Regia – Janye Loader, Kevin Rafferty, Pierce Rafferty (1982)
Avevo promesso di procedere in ordine cronologico ed è proprio ciò che ho intenzione di fare. Tuttavia, per aprire la nostra (perché sono tutti film suggeriti da voi) rassegna sulla paura della bomba, credo non ci sia niente di meglio di questo documentario costato ai suoi realizzatori cinque anni di lavoro e scaturito dall’assemblaggio di centinaia di filmati girati in un arco di tempo che va dalla seconda metà degli anni ’40 ai primi anni dei ’60.
Si tratta di filmati propagandistici, di spot pubblicitari, di spezzoni di cinegiornali, di interviste d’epoca, di dichiarazioni di presidenti e politici, in un susseguirsi di immagini che vanno dall’assolutamente ridicolo all’assolutamente terrificante. E spesso le due cose confluiscono in un’unica inquadratura.
Se l’idea di portare avanti su questo blog una piccola retrospettiva dedicata al cinema atomico nasce dal desiderio di vedere in che modo il mezzo cinematografico fotografava, filtrava, ingigantiva o, in alcuni casi, minimizzava una delle paure più radicate di un determinato periodo storico, quello della guerra fredda, allora prima di parlare di finzione scenica, è interessante dare un’occhiata a del materiale d’archivio preso, montato e sbattuto in faccia allo spettatore senza apportare alcun tipo di manipolazione.
Eppure, qui bisogna stare molto attenti. Perché (ed è ovvio) la manipolazione c’è. È insita nel montaggio, che è forse una delle forme di manipolazione più raffinate. Montare non significa solo scegliere, significa anche raccontare. Il racconto di Atomic Cafe è quello di una nazione psicotica. La nazione più potente del mondo, agginugiamo, tanto per comprendere il grado di psicosi e l’influenza di questa psicosi sugli altri paesi al di qua della cortina di ferro.
Noi conosciamo l’America del boom del dopoguerra attraverso il cinema. È in quel momento che l’immaginario collettivo occidentale è stato plasmato da quello americano. Eppure è difficile, anche oggi a distanza di oltre mezzo secolo, avere l’esatta percezione di cosa volesse dire vivere nel terrore. Guardando The Atomic Cafe non dico che riuscirete a comprenderlo con precisione, ma avrete di sicuro un ritratto molto fedele dell’atmosfera che si respirava in quegli anni, sebbene sbiadito dal passare del tempo e dalla sostituzione del terrore atomico con altri tipi di terrori. Ciò che non è cambiato, credo, sono i mezzi attraverso cui la paura viene fatta penetrare nella società. In questo senso, The Atomic Cafe è ancora molto attuale, considerando che nel 2015 ci sono infiniti mezzi di propaganda in più rispetto a quanti se ne avevano a disposizione negli anni ’50.
Eppure, il periodo della grande paura atomica è molto peculiare perché compito dell’informazione non era solo quello di far si’ che gli americani temessero il loro nemico sovietico e le sue potenzialità distruttive. In un certo senso, a quel popolo terrorizzato veniva anche richiesto di amare la bomba atomica come strumento di difesa, rappresaglia e anche di deterrenza, nonché come baluardo dei valori di libertà e democrazia. Questo indottrinamento molto ambiguo è reso alla perfezione dal montaggio di Loader e Kevin Rafferty.
Si comincia con Hiroshima e Nagasaki, ovviamente, col discorso di Harry Truman dopo il lancio della bomba, in montaggio alternato con i festeggiamenti per la vittoria in terra americana e con immagini che documentano gli effetti delle radiazioni sulla popolazione delle due città colpite. In questo modo gli autori di The Atomic Cafe impostano subito lo stile del film, quel bilanciamento tra spensieratezza e orrore che lo rende un’esperienza così straniante.
