Blackhat

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Regia – Michael Mann (2015)

Venerdì scorso, mentre me ne stavo sprofondata nella poltrona dell’unica sala a Roma dove ancora (dopo appena una settimana dalla sua uscita) proiettavano l’ultimo film di Mann, è successa una cosa molto strana: tra il primo e il secondo tempo, quando per dei lunghi e fastidiosissimi cinque minuti si sono riaccese le luci, mi sono guardata intorno e ho visto che in sala saremmo state sì e no una ventina di persone.
Considerate che ero in un gigantesco multisala e che, per comprare il biglietto, ho dovuto fare anche una discreta coda alle casse. E che i posti per La Solita Commedia – Inferno erano esauriti.
“Solo prima fila, lo prende lo stesso?”
“No. Mi dia un biglietto per Latin Lover”.
Però, vedete, la cosa positiva è che, dopo appena un paio di minuti dall’inizio di Blackhat, l’immonda cagnara che di solito produce il pubblico in sala, si è spenta. E tutti sono rimasti muti a vedere il film, quasi si trattasse di una funzione religiosa. E no, accanto a me non c’erano dei lord inglesi. Anzi, temevo fortemente di dover assistere a Blackhat bestemmiando contro i miei vicini di poltrona.
Questo perché il Cinema è una faccenda potente. E il Cinema sta morendo.
Intendiamoci, di bel cinema ne fanno ancora, escono ottimi film in continuazione. Li si va a vedere, ci si entusiasma anche, ci si diverte, ci si commuove, ci si esalta e tutte quelle cose lì. Ma il Cinema, una volta che la generazione dei Mann, dei Carpenter, dei Friedkin avrà smesso di fare il proprio mestiere, rimarrà un ricordo conservato solo da noi che ne abbiamo vissuto gli ultimi fuochi prima che regnassero le tenebre.
Quello che vediamo oggi e che chiamiamo cinema non è altro che tv portata sul grande schermo, se si escludono poche e lodevoli eccezioni. Oppure roba funambolica da foche ammaestrate (sì, Inarritu, parlo con te). Può essere molto soddisfacente, non lo nego. E forse è solo una transizione a una forma altra del raccontare per immagini. Però bisogna accettare, senza farne un dramma, che il Cinema è agonizzante e che ciò che arriverà dopo la sua dipartita, è tutto ancora da stabilire.

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È singolare tuttavia notare come, di fronte al Cinema, la gente, magari venuta in sala per vedere un thriller come tanti altri sul cyber terrorismo, rimanga incantata. O attonita. E non pronunci verbo neanche  tra il primo e il secondo tempo. Non è detto che ciò a cui sta assistendo gli debba piacere per forza, ma qualcosa dice al pubblico che si tratta di un fenomeno raro e prezioso.
Blackhat è così. Cinema enorme e colossale, che ti colpisce emotivamente mentre ti frastorna stilisticamente. E per farlo non ha bisogno di plateali virtuosismi. Gli basta un carrellino che segue quattro attori mentre escono da un aeroporto per sdraiarti a terra e passarti sopra come un carrarmato. È subliminale. Non te ne accorgi ma ti ha risucchiato dentro lo schermo e, per 160 minuti, ti dimentichi di essere seduto in una sala.

Al di là della patina tecnologica, Blackhat racconta una storia vecchia come il mondo: il fuorilegge che si presta a collaborare con la polizia nella speranza di tornare libero e avere la sua seconda occasione. Che sia un hacker nel 2015 o un rapinatore di diligenze nel selvaggio West, le dinamiche non cambiano. Al massimo si complicano e implicano spostamenti tra gli Stati Uniti e l’Asia a caccia di un segnale o di una traccia lasciata su un conto in banca. Ma, in fin dei conti, dietro quei codici e quei numeretti, dietro una centrale nucleare mandata appositamente in avaria, o dietro a un innalzamento prodigioso del valore di alcune azioni, ci sono sempre degli uomini che spingono invio. C’è, quindi, sempre la volontà del singolo. E resta sempre possibile trattare i grandi temi universali, utilizzando gli strumenti e le tecniche tipiche del cinema di genere. In questo caso dell’action thriller.

