
Regia – Goran Stolevski (2022)
Il Day 18 prescrive una cura a base di Witchy Woman e io ho pensato di giocarmi la carta stregonesca per vedere uno degli horror che più attendevo. Ne abbiamo anche parlato nel post di previsioni uscito a gennaio, se vi ricordate, di questa produzione australiana ma diretta da un regista (esordiente) macedone e girata in macedone. Tra le protagoniste figura nientemeno che Noomi Rapace, presente addirittura in locandina. Inoltre, al Sundance, dove il film è sbarcato a inizio anno, You Won’t Be Alone ha mietuto parecchi consensi, con tanto di recensioni entusiastiche da parte della critica, anche quella non specializzata. Insomma, era il prossimo elevated horror designato, e senza nemmeno avere qualcosa a che spartire con la A24, che comincia a starci un po’ sul cazzo perché mica possono essere elevati solo loro.
E invece no. You Won’t Be Alone è la prima grossa, dolorosa e cocente delusione del 2022. Quella che lascia proprio una ferita, perché ci si credeva tanto e quindi il tonfo è ancora più doloroso.
You Won’t Be Alone è girato in 4:3 perché figurati se ce lo risparmiano, è un film tutto lunghe e insistite inquadrature naturalistiche e zero dialoghi, che a me sta pure bene, sia chiaro. Al posto dei dialoghi, tuttavia, c’è una delle cose che io più detesto al cinema, in tv, ovunque ci siano delle immagini: la temibile e pretenziosa voce fuori campo, che deve commentarle tutte, le immagini, te le deve spiegare, però non in maniera didascalica perché qui siamo elevated, no, ti deve rompere i coglioni a morte con lunghi monologhi facenti funzione di poetiche meditazioni sulla vita, l’universo e tutto quanto. E questa voce fuori campo che poeticamente medita non si ferma mai, non si azzitta mai, non smette mai di martellarti il cervello mentre tu contempli la natura e i tramonti e le albe e le galline e i campi di grano.
È un peccato perché You Won’t Be Alone ha uno spunto narrativo fantastico e il suo regista è anche bravo ad andare alla ricerca del bello e a trovarlo in ogni angolo e pertugio del campo. Solo che poi si sbrodola addosso per quasi due ore, avendo a disposizione una struttura narrativa estremamente ripetitiva e buona al massimo per un cortometraggio.
Ma cosa racconta di preciso, You Won’t Be Alone? Di una giovane donna, nella Macedonia del XIX secolo, che viene rapita da una strega e a sua volta tramutata in strega e mutaforma. La ragazza, che è stata tenuta nascosta dalla madre per tutta la sua infanzia, comincia a sperimentare per la prima volta in vita sua cosa significa essere viva e a sfruttare la sua capacità di assumere l’aspetto di animali e persone per compiere tutta una serie di esperienze. La componente horror è limitata a due fattori: l’aspetto della strega che ricorda vagamente il caro vecchio Freddy Krueger (è interpretata dalla grandissima Anamaria Marinca), e il modo in cui le streghe si appropriano dei corpi altrui, splatter e body horror quanto basta.
Il resto risponde a una domanda che nessuno si era mai fatto, perché la risposta conduce dritta al collasso dei nostri sensi: cosa succederebbe se Terrence Malick decidesse di dirigere un horror sofisticato?
Ora, sapete bene che a me non piace parlare male dei film e del lavoro altrui, quindi oggi mi trovo in grande difficoltà. You Won’t Be Alone è pieno di estimatori che lo hanno amato e apprezzato per ciò che è: una lunga riflessione sulla crudeltà intrinseca della condizione umana, la storia di una creatura segregata dalla nascita che si ritrova a fare i conti con la morte, con la violenza, con la malvagità, ma anche con la bellezza e con l’amore, che scopre la vita e l’umanità e, per questo, si trova sospesa tra la sua natura soprannaturale e la carnalità dei corpi dei quali prende possesso. Concettualmente è pure interessante, ma si trascina e si trascina e si trascina e finisce per risultare sfiancante. Se ne esce estenuati, in debito d’ossigeno e con una gran voglia di rivedersi Sleepaway Camp III. Poi magari a voi piace, come a me è piaciuto Lamb, che tuttavia era molto meno dispersivo, più centrato nei temi, senza l’insostenibile ridondanza della voce fuori campo, e con un’idea portante molto più forte.