Ci vuole una profonda fiducia nel potere delle immagini per affidarsi solo a loro e alla musica (unico elemento aggiunto) nella costruzione di un racconto complesso, e dalle innumerevoli sfaccettature e possibilità interpretative. Un racconto che ci porta a spasso per le contraddizioni di un popolo, dal militarismo aggressivo, alla sincera convinzione di trovarsi dalla parte giusta, da un bisogno disperato di tranquillità e sicurezza dopo un lungo conflitto, alla noncuranza con cui si accetta di vivere a continuo rischio di distruzione totale, da un marcato sentimento di superiorità nei confronti del resto del mondo (la cui inevitabile conseguenza è quella di volersi fare gendarmi e protettori di chi si reputa inferiore) a un’ingenua e quasi commovente difesa di un sistema di valori basato su enormi centri commerciali, scatole di cereali supernutrienti, ampi parcheggi e cene precotte davanti alla radio prima e alla tv poi.
E tutto questo non c’è bisogno di spiegarlo. The Atomic Cafe lo mostra attraverso filmati di repertorio che ci consegnano una fotografia raggelante di una mentalità rimasta sostanzialmente invariata, anche se forse si è fatta meno “innocente”e più scaltra. Una mentalità, e forse questa è la cosa più spaventosa, se vista attraverso il filtro di uno spettatore europeo, condivisa a ogni livello: dall’ultimo bifolco su un trattore al presidente degli Stati Uniti in persona. Si ha l’impressione di un pensiero unico annichilente ma, nonostante tutto, sincero e profondamente sentito e quindi di una coesione sociale ancora molto netta. Siamo distanti dai conflitti interni degli anni a venire, distantissimi poi dal cinismo degli anni ’80, decennio di realizzazione del film.
In The Atomic Cafe, il nemico interno viene schiacciato con appena qualche sparuta e subito ridicolizzata protesta, i coniugi Rosenberg portati alla sedia elettrica mentre le mamme annaffiano il prato e seguono in diretta l’esecuzione per radio e il maccartismo è solo un modo come un altro per rendere sicura l’Amercia dalla minaccia rossa.
Se c’è un protagonista in The Atomic Cafe, non è la bomba, non è la guerra fredda e non è neanche la propaganda. Il protagonista è, in effetti, ciò che interessa a noi in questa rassegna: la paura. Un sentimento che infetta ogni angolo della vita quotidiana di milioni di americani e si ripercuote, per forza di cose, sul mondo intero. Una paura che si cerca di mitigare attraverso continue esercitazioni, cartoni animati che insegnavano ai bambini a gettarsi a terra e raggomitolarsi in caso di attacco nucleare, illusioni di protezione fornite da rifugi atomici, da tute anti radiazioni, da scorte di cibo accumulate compulsivamente, da villette a schiera costruite con dei bunker già belli e pronti. E quando i primi cenni di distensione (segnati dalla storica visita di Chruščëv negli Stati Uniti nel 1959) vengono a portare un minimo di sollievo alla cappa soffocante di terrore, ecco che The Atomic Cafe si chiude con la simulazione di un bombardamento nucleare sugli Stati Uniti, montata ad arte usando spezzoni di varia natura, che lascia addosso strascichi di paura molto difficili da eliminare pensando che si tratti di “roba vecchia e superata”.
The Atomic Cafe non è un semplice documentario, è un’esperienza storica e umana che ha il potere di scaraventare lo spettatore contemporaneo in un mondo distopico. Con la differenza che la distopia era in atto, realizzata nel contesto quotidiano di milioni di individui.
Diventa logico, a questo punto, che sia stato il cinema fantastico, a prescindere dalle velleità, dai risultati artistici e dalla plausibilità o meno delle varie narrazioni, a farsi carico di questa psicosi di massa e a portarla alla luce. E la nostra rassegna può finalmente cominciare.
non credo di averlo mai visto ma ne ho sentito parlare all’epoca di The day After che ci fecero vedere a scuola…forse era meglio vedere questo…comunque cercherò di ovviare alla mia mancanza…
Lo si reperisce facilmente, anche sottotitolato in italiano. 😉
Il documentario è effettivamente sempre una bestia strana, alla quale si è portati a credere ciecamente senza pensare che, come hai giustamente detto, anche qui si tratta di “manipolazione” e di “messaggio” soggettivo che comunque gli autori vorrebbero arrivasse al pubblico.
Detto questo, non è un genere che mi attira molto ma il modo in cui hai parlato di questo The Atomic Cafe mi ha convinta a recuperarlo (a proposito di manipolazione e messaggio :P)!
Io infatti con i documentari mi intrippo sempre. Proprio per la loro pretesa di oggettività, ma comunque sempre manipolatoria. Sono una forma d’arte molto particolare.