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In fondo, Mann ha sempre fatto Cinema di genere. Anzi, possiamo dire tranquillamente che i generi lui li ha toccati quasi tutti, imprimendo ogni volta il suo marchio personalissimo da immenso autore. Non si è mai vergognato di sporcarsi le mani col sangue, non ha mai avuto paura di premere sull’acceleratore quando si parlava di sentimenti, non si è mai tirato indietro di fronte alla violenza in campo, esasperata anche, brutale e feroce come brutali e feroci sono stati molti dei suoi personaggi.
E questo Blackhat non fa eccezione: sotto la trama investigativa arzigogolata, pulsa un nucleo fatto di emozioni primordiali. Amore, vendetta, contrapposizione tra chi possiede un codice morale e chi invece è mosso solo dall’avidità, rispetto reciproco guadagnato sul campo, disperato desiderio di dare un senso alla propria vita costellata di errori, sacrificio in nome di un senso di giustizia atavico che sopravvive anche in un contesto che ne sembra del tutto svuotato.
Un film da dinosauri, forse.
Ecco, guardando Blackhat mi sono sentita vecchia in maniera irrimediabile. Mi sono sentita più vicina ai valori messi in scena con quella potenza da un regista di più di settant’anni, che alla parodizzazione operata su di essi dai registi della mia generazione. Non so quanto sia positivo. Lo butto lì come semplice dato di fatto.

Non c’è un briciolo di ironia, in Blackhat. Perché è evidente che l’ironia smorzi qualunque forma di epica. Ma non c’è neanche il gusto di enfatizzare l’atto violento. Le scazzottate, le sparatorie (tenete d’occhio uno scontro a fuoco circa a metà film: ne uscirete stravolti), le morti che scandiscono la vicenda narrata, vengono girate con una crudezza e un realismo assolutamente scevri da una spettacolarizzazione estetizzante. Eppure ti mozzano il respiro e, quando scorre il sangue un corpo cade a terra crivellato dai proiettili, è come se morissi anche tu spettatore. Mann cattura gli ultimi sguardi sfocati delle vittime, persi sui grattacieli di metropoli illuminate al neon, si perde in primissimi piani e dettagli stretti, insistendo sui particolari all’apparenza insignificanti (la spalla e il polso di Wei Tang) e poi spicca il volo insieme ad aerei ed elicotteri a guardare quelle stesse, gigantesche città dall’alto. E di nuovo, ti trasporta su un otto volante emotivo in continuo mutamento che ti fa venire le vertigini.

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Sei immerso, con tutti i tuoi sensi, in un’esplosione di colori, suoni, immagini, dove ogni inquadratura ha una precisa funzione e non potrebbe trovarsi altrove. È il Cinema, quel vecchio dinosauro che si sta estinguendo e che ancora, nonostante tutto, fa paura.
Ancora infonde un senso di magia alla nostra vita, raccontando storie che sono più grandi della nostra vita, ma riescono comunque a parlare della nostra vita.
Sì, quando la generazione di registi di cui fa parte Michael Mann smetterà di fare film, il Cinema se ne andrà con lei. Altre cose nasceranno, diverse, comunque belle, comunque interessanti. Ma quell’impressione di enormità non esisterà più, quella capacità di trascinarti a forza dentro a una storia, con la sola scelta del piano giusto al momento giusto, senza quasi dialoghi, facendo parlare solo la macchina da presa e niente altro non fa più parte di questo tempo.
E il film di Mann è uno dei flop commerciali più clamorosi degli ultimi anni.
Ma c’è una piccola vittoria, in tutto questo: per 160 minuti, nessuno stronzo esemplare da multisala, ha avuto il coraggio di fiatare, perché il Cinema morente li ha messi tutti a cuccia.

27 commenti

  1. Il concetto di Vecchio Dinosauro del cinema è esemplare. Sono molto d’accordo con il tuo commento!

    1. Mann è un dinosauro bello grosso 😀
      Sto pensando a una retrospettiva…

      1. Daniele Volpi · ·

        Aggiudicato!
        Stiamo parlando del regista di veri grossi calibri, come “Strade Violente”, “Heat” e “Collateral”: mica bruscolini! Perdonatemi se insisto con il noir, ma sono film che si rivedono sempre con estremo piacere (Davide Mana, se ci sei, batti un colpo!)
        E poi il suo “Alì” me lo riguardo tutte le volte, adoro la parte del Rumble in th Jungle…

        Lo so che sei occupata e che hai già aperto la retrospettiva sul cinema catastrofico, ma Mann vele veramente la pena (e BH lo recupereremo, magari in DVD)…

