Regia – Ida Lupino (1953)
Febbraio, ormai dovreste saperlo tutti, è il Women in Horror Month, quell’iniziativa annuale che mira a dare visibilità al lavoro femminile nel cinema, nella narrativa e in qualsiasi ambito artistico legato al nostro (non) genere preferito. Ho pensato che potevamo celebrarlo insieme parlando di qualche film horror diretto o scritto da donne e cominciando proprio con Ida Lupino, un po’ perché il 4 febbraio è stato il centenario della sua nascita, un po’ perché è la capostipite e la madre putativa di ogni regista che si sia mai cimentata nel cinema di genere, nel B movie o anche solo nel dirigere un film indipendente.
Già, perché Lupino aveva la sua casa di produzione, fondata insieme al marito, che le permetteva di operare ai margini del sistema degli studios hollywoodiani. Altrimenti nessun produttore avrebbe mai finanziato un progetto che vedesse una donna alla regia, all’inizio degli anni ’50.
E infatti, la prima volta dietro la MdP di Lupino avviene quasi per caso: il regista Elmer Clifton, impegnato sul set di Not Wanted (prodotto da Lupino e dal marito) ha un malore e non può portare a termine le riprese. Lupino lo sostituisce e dirige, anche se sceglie di non essere accreditata per rispetto del collega.
La carriera da regista dell’unica donna ad aver diretto un episodio della serie originale di The Twilight Zone (nonché unico regista ad averne anche interpretato uno, non lo stesso) comincia quindi nel 1949, quando Lupino aveva già alle spalle un numero considerevole di film da attrice. Il passaggio alla regia è una cosa naturale, dovuta al fatto che ormai Lupino trovava noioso stare su un set mentre “qualcun altro sembrava fare il lavoro più interessante”.
E così, Ida Lupino, tra il 1949 e il 1953, dirige sette film per il cinema, per poi passare a lavorare in pianta stabile in televisione. Questo è imputabile al fatto che la sua casa di produzione chiuse i battenti nel ’55. Lupino non era più il “capo” e doveva tornare a fare quello che, secondo la Hollywood degli anni d’oro, alle donne era più congeniale: stare davanti e non dietro la macchina da presa. E tuttavia, quei sette film (più una commedia diretta nel ’65) sono considerati da critici e registi a lei successivi come delle importanti lezioni di tecnica, stile e anche furbizia produttiva: Lupino fu la prima a usare, per finanziare i suoi film, quelli che oggi vengono chiamati product placement; girava in ambienti reali al fine di non spendere troppo nell’affitto di teatri di posa e, spesso, lo faceva senza permessi, così da dover adottare quelle tattiche da guerriglia cinematografica note a chi ha una certa dimestichezza con il cinema indipendente degli anni ’60 e ’70; non aveva paura di affrontare tematiche difficili, come la violenza sessuale (centrale del suo capolavoro, Outrage); si muoveva in un circuito di serie B, fatto di film a basso costo, senza star e girati in fretta e furia e per questo poteva permettersi di rischiare; aveva uno stile aggressivo, che avrebbe poi influenzato autori come Samuel Fuller, Robert Aldrich, Nicholas Ray.
The Hitch-Hiker (in italiano, La Belva dell’Autostrada) è considerato da più parti come il primo noir della storia del cinema a essere diretto da una donna, ma molti critici di settore lo considerano un film dell’orrore. È difficile dar torto a entrambe le versioni: il film è sicuramente un noir, ma anomalo, perché sceglie di svolgersi in spazi aperti e ripresi in maniera naturalistica, al posto delle classiche ambientazioni urbane dei noir; è anche un thriller psicologico così teso e serrato da sconfinare più volte in territori di competenza del cinema horror, proponendo uno schema che sarà molto utilizzato una ventina di anni dopo, dagli horror on the road americani e australiani. Da qualunque punto di vista lo si voglia guardare, The Hitch-Hiker fa parte dei fondamentali.
Racconta di due amici in vacanza insieme che fanno salire a bordo un autostoppista. L’uomo si rivela essere un pericoloso assassino in fuga, con già tre omicidi sul groppone e ricercato dalla polizia americana e messicana.
Il criminale obbliga i suoi due ostaggi a portarlo fino alla cittadina di Santa Rosalia, dove è sua intenzione prendere un traghetto per attraversare il Golfo della California. Alla fine del viaggio, quando non avrà più bisogno di loro, dice senza mezzi termini che li ucciderà.
Il film è vagamente ispirato alle vicende di uno psicopatico, Bill Cook, giustiziato nel 1952. In parte è quindi una sorta di istant movie realizzato per capitalizzare su una serie di eventi macabri di cui il pubblico americano era a conoscenza. Non è nulla di scandaloso, anzi: all’epoca (e non solo) le case di produzione che non potevano contare sulla pioggia di soldi a disposizione dei grandi studios vivevano di questi espedienti. Erano quelli che portavano la gente al cinema. E ancora ce la portano, se è per questo.
