Speciale Samuel Fuller: Ho Ucciso Jesse il Bandito

 Regia – Samuel Fuller (1949)

Se esiste qualcuno a cui sta a pennello la definizione di reietto di Hollywood, quello è Samuel Fuller. Pensare che, in patria, è stato considerato una sorta di registucolo di B movie per gran parte della sua carriera, è una cosa che mi provoca scoppi di ilarità scomposta. Nel frattempo, i grandi autori della Nouvelle Vague francese lo inserivano tra le loro maggiori influenze stilistiche (il suo cammeo in Pierrot le fou di Godard è da vedere). Più tardi, la New Hollywood lo avrebbe considerato uno dei suoi padri putativi: Scorsese è arrivato ad affermare (e nessuno sano di mente darebbe torto a Scorsese) che non amare Fuller equivale a non amare il cinema, mentre Spielberg gli ha offerto un ruolo nello sfortunatissimo 1941. Ma gli attestati di stima da parte di giganti del cinema di ogni parte del mondo non si fermano qui: Luc Moullet, Aki Kaurismäki, Wim Wenders, Quentin Tarantino, Jim Jarmusch sono solo alcuni dei registi innamorati dei film di Fuller.
Eppure il pubblico generalista lo conosce a malapena, eppure tra il 1969 e il 1980 non ha diretto nulla, se si esclude un episodio per una serie tv tedesca nel ’72, eppure dopo la sua opera di maggior successo, Il Grande Uno Rosso, ha avuto grosse difficoltà a proseguire la carriera e, alla fine, se ne è andato dagli Stati Uniti promettendo che non avrebbe mai più girato un film americano. Vedremo, andando avanti con lo speciale, in quali modalità tutto ciò è avvenuto. Per il momento accontentatevi di sapere che si tratta di una storia molto interessante, una vera storia da outsider e da pioniere. La storia di un reietto, quella di Samuel Fuller.

Fuller, nato nel 1912, a 17 anni era già cronista a New York e autore di romanzi pulp. Entrambe le esperienze hanno pesato sul suo modo di fare cinema, definito da qualche critico come “narrative tabloid”. Le vicende narrate nei film di Fuller sono sempre forti, tragiche, violente, mentre lo stile del regista è primitivo e, soprattutto agli esordi, schematico. Fuller non è mai andato troppo per il sottile, anche perché forse non ha mai avuto, tranne in rarissime occasioni, il budget per farlo.
Mentre si affermava come giornalista, scrittore e sceneggiatore, scoppia la Seconda Guerra Mondiale e Fuller sai arruola, combattendo su quasi ogni fronte e tornandosene a casa pluridecorato.
Insoddisfatto del modo in cui i registi trattavano le sceneggiature da lui scritte, decide di mettersi dietro la macchina da presa e accetta un contratto per tre film con il produttore indipendente Robert Lippert. L’accordo prevedeva che Fuller non venisse pagato per la regia, ma solo per la stesura degli script.
Ed è con questa formula che Fuller finalmente esordisce con un western molto atipico, basato sulla figura di Robert Ford, famoso per aver tradito e ucciso Jesse James.

Il mito legato al bandito James e alla sua banda è stato affrontato parecchie volte dal cinema. Solo fino al 1949, anno dell’uscita di I Shot Jesse James, erano già stati fatti ben sette film a lui dedicati. Ma Fuller decide di prendere una strada diversa, di far uscire James di scena quasi subito e di concentrarsi sulla vita di Ford (John Ireland) dopo aver ucciso l’amico e collega sparandogli alla schiena, in quella stessa casa dove era stato ospite per sei mesi.
Il film, a parte ricreare il momento dell’omicidio in maniera abbastanza accurata (anche se escludendo dalla scena il fratello di Robert)l, non vuole avere alcuna attendibilità storica e inventa un personaggio di sana pianta, quello di Cynthy, interpretata da Barbara Britton, un’attrice di cui Ford è innamorato e che vorrebbe sposare.
Così, la storia di un tradimento diventa invece quella di un uomo che uccide per amore, ovviamente non corrisposto, e Ford si trasforma in una figura tragica, nel primo della vasta galleria di sbandati ed emarginati che hanno popolato la filmografia di Fuller.