        Pace profonda nell’onda che corre

      2. Giuseppe · ·

        … che includa anche il suo bistrattatissimo horror bellico The Keep, magari? 😉 Comunque è bello sapere quanto il suo Blackhat stia a dimostrare che Mann riesce ancora a prenderti e portarti esattamente dove vuole (comprendendo i cazzoni casinisti da multisala, finalmente zitti e muti), forse perché i valori che mette in scena – oltre ovviamente alla maniera in cui lo fa – riescono a essere più trans-generazionali di quanto si pensi. D’accordo, noi possiamo sentirli con un’intensità diversa, ed è un dato di fatto anche per me (al di là di quanto la cosa, ad occhi molto superficiali, possa farmi apparire “vecchio”) ma questo mi fa sperare che quel grande Cinema morente non abbia l’intenzione di abbandonarci tanto in fretta. Certo, il non farlo sparire dalle multisale a velocità curvatura aiuterebbe un tantino, eh 😦

  2. Non mi soffermo sul film, visto che mi manca ma cercherò di recuperarlo. Invece le considerazioni sul cinema le condivido, giusto ieri riflettevo che in città e provincia i cinema (anche prestigiosi) sono quasi del tutto spariti, in funzione dei multisala. E quei pochi cinema rimasti sono desolati e vecchi, in questo senso (anche questa volta) gli americani ci hanno preceduto. Eppure gli stessi multisala salvo il film italiano (commedia,intellettualoide,pecoreccio) rimangono vuoti, sarebbe facile dare la colpa alla pirateria o alla crisi, ma credo che il senso sia più profondo, la gente si rintana e non le va di “mischiarsi” con altri, salvo che ci sia musica e alcol a sufficienza per ricreare lo stesso isolamento. Comunque ho assistito a un piccolo miracolo, vecchio cinema, in proiezione “Cenerentola” ed era quasi pieno, la cosa buffa è che l’età media era intorno ai 50, inguaribili romantici o nostalgici.

    1. Il multisala, in realtà, è un’ottima cosa, teoricamente: dovrebbe rappresentare la possibilità di avere una scelta il più ampia possibile.
      I vecchi cinema, con una sola sala, non ti potevano offrire un ventaglio ampio di film. Il problema è che purtroppo la distribuzione si muove in maniere sconsiderate e la vita di un film dura pochissimo. A volte una sola settimana, se non incassa subito.

  3. Alice · ·

    Ho sempre amato moltissimo Mann (penso a L’ultimo dei Mohicani, Manhunter, The Insider, Collateral…), questo mi manca ma è assolutamente nella lista dei film da vedere!

    1. Blackhat è pazzesco.
      Il problema è che adesso è già sparito dalla circolazione.
      Non c’è stato neanche il tempo di vederlo che lo hanno subito tolto 😦

    2. Daniele Volpi · ·

      Anche “La fortezza” è una pellicola interessante, anche se inferiore al libro di Wilson da cui è tratta e non del tutto compiuta (sono sorpreso che, fino ad ora, nessuno ha ricordato che Mann è il padre fondatore e produttore di Miami Vice, uno dei primi esempi di serialità tv)…

      Purtroppo la vita media delle pellicole nelle sale si abbassa sempre di più, a discapito di una qualità in caduta libera. Per fortuna qualche buon film arriva ancora nelle nostre sempre più sparute sale!

      Pace profonda nell’onda che corre

  4. Denis · ·

    Quei registi di 70 anni o quasi di cui adesso fanno remake orribile o innocui ,il povero Verhoen (uno dei miei preferiti) cosa dovrebbe dire? ,immaginate Un vivere e morire a L.A in salsa pg 13(orrore).
    Un requiem per i grandi almeno le loro opere possiamo rivederle per sempre nei raggi blu.

  5. tullipan · ·

    che dire se non che hai ragione? (non parlo del film, che non ho visto, ma dei commenti sul cinema)
    Da me sopravvivono – a stento- ben due cinema vecchio stampo (oddio, uno ha diviso la sala in due e si fa chiamare multisala, ma sempre un piccolo cinema in centro è; l’altro è un vecchio teatro adattato a cinema negli anni 70, fantastico) io amo andarci, anche se la programmazione è per forza sacrificata e spesso siamo dentro in 4 gatti.
    Non condanno i multisala, condanno il modo che hanno creato di fruire del cinema.
    mia collega settimana scorsa “stasera vado al cinema!” “cosa vai a vedere?” “mah pensavo Cenerentola, ma non so, andiamo lì e vediamo dove c’è posto” ma che caaavolo di ragionamento è? non è che stai andando dal salumiere e prendi un etto di ferrarini perchè il granbiscotto è finito.
    Che poi sto zitta perchè sembro snob, ma davvero non concepisco che uno non vada a vedere quel film perchè gli interessa/ha voglia di vedere quello, ma solo per “vedere qualcosa”.

