
Regia – Parker Finn (2022)
Mi sono persa in sala Smile perché è uscito proprio quando sono stata male, ma ci tenevo molto a vederlo, perché è un po’ il caso dell’anno: costato 17 milioni di dollari, ha finito per incassarne 214 in tutto il mondo, diventando uno degli horror più ricchi di sempre. Ora, lo sappiamo tutti che è l’horror, da qualche tempo a questa parte, a tenere in piedi la baracca dei bottteghini nelle sale sempre più disertate, però Smile è arrivato dal nulla: regista esordiente, nessun nome di richiamo in cartellone e nemmeno tutta questa campagna pubblicitaria, non subito, almeno. Poi, quando si sono resi conto che il film stava cominciando a fare i soldi, alla Paramount hanno deciso di martellare e hanno anche avuto delle idee interessanti, tipo quella di assoldare dei figuranti per farli sorridere in luoghi affollati come gli stadi, per esempio. E pensare che, all’inizio, era soltanto l’ennesimo horror destinato allo streaming su Paramount Plus, nemmeno doveva uscire nelle sale, il nostro Smile. Non so a chi sia venuto in mente di concedere al film una distribuzione, chiamiamola così, “tradizionale”, ma ora credo che in Paramount gli abbiano fatto un monumento equestre.
Ora, ci si dovrebbe domandare come mai proprio Smile. E sì che di horror ne escono a pacchi ogni santo giorno. Sapete tutti come la penso sullo stato attuale del cinema dell’orrore: mai abbiamo vissuto un momento così splendente. L’horror incassa, fa discutere i critici, ogni tanto si azzarda pure ad arrivare ai premi, e insomma, non mi fare ripetere tutta la solfa da capo. Solo che Smile è stato un fenomeno che va oltre le mie considerazioni sul genere. Non è IT di Muschietti che sbaraglia tutti i record, non è un capitolo nuovo del Warrenverse, è un horror originale (nel senso di sceneggiatura originale, non di originalità della trama) e non ha alle spalle alcun marchio in grado di attirare il pubblico.
Perché ha funzionato così bene?
Io credo che sia perché ha al suo interno elementi che oramai siamo abituati ad associare all’etichetta “elevated”, ma questi vengono facilmente accantonati in favore di una concezione più pura e meno elitaria dell’horror. Smile non è un horror d’autore, ma neppure è un horror Blumhouse di seconda fascia. Non è un PG13, ma ha una bella R a classificarlo; è quindi violento, non lesina in sangue ed effettacci, e nemmeno ci va leggero con i jump scares. Fa paura, Smile, è costruito, girato e montato apposta per fare paura. E ci riesce benissimo.
Poi sì, quando prova a essere più sofisticato della media un po’ si perde, e la scrittura dei personaggi e delle loro storie personali non è proprio il suo punto di forza. La protagonista Rose (una bravissima Sosie Bacon) ha alle spalle il solito passato con trauma, è corredata di fidanzato stronzo, ex molto più interessante e di conseguenza destinato a riproporsi come un pranzo di Natale, sorella cagacazzi e una certa tendenza allo stacanovismo come metodo per non guardare in faccia i suoi seri problemi. Funziona anche, soprattutto per la capacità dell’attrice di destreggiarsi con un materiale di partenza così banale, ma non è niente di che. È un espediente per raccontarci di questa maledizione che si attacca a chi assiste a un suicidio, e come espediente funzionale a traghettarci attraverso gli effetti sempre più estremi di questa maledizione è perfetto. Poi c’è una ventina di minuti di troppo dedicata ad approfondire quello che è, appunto, un espediente. E lì il film un po’ si inceppa. Qualche sforbiciata ai dialoghi avrebbe aiutato, qualche appesantimento di troppo poteva esserci risparmiato.
Però, quando il giovane Parker Finn si decide a lasciare andare il freno e a costruire delle sequenze di puro terrore, Smile decolla e non si ferma più, è una piccola bomba a orologeria, un meccanismo perfetto, uno spettacolo per chiunque desideri, ogni tanto, sedersi in poltrona e, semplicemente, spaventarsi, saltare fino al soffitto, coprirsi gli occhi con le dita. In altre parole, Smile è divertente e sa quello che vuole ottenere dal pubblico. Che un horror così abbia avuto un tale successo è un’ottima notizia, se vi fidate un po’ della sottoscritta.
Tecnicamente, Finn gira semplice e pulito, è bravo a muovere la macchina da presa, ma è ancora più bravo a trovare i tagli giusti, le inquadrature più efficaci. Vedere la sequenza d’apertura, quella che ci hanno sputtanato nel trailer, mannaggia a loro, in cui Caitilin Stasey “infetta” la nostra protagonista potrebbe essere utile a chiunque volesse scrivere un saggio sulla meccanica della tensione, sulla graduale e metodica fabbricazione di un’atmosfera di minaccia crescente e, infine, sul far esplodere orrore, sangue e urla proprio al momento giusto. Come dicevo prima, in queste cose, Smile è un cronometro.
Prevedibile? Forse, ma solo in alcune circostanze, e non so nemmeno se la definizione giusta sia prevedibile. In realtà, il film è fatto apposta per portarci dove vogliamo andare, come su una giostra che già conosciamo, ma tirata a lucido e con qualche piccola sorpresa. Gli snodi di una storia come questa li conosciamo dai tempi di The Ring, li abbiamo ripassati con It Follows e con altre decine di titoli analoghi. Solo che qui c’è un grado elevatissimo di consapevolezza nel ripresentarli a un pubblico smaliziato. Insomma, Smile fa l’effetto di riascoltare la stessa fiaba per la centesima volta, ma è una fiaba così bella che non ci stancheremmo mai di sentirla. Credo che sia questo, più di tutto, il motivo del suo successo, e spero che Finn abbia una lunga e luminosa carriera, perché confezionare un film così non è da tutti.
Ultimo appunto: date più ruoli a Caitlin Stasey, che in circa 10 minuti di presenza sullo schermo si divora serenamente la scena e anche il resto del film.
Trovo il termine “elevated” un neologismo contemporaneo abbastanza stupido. Non per il senso che vuole dare ma per come viene usato e per come è stato coniato. Come se negli anni 60/70, o ancora prima, non siano mai uscite pellicole di quel tipo e solo adesso l’horror tenda a qualcosa di più. In questo sono perfettamente d’accordo con John Carpenter.
Oltre questo, il fatto che Smile richiama al più che buono It Follows è una gran cosa. Penso che quella pellicola con The Invitation e The Wicth fu promotrice della uova ventata fresca del genere in America. Anche se qui da noi in Europa, la New Wave Francese dell’orrore d’inizio 2000 è stata manna (insaguinata) dal cielo.
L’avevi visto Laura Hasn’t Sleep, il cortometraggio di Finn (sempre con Caitlin Stasey, e anche lì capacissima di una performance memorabile con una manciata di minuti a disposizione) del 2020 che fa da “antipasto” a Smile? In pratica per me è stata l’unica vera pubblicità indiretta del film, visto che all’inizio pareva non filarselo quasi nessuno (appunto)… ma, comunque, per invogliare gli spettatori a vederlo è senz’altro ottima un’ottima pubblicità 😉
Versione aggiornata di It Follows, fa spaventare e l’attrice Sosie Bacon e’ veramente brava, ma il primo mi ha lasciato dei segni incancellabili.
Ciao Lucia, secondo me proprio questo film schiaccia come un insetto quella creatura zoppa e malandata che e’ Barbarian, col suo finale assolutamente anti-Barbarian.