Mi hai fatto venire in mente le pubblicità anni ’50 di Fallout 3 e Bowling for Columbine dove Marilyn Manson fa un figura migliore di Charlton Heston sulla questione delle armi e dove tra l’altro vendono le pallottole in ferramenta!!!
Sì, le pubblicità di Fallout si ispirano proprio a quel periodo e ai veri filmati propagandistici d’epoca
Legendoti, mi è tornato alla mente “Matinee” di Joe Dante (mi pare) con John Goodman. Venne spacciato come commedia sull’epoca dei drive-in eccetera, invece è un lungo documentario sulla paura nucleare degli anni Cinquanta. Se non ricordo male, fanno vederd anche le pubblicità che spiegano di nascondersi sotto le scrivanie, come se servisse a qualcosa.
Complimenti, ottimo inizio ^_^
Esatto. Proprio di Dante, che è riuscito a costruire un film leggero sulla falsariga di cult americani quali “Them/Assalto alla terra” e “The Fly/La mosca”…
Pace profonda nell’onda che corre
Oddio, “leggero” non proprio: al di là della scottatura di essere stato bellamente truffato dalla trama del film (che venne lanciato come raccolta di gag su come rendere “interattivi” i film al cinema, a cui è dedicato il 2 o 3% della pellicola) la parte nucleare è molto pesante, magari l’ho visto in un momento sbagliato ma me ho un ricordo molto sgradevole…
A me aveva ricordato sia la trasmissione di Wells sull’arrivo dei marziani, che uno dei bellissimi film di Allen “Radio Days”; certo Dante non va per il sottile ed utilizza le paure dell’epoca per raccontare dell’America di quegli anni. Considera che il personaggio di Goodman/Woolsey è un chiaro omaggio a quel genio che fu William Castle…
Se hai trovato ‘sgradevole’ la parte nucleare, vuol dire che hai percepito esattamente quello che il regista voleva comunicare. In TAC, di cui stiamo parlando, il pubblico più accorto all’inizio finisce certamente per sorridere di alcune ingenuità degli americani, poi quando ci pensa sopra si accorge di cosa si stia effettivamente parlando…
La stessa cosa mi accadde con un film di animazione degli anni 80 “Quando soffia il vento”.
Considerate però che tutti noi abbiamo accesso a molte più informazioni, rispetto a 30/40 anni fa e che sappiamo come stanno veramente le cose.
Pace profonda nell’onda che corre
Uhh che mi citi! “Quando soffia il vento” era strappacuore!!!
“Radio Days” sicuramente sapeva smorzare e far ridere con paure terribili. Dall’altra parte c’era “Luci d’inverno” di Bergman con Max Von Sydow terrorizzato dall’idea che i cinesi avessero la bomba atomica e il prete protagonista non riesce a consolarlo. Quante decadi di film si sono basati su paure nucleari…
E infatti Matinee farà sicuramente parte della rassegna. Non sei il solo ad averlo digerito male. Mi angosciò moltissimo, quando lo vedi da ragazzina, proprio perché lo spacciavano per ciò che non era.
Allora, se il buongiorno si vede dal mattino, siamo partiti veramente di gran carriera!
Indubbiamente hai avuto un’idea interessante a presentare TAC come prima testimonianza di questa tua serie d’interventi.
Aggiungiamo solo una cosa, se me lo permetti: il documentario rappresenta soltanto il punto di arrivo di una lunga teoria di pellicole dedicate all’argomento (quasi tutte di fiction, certamente) che utilizzavano fantascienza ed horror come veicolo per presentare al pubblico il pericolo nucleare.
Se il Giappone a avuto come figura “cristologica” il buon Godzilla (permettetemi il termine, visto che sulle sue potenti spalle per quasi 70 anni si è portato il peso di ben 2 bombardamenti nucleari, una bella croce insomma), gli Stati Uniti hanno visto sfilare la paura della bomba in una serie incredibile e variegata di pellicole.
