Regia Samuel Fuller (1951)
Nonostante qualche polemica, Corea in Fiamme ottiene un discreto successo di pubblico e critica e la Fox si accorge dell’esistenza di Fuller: lo mette sotto contratto per sette film. Finalmente il regista ha la possibilità di passare di categoria e di girare con un budget decente. Dimenticate quindi i carri armati fatti di cartone di The Steel Helmet e le scene di battaglia con le comparse costrette a interpretare sia i coreani che gli americani a causa della mancanza di figuranti sul set. Dimenticate anche l’approccio rozzo ed esteticamente povero dei primi tre film di Fuller. Questa volta, anche se non possiamo dire che avesse la possibilità di scialare, Fuller può permettersi una rappresentazione della guerra più spettacolare e cinematografica, nonché una vasta gamma di soluzioni artistiche per metterla in scena.
Non bisogna pensare che Fixed Bayonets! (in italiano, non si sa perché, I Figli della Gloria) sia un war movie hollywoodiano, anzi. Anche questa è un’opera dolente non sulla guerra, ma sugli uomini che la fanno e la subiscono, un film corale che però parla di scelte individuali.
Ambientato durante il primo inverno della Guerra di Corea, e quindi tutto sotto la neve, Fixed Bayonets! è la storia di un plotone (48 uomini) lasciato di retroguardia a proteggere la ritirata della sua divisione. In pratica, questi soldati della fanteria devono aspettare sotto il fuoco nemico che un’intera divisione si metta al sicuro, cercando di sopravvivere e facendo credere al nemico di essere numericamente superiori. Siamo dalle parti, insomma, della missione suicida.
Nel film non c’è un vero e proprio protagonista, ma l’attenzione del regista è focalizzata su due personaggi: il sergente Rock (interpretato da Gene Evans, già visto in Corea in Fiamme) e il caporale Denno (Richard Basehart). Il primo è la classica figura alla Samuel Fuller, coraggioso, un po’ cinico, espertissimo e ormai abituato alla guerra e alle sue brutture; il secondo è invece un aspirante ufficiale che non ha però la forza di assumersi la responsabilità del comando, intesa come l’arte di mandare a morire della gente tramite degli ordini. Denno è però fortunato più o meno quanto me e i suoi superiori continueranno a morire fino a che non sarà obbligato a guidare il plotone.
Fuller ha sempre avuto una straordinaria capacità di scrivere dialoghi taglienti e psicologie molto ben definite, anche quando non si preoccupava più di tanto di approfondirle. Questo, a volte, era così preponderante nei suoi film da far passare in secondo piano i dettagli stilistici e prettamente cinematografici. Di Fixed Bayonets restano impressi alcuni scambi di battute tra Rock e Denno, soprattutto quello in cui Rock elenca le motivazioni per cui è rimasto nell’esercito anche dopo aver partecipato alla Seconda Guerra Mondiale: “Some of us ‘cause we’re dumb, I guess. Some are poor. Some are a little lazy. Some of us got some vanity. Some of us old pros stay in even when we
know that after the fighting’s over some of us will rest in peace and rot in hospitals”.
Una delle spiegazioni meno eroiche che io abbia mai sentito in un film, una visione della guerra quasi inerziale, in cui si scivola come in un abito messo tante volte, magari pieno di buchi, ma da cui non ci riusciamo a separare. Fuller, che la guerra la conosceva bene, mostra una empatia enorme per i soldati sul campo (un po’ meno per l’autorità che decide di mandarceli), ma non dà mai l’impressione al pubblico che tutta quella violenza possa essere, in qualche modo, piacevole o bella. Lo si nota dalla facilità e dalla noncuranza con cui i morti vengono subito accantonati e anche dalla scelta di non sottolineare la morte come gesto eroico, ma come un qualcosa che si limita ad accadere.
Tuttavia, dicevo prima, tutte queste sottigliezze del narratore Fuller non devono far passare inosservata la bravura del regista Fuller, che qui è per la prima volta libero di esprimersi senza troppe costrizioni. Parliamo sempre di un film girato in unico set ricostruito in studio (agli occhi dello spettatore odierno, la finzione delle scenografie risulta subito molto evidente) e con un budget basso, ma c’è pur sempre un gigante come la Fox alle spalle e rispetto alla miseria dei primi tre film, sembra quasi di giocare in serie A.
