Regia – Olivier Assayas (2016)
Sapete perché è bello gestire un blog come il mio, ovvero privo di una direzione precisa? Perché una settimana posso scrivere un articolo che esalta Fast & Furious e la settimana successiva posso scriverne un altro su Personal Shopper, senza che le due cose mi sembrino in contraddizione tra loro. Poi sì, con ogni probabilità lo sono, e questo mio atteggiamento potrà dare fastidio ai cultori del cinema d’autore e a quelli del cinema popolare e disimpegnato a tutti i costi. Ma non posso farci niente: è il modo in cui sono fatta e ho sempre vissuto l’atto di vedere film.
Soprattutto, resto affascinata dal modo in cui il genere contamina il cinema d’autore e viceversa e mi piace capire come un regista del calibro di Assayas si diverte a usare un linguaggio che è tipico dell’horror e del thriller per piegarlo a suo piacimento e in base alle sue personali ossessioni. Non perché l’horror abbia bisogno di essere nobilitato da un regista “serio” che gli fa l’elemosina, ma in quanto prova definitiva del fatto che ormai l’horror (o il perturbante, chiamatelo come volete) sia diventato parte integrante di un discorso autoriale.
Questa idea di mescolare un linguaggio considerato da sempre “basso” a delle tematiche “alte”, è presente nel cinema da, a volersi tenere stretti, almeno un paio di decenni, ma in Personal Shopper viene portata al livello successivo, con un abuso vero e proprio di volgarissimi (signora mia) jump scares e apparizioni di ectoplasmi in CGI che nemmeno nei film della Ghost House dei primi anni di attività. Roba che farebbe vergognare Jason Blum e che, in questo particolarissimo contesto, funziona per una serie di ragioni che non sono del tutto chiare persino a me. E io dovrei avere un minimo di cognizione di causa, dato che ho l’ardire di scriverne qui sul blog.
Credo che ci voglia molto coraggio per affrontare una trama del genere in maniera così seria e cerebrale e, allo stesso tempo, sfruttare i trucchi tipici degli horror di serie B.
La storia di Maureen, a Parigi per ricevere un segno dal gemello morto da poco, che fa la personal shopper per una diva capricciosa e insopportabile e, nel frattempo, passa le notti in una vecchia casa, aspettando che il fratello si manifesti in qualche modo, potrebbe essere la base di uno di quei filmacci da presentare nel nostro amato Ciclo Zia Tibia. Ma è, appunto, solo una base su cui Assayas costruisce un complicatissimo edificio di inquietudini e morbosità legate a doppio filo, tra le altre cose, alla nostra vita contemporanea, fatta di alienazione e comunicazione virtuale, e popola questo edificio di dolore e lutto, e dell’incapacità di superarlo.
Come se non bastasse, il regista prende a piene mani non solo dall’horror sovrannaturale, con tutto il suo corollario di apparizioni, colpi, bicchieri che si rompono da soli e luci sinistre, ma anche dal thriller di derivazione hitchockiana. O depalmiana, che è a sua volta una derivazione.
Il risultato è un film raffinatissimo anche quando si sporca le mani con il grossolano, come nella sequenza in cui Maureen (Kristen Stewart) entra finalmente in contatto con una non meglio identificata entità femminile (anche parecchio incazzata) e Assayas è spudorato nell’avvalersi di ogni singolo espediente, anche i più triti e vigliacchi, per mettere paura al pubblico. Il miracolo è che ci riesce e ci riesce anche bene. Ora, per compiere un’operazione simile, devi avere una base solida di studio alle spalle, perché i codici di genere sembrano semplici da usare, ma non lo sono affatto. E bisogna anche considerare che, escluse tre o quattro scene da manuale dello scary movie, per il resto delle sue due ore e passa di durata, Personal Shopper non somiglia mai a un film di genere e che quelle particolari scene, inserite in determinati momenti, risaltano ancora di più, spiccano come dei giganteschi sfregi su un dipinto appeso nel salotto buono.
Sono sequenze lunghissime, protratte fino alla sfinimento dello spettatore, che vanno a spezzare le aspettative di chi cercava una ghost story “normale” e a spingere al limite la sospensione di incredulità del pubblico normalmente avvezzo a un cinema realistico e d’autore.
