
Regia – Ryûhei Kitamura (2022)
Voi sapete che se Kitamura chiama, Lucia risponde. In questo caso c’è di mezzo anche Stephen Dorff, la cui presenza basta ad annoverare qualsiasi film nella categoria degli imperdibili, quindi lo capite per conto vostro che, non appena The Price We Pay è apparso in giro per la rete, mi ci sono precipitata e, per magia, ha avuto la priorità su tutto il resto dello scibile cinematografico a disposizione.
Kitamura torna all’horror dopo la parentesi non proprio felice di The Doorman. Sì, perché nonostante quello che si può desumere dalla banalissima locandina coi faccioni, The Price We Pay è un horror, anzi, uno splatterone in piena regola, che quasi insidia il primato a Terrifier 2 per la morte più creativa e brutale dell’anno. O del biennio, dato che ormai siamo nel ’23.
Piccolo consiglio non richiesto: evitate di guardare il trailer perché vi racconta tutto il film e non ne avete bisogno.
Dorff ed Emile Hirsch sono due criminali impegnati a rapinare un banco dei pegni sperduto da qualche parte nel New Mexico. La rapina va male, il loro autista li molla in mezzo al nulla e un loro complice viene ferito a una gamba. Ai nostri protagonisti non resta che prendere in ostaggio una povera disgraziata che ha avuto la sfiga di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato e fuggire nel deserto. Solo che la sfiga è un po’ il marchio di fabbrica di tutta l’operazione, e infatti la macchina su cui viaggiano si ferma e il quartetto è obbligato a chiedere ospitalità per la notte in una fattoria. Quello che si nasconde nella fattoria sarà materia da incubo per tutti gli anni a venire, almeno per coloro ai quali la sorte permetterà di sopravvivere. Di più, ve lo assicuro, non volete sapere, e non perché la trama del film riservi chissà quale colpo di scena o rivelazione sensazionale, ma perché Kitamura è pazzo e, pur all’interno di situazioni scontate e risapute, è in grado di mollare il freno della violenza e trascinarvi in una giostra allucinante di sangue e frattaglie che, ne sono certa, vi riempirà di gioia e amore.
E pensare che mi stava deludendo. Già, perché i primi 20 minuti o giù di lì sono quelli di un generico film d’azione DTV. Certo, Hirsch che fa lo psicopatico sguaiato e fissato col gioco d’azzardo e Dorff che, al contrario, fa l’ex militare che si ritrova contro la sua volontà a delinquere, ma sotto sotto è un cowboy gentiluomo, sono uno spettacolo che ripaga il tempo speso a guardare un primo atto visto e rivisto e pure un po’ svogliato. Personaggi tagliati con l’accetta e con delle caratterizzazioni parecchio sopra le righe, tanto che Hirsch sembra davvero il cattivo di un cartone animato; Kitamura che gira tutta la premessa come se fosse un fastidio da sbrigare alla svelta, dialoghi da B movie dei primi anni ’90. Non che non intrattenga, per carità, ma se per caso vi ricordate come Kitamura era riuscito ad arrivare subito al dunque in quel capolavoro incompreso di Downrange, del 2018, allora forse ci rimarrete un po’ male a vedere che questa volta ci ha messo quasi mezz’ora per far cominciare davvero il suo film.
Poi scende la notte, si arriva nella fattoria, Kitamura parte subito a mettere in scena l’estrazione di un proiettile da una gamba con dovizia di particolari, e si capisce che del regista di Versus non si deve mai dubitare, che le soddisfazioni arrivano sempre, magari con una partenza diesel, ma arrivano.
In The Price We Pay, ne arrivano a carrettate. È uno di quei film che cambiano genere in corsa ai quali dovremmo aver fatto il callo; lungi dal costituire una novità, ormai sono diventati quasi un filone a sé stante, anzi: il cambiare genere nel bel mezzo del secondo atto è un genere cinematografico con una sua autonomia e le sue regole.
Questo, da heist movie che credevamo indirizzato con serenità verso l’home invasion, diventa una sintesi tra Non Aprite quella Porta e un altro film di Kitamura, No One Lives. I nostri criminali, soprattutto l’Alex interpretato da Hirsch, arrivano nella fattoria tutti spavaldi, trovano un ragazzino da solo e pensano che avranno gioco molto facile nel metterlo fuori combattimento, ma non sanno di essere finiti dritti dritti nella tana del lupo.
