
Regia – Hideo Nakata (2002)
Se davvero questa rubrica deve esplorare la parte migliore di un periodo abbastanza sottovalutato nella storia del genere, allora non si può restare piantati negli Stati Uniti senza mettere il becco fuori dai loro confini. Sarebbe inconcepibile solo azzardare di comprendere l’horror dei primi anni 2000 senza prendere in considerazione quello che stava accadendo in Giappone, sia sul versante J-Horror più classico, sia nella versione estrema. Solo tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 escono, anche sul mercato internazionale, tre film di un certo peso, e li affronteremo tutti, magari alternandoli con qualcosa di provenienza europea, perché anche lì ci sarà parecchio da dire, soffermandoci magari quasi zero sulla Francia, ma perché la roba della New French Extremity è stata molto dibattuta su questo blog e ci ho fatto un intero podcast da poco, quindi sarebbe un pizzico ridondante. L’idea è quella di viaggiare parecchio intorno al mondo, altrimenti il rischio è quello di perdere la complessità di un cinema che troppo spesso finisce per essere ridotto a una soltanto delle sue molteplici identità, quella più evidente e superficiale, il torture porn.
Ciò premesso, parliamo un po’ di Hideo Nakata e del suo splendido Dark Water, perché Nakata è tra i principali responsabili della definizione dell’estetica del cosiddetto J-Horror, e non soltanto a partire da The Ring, che ha in effetti portato questa estetica sul mercato cinematografico internazionale, anche grazie al remake statunitense, il cui ruolo di amplificatore non va sottovaluto qualunque sia il vostro pensiero a riguardo. Non sto dicendo che se lo sia inventato lui; l’horror in Giappone ha una tradizione molto antica: Kwaidan, Kuroneko, Onibaba, e non staremmo qui se, per esempio, non ci fosse un certo Kiyoshi Kurosawa, ma sicuramente Nakata ha, da un lato semplificato il genere e dall’altro lo ha reso appetibile per un pubblico più ampio, e insieme a lui, ha fatto più o meno la stessa cosa Takashi Shimizu, del quale riparleremo a breve.
Però Dark Water ha ben poco di semplificato e, rispetto al precedente The Ring, è un esperimento più d’autore che va sì a giocare con gli stessi temi e gli stessi motivi (la bambina, l’acqua, il nucleo familiare spezzato), ma lo fa con maggiori controllo e senso della misura, anche perché si tratta di una storia molto “piccola”, quasi interamente contenuta all’interno di un condominio.
Yoshimi Matsubara (Hitomi Kuroki) si trova nel bel mezzo di uno sgradevolissimo divorzio con allegata battaglia per la custodia della figlia Ikuko, che per il momento vive insieme a lei, ma il suo ex marito sta facendo di tutto, colpi bassi compresi, per portagliela via quasi per ripicca: non è mai stato un padre molto presente. Mamma e figlia se ne vanno a vivere in un appartamento situato all’interno di un palazzo un po’ fatiscente. Yoshimi non ci fa caso quando decide di prendere la casa, anche perché non ha poi molte opzioni e si capisce che non naviga nell’oro, ma sul soffitto della sua camera da letto c’è una macchia d’umidità che sgocciola. A parte questo problema di secondaria importanza, le cose all’inizio non sembrano girare troppo male: Ikuko va all’asilo e Yoshimi trova lavoro in una piccola casa editrice; persino la causa di divorzio sembra volgere a suo favore, almeno fino a quando Yoshimi non si convince che l’appartamento sopra al suo sia infestato dallo spettro di una bambina scomparsa nel quartiere tre anni prima, e che il fantasma voglia fare del male a sua figlia.