Personal Shopper è quindi un’opera che si prende rischi enormi, perché non vi aspettate di sedervi su una specie di otto volante: il film è tosto da seguire, molto statico, ambiguo ed enigmatico e non vi concede una spiegazione neanche se vi gettate in ginocchio e supplicate. Si permette di sostenere un passaggio dalla durata elefantiaca basandolo interamente su uno scambio di messaggi su uno smartphone e, se tutta la frustrazione che avete provato fino agli ultimi minuti non fosse già abbastanza, vi nega il climax finale con il presunto cattivo della situazione, sbattendovi la porta in faccia e lasciandovi a rimuginare su cosa diavolo sia davvero accaduto.
Affidata alla (per molti, ma non per me) insospettabile bravura della Stewart che è sempre in campo e sostiene il film in pratica senza l’ausilio di comprimari, Personal Shopper non è un’opera che si presta ad alcuna classificazione, le sfugge, sembra essere diventato un genere e poi scivola all’improvviso in un altro, sembra rientrare nei ranghi più stabili e ufficiali del cinema d’autore e poi ti si rivolta contro e ti sommerge di sangue, per poi tornare a sorprendere con un finale passibile di tante interpretazioni differenti, che manderà in tilt più di qualcuno e scatenerà domande a non finire. Da un certo punto di vista, soprattutto per le atmosfere rarefatte e il contatto con la realtà ogni istante più labile della protagonista, mi ha ricordato Carnival of Souls. E voi sapete tutti cosa penso io di Carnival of Souls.
L’audacia va sempre premiata, soprattutto quando non è fine a se stessa, ma parte di un discorso linguistico e contenutistico di estrema coerenza, anche se radicale e non alla portata di chiunque. Si tratta comunque di un horror o di un film gotico, a seconda della categoria che preferite, che tenta di dare ancora un briciolo di spazio al dolore, al mistero, alla paura e al desiderio in un mondo che tutti questi elementi li rifiuta perché ha il terrore di scoprirsi fragile e indifeso di fronte a essi. E infatti, i fischi ricevuti a Cannes potrebbero essere presi a simbolo di questa paura che molti hanno di specchiarsi nella propria angoscia esistenziale.
Mi hai affascinato sorellina
Questo film mi interessava da un po’ di tempo ormai e il tuo articolo non ha fatto che aumentare questo mio interesse.
Non c’entra, ma posso chiederti che ne pensi di 13, se l’hai visto? Io mi sono forzato a proseguire dopo i primi due o tre episodi che non mi convincevano del tutto, e alla fine l’ho trovato splendido, scritto con una precisione mai compiaciuta, recitato alla grande, credo non lo dimenticherò tanto in fretta.
Ma 13 la serie, dici? Quella su Netflix?
Sì, l’ho vista e la penso esattamente come te. Una coltellata.
sì quella
M’incuriosisce per le sue assonanze con Carnival of Souls, oltre che per la prova di una Kristen Stewart sempre più affrancata da quel di Twilight (meno male, per noi e per lei)…
Visto proprio ieri sera dopo che era rimasto in lista d’attesa per un bel po’. Visione sorprendente. Con me prende già tanti punti un film con atmosfere rarefatte capace di prendersi i suoi tempi senza sentire il bisogno di nutrire di stimoli lo spettatore (sempre più spesso vittima di catatonia da assenza di input ben definiti). Mi ha piacevolmente sorpreso l’incastro della storia nella storia e la possibile relazione tra i due che cercano di gestire in modi diversi il “distacco”.
Il finale me lo sono rivisto tre o quattro volte cambiando ogni volta idea. Il dubbio, gran valore aggiunto.
Proprio così: è un film molto interessante proprio per come dilata i tempi e per come spinge alla riflessione.
E il finale… Io ancora ci sto rimuginando sopra.
Lei è morta in quella stanza d’hotel.
(credo)
Ci ho pensato anche io ed è una delle interpretazioni possibili, ma non credo sia l’unica.
Quali quali io curioso!