Ciò che conta è il taglio che Ida Lupino (anche co-sceneggiatrice) decide di dare alla storia. Si tratta di un taglio quasi esistenziale, tutto basato sull’amicizia tra i due protagonisti positivi, uomini comuni, niente affatto eroici, e in netta contrapposizione al loro antagonista grazie a un concetto di mascolinità molto differente. Non a caso, l’autostoppista li accusa spesso di essere troppo fragili, deboli, delle femminucce, che potrebbero salvarsi se agissero ognuno per sé. Il suo obiettivo, oltre a sfuggire alla polizia, è spezzarli da un punto di vista psicologico, affermare con la violenza la sua personalità di uomo forte sulle vittime che si è scelto e che tortura dall’inizio alla fine del film, mentre quei due poveracci cercano un modo per scappare non venendo meno ai loro principi.
Da questo punto di vista è più horror che noir, quell’horror che mostra lo scontro tra due visioni incompatibili del mondo, uno scontro che poi diventa lotta per la sopravvivenza, un po’ un survival ante litteram, se vogliamo, come Outrage era un rape and revenge con quel paio di decenni di anticipo sul resto del mondo.
In un certo senso, e perdonatemi se sembro irriverente, Lupino e la sua casa di produzione facevano exploitation prima che esistesse il termine, prima che Corman si affacciasse a Hollywood, prima di chiunque altro, insomma. Ovviamente, la parola exploitation forse non calza a pennello con il cinema di Ida Lupino, perché non vi era all’inizio degli anni ’50 la mentalità che poi avrebbe sorretto la nascita, il successo e la morte dell’exploitation. Eppure, film come questo hanno aperto la strada a un cinema periferico rispetto alla grande distribuzione, che si poteva permettere un’audacia impensabile per i grossi film sottoposti alle restrizioni severissime del Codice, aggirato più volte da Lupino perché si trattava solo di serie B.
Serie B pensante, però, lontana sia dai cliché hollywoodiani dell’epoca sia da quelli che avrebbero caratterizzato l’horror del futuro. Ma quanto avrebbero capitalizzato opere come Le Colline hanno gli Occhi o Deliverance sugli spunti offerti da The Hitch-Hiker? Il lavoro fatto sul paesaggio e sulle strade deserte da Lupino, per esempio, al fine di renderle alienanti quanto e forse più delle grandi città dei noir, e senza l’uso di troppi artifici fotografici, che però vengono sfruttati al meglio nelle sequenze notturne e in quelle che si svolgono nell’abitacolo dell’auto; il senso di isolamento dato dallo spazio sconfinato, sempre più ampio intorno ai personaggi mentre il film procede e i primi piani quasi spariscono in favore dei campi lunghi.
Sono solo due caratteristiche del film che ritroverete pari pari in tantissimi survival degli anni successivi. A sottolineare come i film di Ida Lupino siano stati studiati e assimilati da tanti suoi futuri colleghi, rendendola, di fatto, uno dei più grandi maestri del cinema americano.
Sommersa e mai abbastanza citata quando si tratta di elencare le pietre miliari e i capisaldi, quasi il suo nome fosse relegato alle bizzarrie del cinema e non alla sua Storia, quella con la S maiuscola. Eppure questa artista così eclettica, talentuosa e capace di imporsi in un contesto a totale dominazione maschile ha segnato in profondità, sia come attrice dal volto indimenticabile (si definiva, ironicamente, la Bette Davis dei poveri e, alla regia, la Don Siegel dei poveri), sia come una delle prime signore dietro la macchina da presa, il paesaggio dell’immaginario cinematografico americano. E ha insegnato a fare cinema a tanti che poi si sarebbero mossi ai margini della macchina strangolatrice hollywoodiana. Per quanto mi riguarda, Ida Lupino è un modello da seguire e un esempio illuminante di come non esistano tematiche e generi che una donna non può affrontare e, ogni volta che una giovane regista riesce a fare il suo film, è a lei che dovrebbe mandare un ringraziamento.
Una nota volante sul noir anomalo che si svolge in spazi aperti: il primo titolo che mi viene in mente è “High Sierra” (Una Pallottola per Roy),che si svolge in scenari simili, ed è interpretato naturalmente da Bogart, e da Ida Lupino.
Serie B di serie A, come anche The Hitch-Hiker sta indubbiamente a dimostrare. Libera, coraggiosa e indipendente, Ida Lupino… e sì, mantenendo le debite proporzioni, anche la futura exploitation propriamente detta avrebbe contratto più di un debito nei suoi confronti.
Onore a Ida Lupino. Questo film lo vidi una volta in televisione (ovviamente a orari orrendi). Mi era piaciuto e probabilmente lo rivedrò con piacere.