicità così particolare da non lasciare alcun dubbio sulla sua parte bestiale.
Ed ecco Oliver Reed, anche senza la cicatrice.
L’Implacabile Condanna non è tra i film più memorabili della Hammer: ha un ritmo lento e claudicante anche per i parametri dello studio, di solito tendenti alla letargia; il film decolla dopo davvero troppo tempo e, anche quando lo fa, è una falsa partenza; nonostante la regia di Fisher sia, al solito, impeccabile ed elegantissima, manca qui una direzione vera e propria, anche nella messa in scena. Ci sono intuizioni geniali, come quella di riprendere Reed spesso dietro a grate o sbarre, anche quando non è in prigione, o la scelta del trucco del licantropo, azzeccatissima e di gran lunga superiore a L’Uomo Lupo, ma si può affermare che Fisher ha fatto di meglio in carriera e questo film in particolare vale la pena di essere visto solo perché è il primo ruolo importante di Oliver Reed, all’epoca ventiduenne.
L’interpretazione di Reed di un individuo su cui grava un destino raramente così feroce e spietato è memorabile, proprio perché nel suo modo di muoversi, e nel suo aspetto in generale, covano dei tratti belluini a stento tenuti a freno: anche quando fa l’innamorato, sembra sempre che stia lì lì per dilaniarti il collo. Sprigiona un’energia vitale quasi minacciosa e a stento è necessario truccarlo per vedere il mostro dentro di lui. A queste caratteristiche, Reed aggiunge un’innocenza e una bontà d’animo che ne fanno una figura tragica, patetica, per cui è impossibile non provare pietà. Lon Chaney Jr., con tutto il bene che posso volergli, non aveva dato al suo Larry Talbot tali sfumature.
Ma bisogna pure dare atto alla sceneggiatura di averle inserite, di aver conferito profondità e spessore a un mostro con scarsa fortuna cinematografica, persino negli anni d’oro della Universal; pur mancando la genialità della scrittura di Sangster, la sua capacità di stravolgere il gotico inserendo in strutture narrative classiche tanti piccoli tocchi di modernità tesi a scardinare la natura stessa del genere, L’Implacabile Condanna, pur con tutti i suoi difetti, possiede il tono di una fiaba macabra priva di una precisa collocazione nel tempo e nello spazio; Leon è il primo di una lunga schiera di brave persone a cui capitano cose orribili, uno dei più abusati e sfruttati schemi dell’horror soprannaturale. L’orrore inspiegabile che ti piomba addosso anche quando non te lo meriti e va spezzare tutti i tuoi sogni e le tue speranze. Se nella saga di Frankenstein si era arrivati all’identità tra protagonista e villain, qui il discorso si fa ancora più sottile e si arriva all’identità tra protagonista, villain e vittima; anche in questo, la Hammer si rivela una vera e propria miniera d’oro di concetti fondanti del cinema horror fino ai giorni nostri.
Bellissima recensione.
Il film l’ho colpevolmente ignorato da quando, adolescente, mi capitò di vedere l’ultima scena mentre facevo zapping: la trovai assolutamente inadeguata e mi si spense l’entusiasmo. A breve recupero.
E’ verissimo che il ritmo claudicante è una caratteristica della Hammer di allora, in particolare proprio di Fisher; nei film migliori costituisce parte del loro fascino, creando un’atmosfera rarefatta che fa risaltare le esplosioni sanguigne, altre volte appesantisce in maniera esagerata la visione.
Davvero Reed ti è piaciuto più di Lon Chaney Jr. nei panni di licantropo? Io ho molto ammirato Chaney ne L’uomo lupo, un ragazzone tonto che quando prova a fare il romantico appare ridicolo, con una fisicità straripante ma con gli occhioni molto dolci (mi spezza sempre il cuore la scena nella quale ricorda al padre di portare con sè il bastone dal manico d’argento).
Sì, secondo me Reed dà un’interpretazione più sottile. Credo dipenda anche dalla sua fisicità così particolare. Non era solo un ragazzone, era sensuale, si portava addosso i segni della dannazione.
Questo senza togliere nulla a Chaney, che hai ragione tu, è commovente e dolcissimo.
Film non perfetto, certo che no, ma con un protagonista che riesce a riscattarlo parzialmente dai suoi difetti: la recitazione e la presenza fisica di Oliver Reed rendono alla perfezione il crudele dramma di un innocente e sfortunato Leon, condannato fin dalla nascita da un’ingiusta maledizione a convivere con quel lato mostruoso sempre in agguato anche sotto fattezze umane (possiamo sempre “sentire” cosa si agita dentro di lui, prima ancora di vederlo trasformato fisicamente in licantropo), e che lo porterà all’inevitabile rovina…
P.S. Se non ricordo male, il mendicante finito in cella era quello stesso Richard Wordsworth che aveva impersonato l’astronauta Victor Carroon nel primo Quatermass.