Qui parte un secondo atto che è una capsula del tempo sepolta da qualche parte intorno al 2006 e riesumata dal nostro Kitamura per il nostro bene: ambienti fetidi, energumene mascherate e sfigurate, operazioni senza anestesia, un vecchio pazzo che sproloquia di bene e male mentre ti affetta con gusto e dedizione, corpi sciolti nell’acido, una mazza da baseball che all’occorrenza diventa una spada laser (non vi sto prendendo in giro), illuminazione stroboscopica, montaggio isterico fatto quasi tutto di jump cut e zoomate tagliate in mezzo al movimento, e via così, in una riproposizione del linguaggio dei primi 2000 così spudorata che fa quasi tenerezza, soprattutto perché nel 2023 non dovrebbe funzionare, ma funziona lo stesso, credo grazie alla fede cieca e incrollabile di Kitamura nel potere redentore degli occhi strappati e della chirurgia creativa. Insomma, non pensavo si potesse passare con tanta disinvoltura da Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani a Turistas. Eppure è accaduto e mi sono divertita un mondo.
Ma non finisce qui, perché c’è ancora il terzo atto, il gran finale, quello in cui Kitamura spara tutti i fuochi artificiali che ha a disposizione e The Price We Pay si presenta al suo attonito pubblico come un survival completamente privo di freni inibitori, con tutti i superstiti che scappano da ogni lato per salvarsi la pelle e un personaggio che, se questo mondo non fosse un luogo crudele e malsano sarebbe già un’icona, si divora la scena in ogni modo possibile in cui una scena può essere divorata: Erika Ervin, la gigantessa di American Horror Story: Freakshow, non ha soltanto una presenza imponente per via della ragguardevole stazza, ha anche carisma da vendere e una forza prorompente. Più di tutto, sa stare nell’inquadratura, la domina, è genuinamente spaventosa, implacabile, è una furia omicida durissima a morire. Kitamura si capisce lontano un miglio che ha girato un intero film con il solo scopo di farla scatenare e, quando lo fa, aggrappatevi con le unghie alle vostre poltrone perché rischiate di essere investiti da questo tsunami di violenza e cattiveria senza pari.
Ecco, io non lo so se mi sento particolarmente benevola o se un B movie che, a voler essere generosi, può essere etichettato al massimo come “onesto” può essere nobilitato dal suo ultimo quarto d’ora, ma credo sia questo il caso di The Price We Pay. In giro, complessivamente, c’è molto di meglio, ma quel finale è da annali del cinema horror e gli va riconosciuto.
Adoro Kitamura,”VERSUS” è il film della vita(almeno per me),il suo “GODZILLA-FINAL WARS” me lo rivedo almeno 5 volte all’anno,”PROSSIMA FERMATA L’INFERNO”(eh eh lo so lo so,viva i titolisti italiani)era una meravigliosa follia barkeriana,”NO ONE LIVES” lo considero un quasi capolavoro,invece questo “THE PRICE WE PAY” lo tengo d’occhio dall’anno scorso,da prima ancora che venisse pubblicato un trailer! Vorrei essere ottimista ed aspettare che dita incrociate,venga distribuito sullo stivalone per poterlo vedere,ovviamente non mi aspetto la sala,al massimo l’home video,stessa cosa anche per “THE LAIR” di Neil Marshall,due grandissimi artigiani del B-Movie oramai parecchio poco considerati,un vero peccato!
Quale prezzo siamo disposti a pagare per impegnare i nostri ricordi? Col rischio di perderli. Inizia come un heist movie che vira nell’horror come The Vault ma qui la rapina è in un banco dei pegni. Scelta pertinente, perché se c’è chi sceglie (o qualcuno per te) di fare a “pezzi” la tua (inutile) vita e vendere (a chi merita e paga) anche quella, quale location migliore di un pawn shop? Qui non c’è alcun pomeriggio di un giorno da cani ma una notte d’inferno perché i nostri riescono a darsi alla fuga, come i fratelli Gecko, anche qui con tanto di ostaggio del gentil sesso che si svela presto più cazzuta dei maschietti (ma Juliette Lewis era di tutt’altra schiatta). Non manca l’intermezzo dove i due protagonisti lasciano riaffiorare il passato doloroso che li ha disegnati e spinti a divenire quel che sono. Né il finale alquanto scontato, che arriva comunque dopo qualche buona trovata ben rappresentata. Davvero curioso che anche Play Dead, uscito contemporaneamente, condivida non solo le motivazioni etiche dei villain nel giustificare gli smembramenti ma anche la dinamica della morte più surreale e divertente. Stephen Dorff dimostra che non solo il buon vino e le donne, bensì pure gli uomini, invecchiando, migliorano.
Kitamura avrà finto di cambiare le carte in tavola con quella lunga premessa di una ventina di minuti giusto per poterci poi spiazzare meglio, una volta ritornato ad essere sé stesso (e allora si dimostra anche come un linguaggio di vent’anni prima possa tornare a funzionare bene, quando venga usato dal regista giusto) 😉