
Regia – Takashi Shimizu (2002)
Come abbiamo detto nell’ultimo articolo, è difficile affrontare l’horror del primo decennio di questo secolo, senza fare qualche capatina in Giappone. Se, per motivi cronologici, la rubrica esclude The Ring (è del 1998), non credo sia possibile proseguire ignorando l’altro J-Horror per antonomasia, ovvero Ju-On, che arriva nel 2002 nelle sale (e quindi vent’anni fa: siamo vecchi), ma è in realtà già il terzo film di una saga infinita. Ci occupiamo del terzo non soltanto perché è il più famoso, ma anche perché gli altri non sono mai usciti al cinema, ed è stato questo a diffondere la mania a livello internazionale. E tuttavia, un minimo di storia della serie va raccontata, giusto per contestualizzarla in maniera corretta.
Con The Ring, Ju-On ha in comune una data: il 1998. È infatti l’anno in cui Shimizu realizza due cortometraggi, Katasumi e 4444444444 che, di fatto, danno inizio alla ormai ingarbugliatissima linea temporale della maledizione al centro dei vari film. Il regista stava ancora studiando alla scuola di cinema e a trovare i finanziamenti per i corti (che poi sono diventati segmenti di un film per la tv) è stato nientemeno che Kiyoshi Kurosawa, un altro che di J-Horror qualcosina ne capisce.
Arrivano poi i due The Grudge in DTV, entrambi nel 2000, ed entrambi con un buon successo di pubblico e critica. Ciò che li rende interessanti è proprio l’operazione a bassissimo budget: Shimizu è obbligato a operare in grandi ristrettezze, a girare in pratica in un solo ambiente, la famigerata casa di Tokio, a fare quasi del tutto a meno degli effetti speciali, ad adottare uno stile statico, letargico, oserei dire. Tutti fattori che, in circostanze normali, dovrebbero nuocere alla resa del film, ma in questa diventano gli elementi caratteristici dell’intera saga. E infatti, li ritroviamo pari pari nel 2002, quando finalmente Ju-On sbarca al cinema. Ora, la patina più professionale, l’uso della pellicola al posto del digitale, lo stesso formato che non è più il 4:3 televisivo, forse sottraggono addirittura qualcosa all’atmosfera, rispetto a quell’aria di assoluta malevolenza che si respirava nelle inquadrature fisse, lugubri e buie dell’appartamento incriminato nei primi due film. Ma lo stesso, Ju-On ti mette addosso il sacro terrore di Dio.
Ovviamente, oggi l’effetto novità è andato un po’ perso, ma perché la peculiare estetica J-Horror è stata tranquillamente assimilata anche dal cinema occidentale, e non solo attraverso la pratica del remake: è entrata a far parte, in maniera naturale, del modo in cui le ghost story vengono messe in scena anche negli USA e in Europa. All’epoca non era così e, quando vidi per la prima volta Ju-On, rimasi annichilita dalla diversità di approccio. È abbastanza singolare il fatto che The Ring (quello di Verbinski) e Ju-On arrivino in sala nei rispettivi paesi negli stessi giorni, perché questo ci fa capire quanto l’assimilazione fosse già in corso d’opera. Eppure, guardando Ju-On e tentando anche di ritrovare lo sguardo della me stessa di 20 anni fa, è impossibile non rendersi conto dell’abisso che separava, non tanto tematicamente, quanto stilisticamente, la ghost story di stampo americano di fine anni ’90 e primi 2000 da quella giapponese.
Se mettete film come 13 Ghosts o The Haunting (quello del ’99) accanto a Ju-On sembra di guardare due squadre che non solo non giocano nello stesso campionato, ma forse non stanno facendo nemmeno lo stesso sport.
Non sto facendo valutazioni di merito (un po’ sì, ma poco), sto parlando di diversità radicale e irriducibile, così profonda che spesso nemmeno è stata riconosciuta: per esempio, si accusa Ju-On di essere la fiera del jump scare, ma non è vero. Non ci sono jump scare in questo film, non ci possono essere perché tutto scorre lento e implacabile. Un film che sembra girato a ralenty quando invece è a velocità normale. L’apparizione delle figure spettrali, in Ju-On non sottende a un’accelerazione del ritmo, anzi, semmai sottende al suo contrario: il tempo si congela in uno stato di paura paralizzante. Il che è l’opposto del classico jump scare, una tecnica che spezza la tensione per sua stessa natura. Qui la tensione è una nota costante e, quando si fanno vedere i fantasmi, il peggio deve ancora venire, anche se noi non vi assisteremo.
L’immobilità sepolcrale della macchina da presa, le inquadrature fisse sull’appartamento, la loro durata che pare infinita, la ripetitività di situazioni e gesti: parliamo di un incubo che ci si srotola davanti agli occhi. Tanto è barocco e rutilante lo stile della ghost story occidentale, quanto è ridotto ai minimi termini, all’essenziale, e quindi incredibilmente primario e universale quello di un film come Ju-On.
E poi c’è la questione, fondamentale, dell’ineluttabilità della maledizione. Non è una cosa che puoi sconfiggere, e di conseguenza il film non è il racconto di un gruppo di personaggi che combattono il soprannaturale, è il racconto di come tutti questi personaggi vengono abbattuti come birilli, uno dietro l’altro, senza avere neppure la possibilità di combattere. Non ci può essere salvezza, non si può spezzare la catena, e basta pochissimo per finire vittima di questa furia che arriva dall’oltretomba. Basta recarsi una volta in visita nell’appartamento e si è fregati per sempre. Neppure viene offerta la scappatoia, per quanto aleatoria, presente in The Ring. Niente. È così spietata e priva di vie d’uscita, la maledizione, che persino nel remake americano hanno dovuto lasciarla più o meno intatta. Il che è tutto dire. Ed è sempre efficace, ci puoi costruire una quindicina di film (più o meno lo hanno fatto), puoi realizzarci una serie tv (hanno fatto anche quello), e continuerà a metterti addosso il sacro terrore di Dio.