Per i fan, come la sottoscritta, di Rapace, c’è da dire che l’attrice sarà in campo sì e no un quarto d’ora, ma tutti gli interpreti sono davvero bravi.
Sinceramente, non so cosa altro aggiungere, giudicate voi.
Per riprendermi dalla narcolessia indotta da You Won’t Be Alone, ho visto Dracula: Principe delle Tenebre della Hammer, dato che l’argomento del Day 19 è Classic Vampire, e Christopher Lee che sibila è di sicuro un classicone intramontabile.
Non so dove scriverlo, ma grazie di cuore per la puntata di Paura & Delirio dedicata a Qualcosa di sinistro si avvicina. A scatola chiusa perché Il popolo dell’autunno è il mio romanzo preferito. Sarà una puntata fantastica
Appena finisce il mese della challenge ricomincio a postare anche il podcast qui sul blog!
Comunque grazie! Spero ti piaccia l’episodio! ❤
The Witch – La regina dei boschi.
The Witch (2015, col sottotitolo A New-England Folktale) è un “film ispirato da un gran numero di leggende popolari su stregonerie del passato”, così lo sceneggiatore e regista Robert Eggers. Agli inizi del XVII nel New England la famiglia di un predicatore viene allontanata dalla propria comunità e costretta a vivere ai margini del bosco. Nel lungometraggio del regista newyorkese – dai costumi (Linda Muir) alla lingua (l’Early Modern English, quello di Shakespeare insomma), dalla fotografia della società all’immaginario collettivo – la ricostruzione del periodo storico rasenta una cura e un’attenzione quasi filologica. Thomasin, la giovane protagonista del film, rappresenta superbamente quel particolare periodo storico – liminale – nel quale fede e ragione ancora si sovrapponevano e dove la superstizione rappresentava il bagaglio culturale popolare, reale quanto la difficile vita dei campi. È impossibile guardare The Witch e non correre col pensiero alla sterminata letteratura sulla stregoneria, alle fiabe e leggende popolari, ai documenti d’archivio o fonti storiche. Ancora, a Carlo Ginzburg e al suo lavoro sui benandanti: questi guerrieri spirituali che combattevano le forze del male per proteggere i raccolti (“le biade”). E, in questa accurata ricostruzione d’epoca, il tema della terra e del raccolto, l’ossessione per il cibo e la paura della fame così costante in quel mondo rurale si fa strada sin dal primo minuto (con il bosco dove si rifugiano gli animali e si nascondono le trappole) per attraversare l’intero lungometraggio (da notare quanto un film come La quinta stagione – 2012 – accumunato da The Witch per il filo rosso delle credenze e riti come costante della quotidianità nell’immaginario popolare condivida con esso anche l’estetica; inquadrature, composizione, luce (Jarin Blaschke): è tutto un felice omaggio alla pittura fiamminga del periodo, da Bruegel in poi). Il tema della stregoneria si presta poi a molteplici punti interpretativi: dal conflitto tra nomos e physis, a quello del soprannaturale sin fino a interrogare immaginario e inconscio collettivo. Il patriarcato, ancora, e il ruolo della donna. Di questo conflitto Thomasin, una superba Anya Taylor-Joy, ne è la degna rappresentazione plastica: a partire da quel suo corpo che la colloca ancora in una terra di mezzo (come il periodo storico in cui la vicenda è ambientata) tra l’adolescenza e l’età adulta (nel corso del film assisteremo al suo menarca come accadde alla Moretz in Carrie). Così Thomasin vive un conflitto tra la repressione famigliare (rappresentata più ancora che dalla figura del padre dal modello femminile espresso della madre Katherine) e desiderio di autodeterminazione: non potrà sciogliersi che non con Thomasin che ucciderà la Regina del focolare, Katherine, per farsi – lei – Regina del bosco. La scelta di abbandonare la religione, il credo del padre (e dei Padri) per abbracciare la stregoneria e raggiungere una piena consapevolezza di sé chiude il film, in una delle sue immagini più potenti. Si aggiunga quanto in Eggers le metafore trovino forza nella concretezza del quotidiano: il caprone Black Philip, il diavolo, istiga Thomasin attraverso la promessa del burro (ancora il cibo): quel burro (butter) che secondo le antiche credenze le streghe rubavano dalle dispense una volta trasformatesi in farfalle (buttefly).