  6. Ottimo articolo, pieno di passione e verità. A me “The Keep” non è piaciuto, l’ho trovato poco incisivo, ma tutti gli altri film di Mann sono ottimi, con “Collateral” primo su tutti (e pensare che c’era Tom Cruise!).

  7. Questo tuo Requiem per il Cinema mi mette un’enorme tristezza. Perché, per molti aspetti, la penso come te. Perché la fruizione dei film è completamente cambiata in una manciata di anni e un film come quello di Mann è uno di quei film che mi piace definire “da cinema”, uno di quei film che si vede sul grande schermo e punto.
    Ma a me questo Cinema commuove, non posso farci nulla. E non è perché ci sono legata ed affezionata (conta anche questo, certo) ma perché coinvolge una parte emotiva quasi ancestrale che ha molto poco a che vedere con la razionalità. Quando guardo un film come quello di Mann (o altri anche di natura completamente diversa come Pacific Rim o uno Spielberg qualunque o perfino il finale di Notting Hill) i miei occhi vedono la meraviglia e io resto attonita e commossa. Questo ha ben poco a che fare con la razionalità che ti permette di analizzare e giudicare un film. E’ qualcosa che viene prima e che va oltre. E questa sensazione te la dà il CInema, questo tipo di cinema.

  8. Era meglio se vedevo Mann invece dei Taviani mi sa XD

  9. Davide Bonvicini · ·

    Bellissimo post!
    Condivido le tue riflessioni, e cercherò un multisala dove (mirabile dictu) ancora lo hanno in cartellone! 😉

  10. Io ho trovato Blackhat colossale nell’ultima ora, prima invece mi era sembrato “soltanto” un ottimo Mann, dove il cosa succedeva mi distraeva dal come, che è la carta che si gioca sempre meglio di chiunque. Sullo stato del cinema non suonerei le trombe dell’apocalisse, magari fra trent’anni si rimpiangeranno i Linklater o i Tarantino di oggi 🙂

  11. WordPress ha deciso di trollarmi e non riuscivo più ad accedere al blog…
    E vabbè, ora sono di nuovo tra voi e cerco di rispondere un po’ a tutti i commenti insieme:
    io non ho suonato le trombe dell’apocalisse sul cinema, le ho suonate sul Cinema che sono due cose diverse.
    Bei film ne faranno sempre e il mezzo di espressione cinematografica sarà duro a morire. Ma un certo tipo di cinema, quello appunto colossale, è destinato a sparire perché il pubblico non lo vuole più e si è disabituato a fare distinzioni tra grande e piccolo schermo.
    Ok, prendiamo i vari Linkater o Inarritu (Tarantino è un caso a parte e comunque fa ancora Cinema con la C maiuscola): ottimi film, quelli di entrambi. Migliore Linkater, un po’ troppo autoreferenziale Inarritu. Ma sono film molto piccini se paragonati alla potenza cinematografica devastante di un Michael Mann, o di un vecchio Walter Hill.
    Forse l’unico che è in grado di riproporre ancora oggi quel Cinema è Refn, ma comunque lo imita, non è roba completamente sua. Non so se riesco a spiegarmi meglio di così. Le forme espressive sono cambiate, è cambiato il linguaggio ed è cambiato il pubblico, che ora vuole altro. Non dico che questo altro sia brutto, dico solo che è diverso.
    Per quanto riguarda il discorso sui multisala, io non ho mai affermato, da nessuna parte, che il multisala sia il Male. Anzi, io adoro i multisala perché vedo i film come Cthulhu comanda, invece di ascoltarli e vederli di merda nei cinemini con impianti inadeguati e proiettori scassati.
    Il problema è la distribuzione, non il multisala come concetto.

