
Regia – Alex Garland (2022)
Sono momentaneamente in giro, nel senso che passo il fine settimana fuori e quindi anche la challenge va a singhiozzo. Per il day 20, era richiesta la visione di un’antologia, e credetemi se vi dico che delle migliori su questo blog abbiamo già parlato. Per l’occasione, ho comunque rivisto con grande piacere Southbound, che mi fa sempre uno strano effetto: ogni volta mi sembra più bello della precedente, e sto cominciando a pensare che sia la più valida antologia contemporanea a nostra disposizione.
Oggi, invece, 22 ottobre, tocca a un British Horror; da braga stakanovista coi sensi di colpa, ne ho approfittato per recuperare uno dei due colossi che avevo lasciato indietro in quest’anno horror così ricco. L’altro colosso è Cronenberg e quello magari me lo guardo con calma a novembre, perché non c’è una categoria in cui inserirlo.
Men è un film estremamente ambizioso, scritto e diretto da un autore estremamente ambizioso, che a mio parere ogni tanto tende a collassare sotto la sua stessa ambizione, cosa già successa con Ex Machina, ma non con Annientamento, per esempio. Forse perché la base di partenza era un romanzo, forse perché Annientamento è un film così astratto che funziona molto bene anche quando si lancia nei metaforoni arditi. Men, al contrario, è un film che vorrebbe parlare di tematiche molto concrete, urgenti addirittura, e lo fa utilizzando un linguaggio altamente simbolico, che però alla fine fa una giravolta a 360 e sfiora in parecchie circostanze la didascalia. Manca soltanto che ci sia Garland in persona a darti le gomitate e gli scappellotti perché devi capire.
Questo non vuol dire che Men sia brutto. A me è piaciuto, ma più per un discorso di atmosfera, di inquietudine generalizzata, di momenti assolutamente weird che restano molto impressi nello sguardo e nella memoria. Ecco, io credo che Men fili come un diretto quando è strambo, quando è visivo, quando è scatenato. Zoppica un po’ quando cerca di raccontare una storia che abbia un senso, e non intesa come trama del film, ma come vicenda personale e umana della sua protagonista.
Harper (Jessie Buckley) vorrebbe solo passare un paio di settimane in santa pace in una casa che ha affittato nella ridente campagna inglese. Il suo ex marito le si è da poco suicidato davanti e lei non se la passa benissimo, quindi ha deciso di staccare per un po’. Il problema è che una serie di uomini, tutti con la faccia di Rory Kinnear, le rendono la vita impossibile, dapprima con tante piccole aggressioni verbali, allusioni, accuse, e poi cercando direttamente di entrarle in casa e farle la pelle.
C’è da dire che qui la metafora è così urlata e ingombrante che Garland nemmeno deve troppo approfondirla e sottolinearla: la lascia lì, come colonna portante del film, e si diverte a costruire una successione in crescendo di cose molto bizzarre, quasi ci trovassimo all’interno di un sogno della povera Harper, che si fa sempre più inquietante, sempre più oscuro e allucinato, finché non sfocia nell’incubo puro.
Men è interessante anche per come mischia vari filoni della sempre più vasta ed estesa bolla che, per comodità, continuiamo a chiamare horror: parte come un folk horror, con la protagonista che arriva da Londra in una zona evidentemente abitata da rozzi campagnoli e si va a scontrare con una realtà differente dalla propria, con dei retaggi antichi, le famose “old ways” di cui abbiamo parlato tante volte in ambito folk. E tuttavia, le old ways vengono attualizzate, e il discorso non è più sul rapporto tra “quelli di fuori” e gli abitanti del villaggio ancora legati a riti ancestrali e divinità pagane, ma su una donna da sola in un universo interamente abitato da uomini dai volti tutti uguali che si trovano a loro agio nel metterla a disagio. A quel punto, l’impianto folk si accompagna all’home invasion, con Harper barricata in casa, impossibilitata a scappare, e i vari uomini dai volti tutti uguali che la perseguitano, cercano di invadere la sua intimità, di violare i suoi spazi privati, di appropriarsi della sua autonomia e, infine, della sua esistenza intera, di inglobarla nella loro, di diventare questo totalizzante Moloch, la cui volontà è quella di occupare ogni angolo della persona Harper.
E tutto in nome dell’amore.
È un film elegantissimo, Men, con una natura geometrica e cerebrale tipica di Garland (l’uso dei colori, le inquadrature simmetriche), ma che non si tira indietro di fronte al grottesco, al body horror anche abbastanza estremo (alcune scene mi hanno ricordato Society) e persino a un umorismo cattivo e sardonico che, in fin dei conti, in un film così stralunato, ci sta pure bene.