Pur tenendo ben in considerazione tutto questo, e senza volerlo negare, io non sono mai stata proprio una fan di Ju-On. Se devo scegliere un solo pezzo dall’intero franchise mi predo la serie tv uscita un paio d’anni e fa e sto. Ne riconosco (e come potrei fare altrimenti) gli enormi meriti, ma non riesce mai a coinvolgermi del tutto come alcune cose di Nakata o Kurosawa (Kairo su tutte). Questo perché credo che se Shimizu è davvero molto bravo a comprendere e ad attuare i meccanismi della paura, a saper tirare tutte le giuste leve, lo sia un po’ meno nel trattare un cast corale. Forse è anche la non linearità del racconto a remare contro il film stesso, perché non ti permette di avvicinarti davvero a nessuno dei vari personaggi che finiscono per essere infettati da questa maledizione virale. Forse è proprio il regista che si mette a una certa distanza da tutti perché interessato non alla vicenda umana in quanto tale, ma proprio alla pura meccanica del terrore. Sta di fatto che l’ho rivisto volentieri per parlarne qui, ma posso sopravvivere senza rivederlo una terza volta per tutto il resto della mia vita. Si tratta comunque di un film, e di una saga, di importanza capitale, e non si poteva proprio fare a meno di parlarne.
La prossima volta, ce ne andiamo in Spagna a trovare Paco Plaza.
Quando si parla di storie di fantasmi nei film dei primi anni 2000,tendo a preferire gli spagnoli ai giapponesi,riconosco che hanno delle belle cose da offrire allo spettatore occidentale,ma film come “Ju-On” tendo a considerarli un pò anticlimatici e dispersivi,parere mio ovviamente,ma mi sono reso conto di preferire i film horror nipponici quando non hanno a che fare con le presenze infestanti!
Splendide riflessioni, dal “tempo [che] si congela in uno stato di paura paralizzante” alla “ineluttabilità della maledizione”; è un film difficile Ju On, ma prima di aver letto le tue considetazioni sarei ricorso banalmente ai termini “meccanicità” e “ripetitività”, giudicandolo attraverso parametri che Shimizu intende destrutturare. Ti confesso che quando lo vidi con degli amici che l’avevano noleggiato, complice l’ora tarda, mi abbioccai clamorosamente, stroncato dalla mancanza di progressione drammatica e dal ritmo sonnambolico; è da anni che mi riprometto di rivederlo, ma ancora non ho trovato il coraggio. In compenso ho un legame affettivo con il remake americano, dato che l’ho visto ai tempi al cinema con la mia attuale compagna (quando ancora non stavamo insieme).
Ma infatti io penso sia lecito abbioccarsi davanti a Ju-On, lecito e a volte inevitabile, a seconda dello stato d’animo. E mi piacerebbe rivedere il remake, perché non me lo ricordo affatto brutto, solo che ne ho un ricordo molto vago.
E infatti il remake non è affatto brutto, essendo praticamente l’originale con l’aggiunta di volti noti al pubblico USA (le modifiche, anche sostanziali, sarebbero arrivate nel sequel) e, di conseguenza, mantenendo intatta la sua aura oppressiva e terrificante… motivo per cui faccio passare parecchio tempo fra una visione e l’altra: la bravissima Takako Fuji e tutti gli orrori che ne precedono la spaventosa discesa da quelle scale (maledette come l’intera casa, la serie del 2020 insegna) proprio non sono MAI riusciti a conciliarmi il sonno 😉
Riguardo al problema della coralità, credo si tratti di una scelta voluta da parte di Shimizu: i personaggi sono vittime predestinate e senza nessuna speranza (appunto), quindi si evita di creare quell’empatia tale da farci affezionare troppo e illuderci che le cose possano andare diversamente…
io ho u trauma di preadolescenza legato al remake americano, The Grudge
e solo al primo omicidio, poi ho smesso paralizzato dal terrore LOL
“La prossima volta, ce ne andiamo in Spagna a trovare Paco Plaza.” …[REC]° 😎
Eh, no, è presto per Rec!
Il suono che emettono madre e figlio mi ha fatto venire sempre i brividi. Spesso quando spengo la luce, soprattutto da più giovine e dopo la visione o di una scena o del film stesso, temevo di poterlo sentire nel buio della mia stanza. Le scene decisamente più disturbanti ed iconiche sono quelle di quando lei sta a letto, sfido chi di noi, fan dell’Horror non abbia buttato un occhio ai piedi del letto dopo la visione. Tra l’altro la scena di quando lei sta sotto le coperte e stata copiata para para e spudoratamente da Annabelle 3.
P.S. Mi mancava un parte di commento, e poi ho acceduto con Twitter cosi commentare è più facile…Di Plaza attendo di vedere “La Abuela” che dovrebbe uscire a giorni con Midnight Factory
Ricordo a tutti che esiste un film che risponde alla domanda “cosa succede se guardo la videocassetta di Ring nell’appartamento di Ju-On?”
E sì, è esattamente come immaginate che sia 😀
Avendo visto il film che citi non ho più nemmeno bisogno di immaginarmelo (mi chiedo solo cos’altro mai potranno farci con l’ibrida Sayako) 😉