  12. Non condivido, ma ti capisco.

  13. Sui multisala però sono d’accordo.

  14. Blissard · ·

    Come spesso mi succede, le tue recensioni mi spingono a considerare aspetti dei film a cui non avrei mai pensato.
    Dopo avere visto Blackhat, pensavo di trovarmi di fronte all’ennesima dimostrazione di pregi e difetti del Mann odierno, diciamo da Collateral a questa parte: molto stile, personaggi bigger than life in perenne stato di eccitazione psicomotoria, grandi sparatorie, moralità sobria da cinema classico e – questa la caratteristica deteriore – poche sorprese.
    Solo dopo avere letto la tua recensione ho realizzato come effettivamente Mann sia uno dei pochissimi che ancora hanno la capacità di rendere autenticamente “epico” il cinema, di prenderlo sul serio (che è cosa diversa dal “prendersi sul serio”), di considerarlo una cosa viva e reale, e non un reperto archeologico d’altri tempi da rivisitare con goliardia postmoderna o con cinefilia di maniera.
    Grazie.
    Ps: chissà come vive il buon Michael Mann, che come avete detto con la serie Miami Vice ha provato a “portare un po’ di cinema in televisione”, il fatto che di questi tempi assistiamo al processo inverso, ovvero che il cinema che vende è quello che riprende molti aspetti dalla televisione (vedasi il successo dei supereroi Marvel, o della saga di Fast & furious)?

    1. Io credo che Mann sia estremamente coerente nel suo percorso cinematografico. È da un po’ che ho in mente una rassegna di tutti i suoi film su questo blog, solo che è un’operazione complessa e ci vuole stomaco 😀
      Ti ringrazio e sono felice che i miei post riescano a fornire delle prospettive inedite da cui guardare un film, soprattutto se si tratta di Mann.
      Io penso che lui l’avesse prevista questa mutazione del cinema in serialità televisiva. Specialmente nel cinema commerciale.

      1. Blissard · ·

        Oltre che stomaco, ci vuole tempo, sono tanti i film e tra questi molti meritano analisi approfondite.
        Spero moltissimo che ti imbarcherai nell’impresa 😀

  15. Finalmente visto! Che purtroppo al cinema l’avevo perso…

    Che dire? Che dire a parte che hai ragione su tutto, che Mann è ormai uno dei pochissimi che mi tiene incollato alla poltrona, che questo è il vero Cinema (e vale più una visione di questo film che un trattato che ti spiega che differenza c’è tra un’ottima serie tv – chessò, tipo Peaky Blinders o Daredevil – e un vero film), che questo – ahimè – temo sia un tipo di film con poco futuro, al pubblico non interessa a quanto pare…

    Eppure ieri sera l’ho guardato insieme ai miei due coinquilini, e uno dei due diciamo che è un appassionato di Transformers e simili, di solito cerca film del genere, e a parte che a fine visione ha ammesso che gli è piaciuto molto, che pure tutta la parte informatica regge, anzi è fatta molto bene (a parte qualche ovvia roba inventata, ma ci sta – però siamo due programmatori e le notiamo subito ehm), a parte che eravamo tutti molto prevenuti dall’hacker Thor… be’, devo dire che così preso durante la visione mi è capitato raramente di vederlo. Forse c’è ancora speranza.

    Mò chiudo, solo una domanda, veramente secondo te oggi come oggi non c’è più nessuno che può fare cinema del genere? Proprio nessuno?

    1. Bella domanda…
      Tra registi giovani mi riesce davvero difficile trovarne uno in grado di fare cinema vero. Però, ecco, forse l’unico che ha ancora quel tipo di respiro è David Ayer!

      1. Ecco sì, così su due piedi avrei detto esattamente lo stesso nome. Soprattutto dopo Fury!

  16. giancarloibba · ·

    Ero parecchio prevenuto anche io, non per Mann, ma per il fustacchione Thor. Dopo questa recensione recupero il blu ray. Ps: hai ragione, ciò che colpisce dei film di Mann e’ la totale assenza di ironia, la solidità della visione registica e la coerenza stilistica. Le sparatorie, poi.. pochi altri riescono a farti percepire l’impatto e il potere d’arresto delle pallottole come Mann.

    1. Ma Hemsworth è un buon attore, quando viene diretto bene. Ed è perfetto per il ruolo. Come è stato perfetto anche nel film di Ron Howard.
      Io credo sempre che la prestazione di un attore dipenda quasi esclusivamente da chi c’è dietro la macchina da presa e, se si tratta di Mann, allora non mi pongo proprio il problema.

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