“Tremate, tremate le streghe son tornate.” Ma la grandezza del film di Eggers sta, ancor più, in questo forte messaggio femminista senza mai scadere nel didascalico o nel retorico. Se nel corso dei secoli la strega è sempre stata oggetto di persecuzione da parte delle autorità, a partire dagli anni Settanta il movimento femminista se ne impossessa, rivendicandone l’appartenenza. Se “la prolungata schiavitù della donna è la pagina nera della storia dell’umanità” scriveva un secolo e mezzo fa Elizabeth Cady Stanton più recentemente Jude Ellison Sady Doyle è andata oltre affermando che la storia dell’umanità è storia stessa del patriarcato e la donna è sempre stata il suo antagonista, così: “se il villaggio non ci vuole possiamo sempre dirigerci verso i boschi”, quei boschi che sceglie Thomasin senza più quelle trappole che piazza la società: si chiamino imposizioni od obblighi (anche in Witch Hunt – 2020 – l’empowerment femminile viene rappresentato attraverso la scelta, visivamente poetica, di rifuggire la luce/legge e abbracciare l’ombra/libertà attraverso un volo). Come detto, la grandezza di The Wicht non è tanto per il tema che affronta quanto per il modo in cui lo fa. Anche Get Out di Peele (2017) è un film politico ma dinanzi all’eccellenza figurativa di Eggers Get Out appare poco più che il lavoro incerto e pasticciato di uno studente al primo anno del Cine-TV, neppure la declinazione in chiave satirica del bigottismo di una certa intellighenzia lo salva da un fastidioso paternalismo e retorica tronfia che il gioiello di Eggers o, ancora, la donna promettente Carey Mulligan – con quell’estetica smaccatamente pop – sono stati così abili da rifuggire regalandoci prima di tutto fotogrammi stupendi di grande cinema.
Adesso a pensarci mi sono reso conto di non aver un rapporto chiaro con il vampiro e di conoscere e amare molto poco i classici. Se penso a qualcosa che mi abbia davvero colpito direi dei titoli che però non sono dei classici. Quello che mi viene in mente di bello ed emozionante a cui sono legato non è proprio centrato, ma in qualche modo collegato: il rapporto tra Ed Wood e Bela Lugosi com’è raccontato nel film di Burton (il mio preferito, tra i suoi).
Sulle streghe… essendo per me la magia (o il potere) il modo in cui componiamo (riconosciamo, liberiamo e addomestichiamo insieme) la nostra relazione col nostro universo interiore, il mondo e gli altri esseri umani (emozioni, significato, ideali…), ma anche qualcosa che rivela le caratteristiche uniche delle persone… direi, beh, Giovani Streghe.
Besos!
Un film scandito dalla voce fuori campo… questo sì che è orrore vero 😀
Gesù, la voce fuori campo che ti racconta TUTTO. Che tortura immane
Certo che il nome di Noomi Rapace in locandina è un inganno nei confronti del pubblico, considerando il reale (e scarso) minutaggio a disposizione: fosse stata lei la protagonista, allora sarebbe stato più facile riuscire a sopportare anche quell’invadente voce fuori campo… 😉