I Shot Jesse James è un film a bassissimo costo, come tutti quelli prodotti da Lippert (anzi, su di lui andrebbe fatto un post a parte), con attori reclutati tra quelli a cui era scaduto il contratto con i grandi studios, girati in fretta e furia, risparmiando su ogni cosa. B movie in tutto e per tutto, insomma. Fuller si sarebbe trovato spesso, nel corso della carriera, a operare a basso budget e l’esperienza di ben tre film con Lippert deve essere stata una bella palestra per imparare a girare in qualsiasi condizione.
È un esordio in cui si notano, ancora in fase embrionale, i temi che poi diventeranno una costante nel cinema di Fuller: l’individualismo esasperato, la rottura dei codici morali,  l’impulsività quasi belluina dei personaggi. Anche se nominalmente si tratta di un western, I Shot Jesse James ha molte caratteristiche in comune con il noir, a partire dal protagonista maledetto, che compie un gesto riprovevole da un punto di vista morale sperando di raggiungere un determinato obiettivo, e poi vede quell’obiettivo allontanarsi sempre di più, fino a diventare un miraggio. C’è aria di dannazione, in I Shot Jesse James, ci sono il tormento, il rimorso e la vergogna e, non appena Ford sceglie di premere il grilletto e uccidere il suo amico, è incombente la presenza della morte, la certezza di aver imboccato una strada senza uscita.

Fuller era una macchina da cinema sin dalla sua prima prova da regista. E in questo ha ragione Scorsese: Fuller lo capisce solo chi ama il cinema in quanto tale, e lo ama perché ne conosce i meccanismi. Pur essendo stato soprattutto un giornalista e uno scrittore fino al 1949 (parleremo a tempo debito delle sue esperienze con la MdP al fronte), Fuller sembra aver assimilato, quasi fosse connaturata in lui, l’essenza del mezzo cinematografico, tanto che è difficile immaginare le sue storie raccontate attraverso altri media. Guardare un’opera di Fuller significa rendersi conto di quello che il cinema può fare quando è sfruttato al massimo e, anche in un film minore, costato una miseria e dalla sceneggiatura non brillantissima, Fuller riesce a sfruttare tutto il potenziale di ciò che ha a disposizione.
Il film può tranquillamente essere ridotto a una serie di confronti a due: Ford e James, Ford e Cynthy, Cynthy e il suo impresario, Ford e Kelley, Ford e il musicista girovago che non ne conosce l’identità e finisce per cantargli la Ballata di Jesse James. È nel corso di questi confronti che Fuller dà il meglio di sé. Non è un film in cui si può puntare all’azione, ridotta al lumicino per ovvi motivi, e non è neanche un film dai dialoghi memorabili. La bellezza di I Shot Jesse James è tutta nella composizione dell’inquadratura e nel modo in cui gli attori vengono posizionati e fatti muovere.

Sono riscontrabili, nell’esordio di Fuller, anche una modernità e un’audacia fuori del comune, a partire dalla scelta del soggetto e del punto di vista adottato, quello del vigliacco e traditore Ford, odiato da tutti e da tutti abbandonato.
Ma la modernità non è solo nel tema, è anche nello stile: non si girava in questo modo nel ’49, e sebbene il film sia stato realizzato come un B movie da uno studio di seconda fascia (tutto in interni), già si nota quella volontà di risvegliare le emozioni dello spettatore che Fuller chiamava “the emotion picture”. Non stupisce quindi che le opere del regista siano poi state un modello per la New Hollywood, così distanti dall’impostazione del cinema classico. E persino in un film rozzo come questo, il futuro di un grande regista si intravede tra le righe, in sequenze memorabili come quella della morte di Jesse James, o del duello che porrà fine alla vita di Ford.
Non si tratta di un esordio folgorante, non si tratta di un capolavoro, perché quelli arriveranno dopo. È la prima testimonianza di un cambiamento che stava prendendo piede nel cinema americano e che ci avrebbe messo anni per essere compiuto. Fuller è stato uno dei principali pionieri di questo cambiamento. E sarà una bella avventura riscoprire la sua intera filmografia.

3 commenti

  1. Giuseppe · ·

    Non un capolavoro, no, ma un’opera prima che qualche indizio sui capolavori futuri già lo dava, è vero. Particolarmente azzeccata per la parte di Ford la scelta di John Ireland, bravo e purtroppo dai più dimenticato attore che nonostante la lunga carriera (anche televisiva) non è mai riuscito a sfondare davvero…

    1. John Ireland è un Ford eccellente. Azzecca completamente quel miscuglio emotivo di orgoglio e rimorso che lo caratterizza. Peccato davvero che non abbia mai avuto un’occasione vera.

  2. Sempre piacevole leggerti, chapeau. Merçi.

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