Dark Water è un esercizio di costruzione e tenuta di uno stato d’ansia perenne. L’ansia tuttavia non deriva solo dall’elemento soprannaturale, ma pervade quasi ogni istante della vita della nostra protagonista, e soprattutto il suo rapporto con la figlia. Yoshimi è infatti messa costantemente alla prova, sempre giudicata, da altri ma anche dal suo stesso sguardo, sulle sue capacità di essere una “buona madre”. Di conseguenza, non appena alla bambina succede qualcosa, qualunque cosa, dall’allontanarsi per andare nella terrazza condominiale a giocare, al sentirsi male con lo stomaco a scuola, la povera Yoshimi viene mangiata viva dall’ansia. E noi con lei, soprattutto perché le due attrici non sono soltanto bravissime, ma hanno anche un modo di stare insieme in scena che rende il loro rapporto estremamente credibile, il loro legame una faccenda tangibile e reale, immersa tra l’altro in un mare di indifferenza e freddezza. È come se madre e figlia fossero sole in un mondo ostile, che non aspetta altro se non veder fallire la prima per sottrarle la seconda.
È in un quadro del genere che l’ingresso del soprannaturale funziona meglio e ha più senso, perché la minaccia rappresentata dal fantasma non è altro se non il riverbero delle minacce quotidiane che gravano sulla testa di Yoshimi. O almeno, così lo percepisce lei: lo spettro, se di spettro si tratta, è lì per toglierle Ikuko e, andando più a fondo nella cosa, la bambina scomparsa è una rappresentazione di se stessa da piccola (ricorre il tema della bimba che resta ad aspettare a scuola i genitori in ritardo o che non si presentano proprio) e una prospettiva da incubo su ciò che potrebbe accadere in futuro a Ikuko. È difficile trovare un film che sappia riflettere meglio l’angoscia di una mamma single a inizio secolo, le pressioni a cui è sottoposta, il terrore di essere ritenuta inadatta al ruolo. Pari all’acume con cui questa condizione viene presentata di Dark Water, esiste solo The Babadook, film con cui ci sono anche parecchi tratti in comune.
Di spaventi in senso classico, nel film ce ne sono relativamente pochi. Uno in particolare, verso la fine è da giocarsi le coronarie, ma non si tratta di jump scare in senso stretto. Quelli sono del tutto assenti. La paura, in Dark Water è un elemento più sottile e pervasivo, come l’acqua che si insinua e si infiltra dappertutto. Ma proprio perché è come l’acqua, la paura passa attraverso ogni barriera e il risultato inevitabile è esserne travolti.
Anche se si tratta di un adattamento da un racconto dello stesso autore di The Ring, Dark Water è un’opera molto più matura, sofferta, meditata. Al posto della crudeltà di The Ring, qui abbiamo tonnellate di tristezza e tanta malinconia per tutti i personaggi coinvolti, fantasma compreso. Di conseguenza anche lo stile è molto sobrio, ma non scialbo come, in parte lo era in The Ring, che sembrava davvero una cosa fatta per la televisione. L’esperienza accumulata dietro la macchina da presa in 4 anni, durante i quali ha diretto 5 film, è servita a Nakata ad acquisire eleganza e senso cinematografico della messa in scena. Siamo sempre di fronte a una regia molto statica, ma è anche la vicenda che lo richiede: è statica sì, ma è fatta di piccoli accorgimenti raffinatissimi.
Sono contenta che il primo J-Horror di questo blog sia stato Dark Water. È un film con cui ho un legame molto particolare e ci tenevo a scriverne bene. Ce ne saranno altri, questo è sicuro, anche più famosi di questo, ma Dark Water occupa un posto speciale nel mio cuore.
Ottima recensione di un caposaldo del J-Horror che anch’io considero splendido e che, in effetti, potrebbe in un certo senso essere visto quasi come l’antesignano nipponico di The Babadook (in primis per la motivazione da te citata). Nettamente superiore al remake USA, in questo caso, e sicuramente distante da The Ring, come del resto doveva essere. Opere differenti, narranti di drammi e spettri differenti, ciascuna con uno stile specifico e adatto alla rispettiva storia: quello quasi televisivo di Ringu, comunque efficace nel creare un’atmosfera minacciosa e man mano sempre più opprimente, mal si sarebbe adattato a un qualcosa di sottile, sofferto e intimista come Dark Water…
Non mi ricordo: avevi trattato anche il remake americano?