Il che si traduce in un maggior spazio dedicato all’azione. Se Corea in Fiamme era un film fatto di riflessioni ad alta voce, qui è proprio l’azione a portare avanti la storia. E così Fuller gira una delle sequenze più belle della sua carriera, quella dell’attraversamento di un campo minato, con le mine nascoste sotto un manto di neve, per andare a recuperare un soldato ferito. Una roba da divorarsi tutte le unghie e anche i polpastrelli, quasi insostenibile per la tensione, dove a ogni passo si attende l’esplosione. Avendo poi visto in precedenza la facilità spicciola con cui Fuller si sbarazza dei suoi soldati, non siamo mai certi che un personaggio sia al sicuro. Si può morire da un istante all’altro, in Fixed Bayonets, e l’istante successivo essere dimenticati.
È un film di facce, stravolte, stanche, impaurite, riprese in primi piani strettissimi, in panoramiche a 360 gradi all’interno di una grotta per immortalare un momento di riposo prima della ripresa della battaglia, facce che sfilano davanti alla macchina da presa ed escono di campo, facce bruciate dal gelo, parzialmente nascoste dietro coperte, sciarpe, berretti per combattere il freddo, indurite dalla fatica e dalla vicinanza costante della morte, dalla costrizione, non voluta e non auspicata, a comportarsi da eroi. E il bello è che, non essendoci la star di turno a dominare la scena, sono facce tutte uguali, facce comuni, le facce di 48 uomini lasciati al loro destino.
Si tratta di un cinema di guerra diversissimo da quello contemporaneo, a partire da Spielberg per arrivare al Gibson dello scorso anno, che ha l’obiettivo di portare lo spettatore dentro la guerra, quasi fosse anche lui sul campo di battaglia. Un’opera come Fixed Bayonets non ricerca il realismo e l’immersione nella battaglia (in parte perché non poteva ancora farlo, all’epoca, in parte perché non vuole farlo), ma nei momenti di attesa tra uno scontro a fuoco e l’altro, quelli in cui i soldati parlottano tra loro di cose insignificanti o si massaggiano i piedi perché il freddo non li congeli e non arrivino a perdere le dita o, ancora, mentre mangiano in una grotta scavata sul fianco di una montagna. Se c’è del realismo è in questa quotidianità, in queste piccolezze cui è sempre stato dato scarso spazio filmico.
C’è da chiedersi se, a differenza di Corea in Fiamme, Fixed Bayonets, non sia un film di pura propaganda. Di sicuro gli manca la componente eversiva che aveva fatto scandalo solo pochi mesi prima, quei discorsi sul razzismo nell’esercito e, di conseguenza, interno alla società americana che aveva sollevato non poche polemiche, oltre a mostrare un soldato statunitense che spara a sangue freddo a un prigioniero americano disarmato. Qui, oltre al controllo dell’onnipresente Zanuck, c’era anche un consulente mandato dall’esercito sul set, perché vigilasse su un’adeguata rappresentazione delle forze armate, la medaglia al valore Raymond Harvey. In seguito, lui e Fuller sarebbero diventati amici e Harvey sarebbe tornato come consulente anche su un altro film del regista, Verboten! del 1958. Ma ciò non toglie che, mentre Corea in Fiamme era un’opera indipendente in tutto e per tutto, che poteva permettersi di fare un po’ quello che voleva, Fixed Bayonets è, in molti suoi aspetti, un classico prodotto dell’epoca, un film su una guerra in corso che non poteva mettere in cattiva luce i soldati al fronte. Insomma, la comprensione e il rispetto per il nemico qui ve li potete scordare e, se ci fossero dei dubbi in proposito, le parole del sergente Rock sono chiarissime: “You’re not aiming at a man. You’re aiming at the enemy”.
A parte questo, che comunque conferisce al film anche un certo valore come documento storico, Fixed Bayonets è un ulteriore passo avanti per Fuller e un esempio roccioso e coerentissimo del suo stile.
Piccola (neanche troppo) curiosità: verso la fine del film, se ci fate caso, appare per pochi secondi James Dean, qui alla sua prima volta su grande schermo, non accreditato.
Fixed Bayonets lo definirei un titolo di “parziale” propaganda: qui Fuller, pur senza rinunciare ad empatizzare con i soldati sul campo di battaglia (che conosceva) in piena coerenza con la propria antieroica filosofia bellica, non ha potuto spingersi oltre per via della gabbia impostagli dal potente produttore e dalla supervisione dell’esercito (alla quale anche un personaggio per nulla retorico né patriottico -e la cosa non doveva essere sfuggita a Raymond Harvey- come il sergente Rock ha dovuto pagare pegno con la totale disumanizzazione del nemico)…
Questo è uno di quei tipi di film che mi interessano molto. Adoro le storie che parlano dei personaggi e che li mettono in primo piano e quando come sfondo c’è la guerra allora il film mi incuriosisce subito. Grazie mille!