Pensate ad Assalto alla terra (formiconi mutati dalle radiazioni degli esperimenti nel deserto) oppure Il Mostro del pianeta perduto (con il suo mutante a tre occhi), fino ad arrivare all’agghiacciante e tristemente realistico The Day After con cui la prima potenza nucleare del pianeta ha dovuto affrontare una delle sue paure più profonde: ci sarà un giorno dopo oppure aveva ragione Albert Einstein, dicendo la 4ta guerra mondiale si sarebbe combattuta con pietre e bastoni…
Ora, cosa ci aspetta nella prossima puntata o sarà una sorpresa?
Pace profonda nell’onda che corre
Ancora non ho deciso per la prossima puntata. Ci sto lavorando, non vorrei perdermi qualcosa per strada 🙂
Però in realtà è proprio il discorso che ho fatto, volendo aprire con un articolo su Atomic Cafè: la fiction si è fatta carico delle paure che solo a posteriori potevano essere formulate in un documentario di questo tipo.
Lo so, talvolta sono retorico…
Chiedo venia
Pace profonda nell’onda che corre
Inquietante, ma molto divertente. Eh, bei ricordi…
Sì, perché nonostante tutto, ti strappa più di un sorriso.
Bellissima idea… non vedo l’ora di leggere la recensione del “Dottor Stranamore” 😉
Nemmeno io credo di averlo mai visto (o perlomeno, al momento proprio non me lo ricordo) ma, dalla tua recensione, sembra essere un documentario molto interessante nel suo modo di “fotografare” il terrore atomico di una nazione alternando propagandistica leggerezza a immane tragedia. Con un finale molto alla Dottor Stranamore, non casualmente…
Io di Kubrick non ne parlo. Non credo che lo farò mai. Offrirò un guest post a qualcuno, se proprio dovrò inserire Il Dottor Stranamore in rassegna. Ma io non posso, non me la sento, davvero.
La scelta è tua, ci mancherebbe. Lasciati solo dire che io ti ritengo del tutto all’altezza di farlo, per quanto può valere il mio parere (ma credo proprio di non essere il solo a pensarla così)…
Ti ringrazio davvero, Giuseppe ❤
Però con Kubrick c'è un problema di prospettiva: è davvero difficile non ripetere cose già dette in precedenza. Sono stati versati fiumi d'inchiostro e io penso sia davvero il più grande regista mai esistito. E credo esistano dei monumenti che sarebbe meglio non toccare, a meno che non si abbiano degli spunti di riflessione inediti su di essi. Cose nuove, roba originale.
Non so se mi sono spiegata 😀
Sì, ti sei spiegata eccome 😀 Perché Kubrick E’ un gigante, ed è inevitabile oltre che comprensibile – oggi più di ieri – avere l’impressione che tutto (o quasi) sia stato detto e scritto su di lui. Questo non toglie che se mai un giorno volessi provare almeno a sfiorarlo, quel monumento, son sempre dell’opinione che ne verrebbero fuori cose interessanti (e pure originali)… 😉
un ottimo implemento e contraltare a questo documentario è il trittico composto da Trinity and beyond, Nuclear rescue 911 e Nuke on space: nel primo il protagonista sovrano è il fungo: 90 e rotti minuti di detonazioni nucleari (in cielo, in mare, sottomarine, in terra, ctonie) da Alamogordo a noi. Malgrado l’incredibile lavoro sull’audio (i tuoni e i rombi delle esplosioni fanno tremare le vetrate; la colonna sonora della filarmonica di Mosca è paurosa) è alla lunga un po’ snervante vedere solo capocchie fungine che lambiscono la stratosfera; il secondo passa al pettine tutti gli incidenti siglati “broken arrows” avvenuti da che esiste la bomba. Vengono tre dita di pelle d’oca nel constatare quante volte in varie parti del mondo abbiamo seriamente rischiato che una bomba ci esplodesse sopra la testa accidentalmente, magari scatenando un escalation mondiale come in A prova d’errore (curiosamente mancante da questo speciale 😉 ); nel terzo, come da titolo, la passerella è occupata da tutti gli esperimenti nucleari avvenuti nello spazio. A voler fare quadrilatero documentaristico ci sarebbe anche il terrifico Half-life: l’isola dei morti viventi, che narra di quanto programmaticamente parte di Bikini non venne evacuata di parte della popolazione, usata come vera e propria cavia a scopo sperimentale. Non fossero state bastevoli Hiroshima e Nagasaki…