Mi ha lasciata molto più fredda di quello che pensassi, soprattutto in relazione al tema trattato, che diventa talmente indeterminato e teorico da venire disinnescato. Ecco, è questa la cosa che non mi torna: è come se Garland per primo non fosse coinvolto da Harper e dalla sua storia personale. Alla fine, chi mi è mancata in tutta questa lunga corsa tra le campagne inglesi, è proprio la protagonista, quasi non fosse la sua storia.
Però magari sono io, e per voi ci sarà un coinvolgimento maggiore. Fatemi sapere.
Per me e’ stato un film veramente orribile,di Alex Garland mi era piaciuto tantissimo l’ipnotico “Annientamento”,”Ex Machina” era fallace nei personaggi ma interessante nel contesto generale,stra divertente “Dredd 3D” che pare fosse per buona parte diretto da lui,ma questo “Men” per me e’ assolutamente NO,elegante si ma anche terribilmente presuntuoso,la maledizione della “A24” continua a colpire,purtroppo di questa casa di produzione,a parte pochi esempi di film molto validi,non ha mai fatto breccia in me,badassero un po’ di piu’ alla sostanza invece che solo all’elegante e sterile apparenza,opinione mia ovviamente Lucia🤗!
In Celebrity (1998) Woody Allen si prende gioco di quei registi pretenziosi, di “quelli che girano in bianco e nero” così come fa pronunciare a uno dei suoi personaggi (e che Celebrity sia girato in b/n non è puramente casuale, l’autoironia è la cifra dell’intelligenza). Ma quando un regista si dimentica del pubblico quello che gira finisce per essere solo masturbazione mentale. Garland ha questa grande, grandissima capacita di lavorare coi simboli confezionando lavori esteticamente impeccabili, perfetti: dalle inquadrature alla composizione, dalla fotografia alla luce. È in Men ogni cosa è (eccessivamente) al suo posto, con il verde la gamma cromatica predominante. Garland dopo un buon inizio però sembra quasi dimenticarsi della storia concentrandosi sulle immagini e sul simbolismo ma commettendo (a mio avviso) due errori: il primo, rinunciando di andare sino in fondo lungo questa audace decisione sente il dovere, il bisogno di spiegarci ogni passaggio dell’intreccio e svilisce così la scelta (legittima) di far parlare (solo) le immagini indebolendone in tal modo la forza evocativa e scadendo per forza di cose in un certo didascalismo; la seconda, forse più grave, è quella di dimenticarsi dei personaggi i quali restano in fin dei conti figure bidimensionali che sembrano così muoversi senza un indirizzo e senza una direzione dentro una scenografia, sì elegantissima ma posticcia – come accade a certi pesciolini screziati che nuotano avanti indietro in quei begli acquari che mimano i mari tropicali. Peccato perché Rory Kinnear è superlativo e l’incantevole Jessie Buckely (che nel 2020 ha interpretato il più bel film dell’anno I’m Thinking of Ending Think) è un’attrice maiuscola che con quei capelli rossi si sposava benissimo nel verde Leicestershire.
Film che impressiona ma non emoziona, un po’ come certi giochi dell’optical art i quali catturano l’occhio ma non l’animo perché che alla lunga fine vengono a noia. Dopotutto, diceva Kandinskij del verde: “non si muove in alcuna direzione e non ha alcuna nota di gioia, di tristezza, di passione, non desidera nulla, non aspira a nulla. È un elemento immobile, soddisfatto di sé, limitato in tutte le direzioni.”
Capita che Garland fatichi a sostenere il peso delle proprie ambizioni (parlando di Ex Machina, a distanza di anni continuo a preferirgli l’ispanico Automata), sì, e non vorrei che, a differenza di Annientamento, la cosa si ripetesse anche qui. Vedremo quanto riuscirà a coinvolgermi…
Da come lo racconti credo proprio che sia il tipo di film (come modo di raccontare) che non fa molto per me. Magari più avanti lo ripesco…
Come British Horror mi sono ricordato di Wake Wood, visto una vita fa: allora mi sembrò forte (è anche un folk horror, no?).
Scary stories to tell in the dark vale come antologia? Bellissimo. E se non vale, direi Tales of Halloween e Trick or treat che sono veramente fighi.
Besos
Bello da vedere, come sempre Garland. Ma l’ho visto spezzato in 4 parti perché mi ha annoiato e ha lasciato, stranamente, freddissima anche me. È vero, sembrava che al buon Alex della sua protagonista importasse poco e niente. Ho però abbondantemente salivato sulla casa, che mamma mia! che meraviglia, entra altissima nella mia personale classifica delle magioni horror!
Pazzesca quella casa! Bellissima e inquietantissima
Esteticamente rende, il tema trattato sarebbe pure da encomio ma non “arriva” come dovrebbe. Ho trovato la parte finale “too much”, non proprio adatta per tutti i palati. Garland mi pare a un piccolo bivio della sua carriera, dal prossimo film si capirà se in salita o in discesa.