Agnes

Regia – Mickey Reece (2021)

Non se Agnes, come leggo da più parti in giro, è uno dei migliori film di possessione demoniaca degli ultimi anni. Anzi, lo so: non lo è, almeno non secondo la mia umile opinione. Però è di sicuro il più strano ed esplicitamente sovversivo. 
MIckey Reece è uno di quei personaggi irritanti ma dotati di grande talento. Non ama l’horror, ci si è ritrovato perché è (parole sue) il genere per cui si ottengono con maggiore facilità i finanziamenti nel circuito dei film a basso budget americani. “Se proprio devo fare una cosa di cui non sono poi così entusiasta, almeno la faccio a modo mio”. È più o meno questa la modalità con cui Reece si approccia all’horror, includendo anche un certo atteggiamento schizzinoso e superiore che ha un suo peso e non è possibile negare o ignorare. 
Ciò nonostante, è uno che bisogna tenere d’occhio, perché sono certa che, non appena a Hollywood si accorgeranno che esiste, gli faranno fare qualcosa di grosso. E credetemi: se lo meriterebbe. 

Agnes è, in linea del tutto teorica, la storia di un esorcismo: in un convento di clausura, una giovane suora (la Agnes del titolo) sembra essere posseduta da un demone. La curia manda a risolvere il problema un sacerdote su cui pende l’accusa infamante di abuso sui minori, accompagnato da un giovane diacono che sta per prendere i voti. L’operazione va, com’è prevedibile, malissimo e a farne le spese, oltre alla povera Agnes di cui perdiamo le tracce, è un’altra suora, Mary (Molly C. Quinn), la vera protagonista del film. Mary, dopo l’esperienza traumatica dell’esorcismo della sua amica, lascia l’ordine e torna a vivere nel mondo. 
La prima parte del film è dedicata ai maldestri tentativi di padre Donaghue di liberare Agnes dal demone; la seconda a Mary e al suo rientro nel consesso civile. 

Sono quindi due film in uno, a malapena collegati tra loro dal personaggio di Mary, che tuttavia per la prima mezz’ora è in ombra rispetto agli altri, e non si ha la certezza che il film sia incentrato su di lei fino a quando non usciamo dal convento e la seguiamo mentre si arrabatta per pagare l’affitto con due lavori e fa i conti con la propria fede perduta. È una struttura volutamente spezzata, per un film che sulla carta non dovrebbe funzionare, ma lui non lo sa e funziona lo stesso. 
È come se Reece avesse avuto in mano due sceneggiature e avesse deciso di comprimerle in un unica storia, usando come filo conduttore il rapporto dei personaggi con un Dio che resta in silenzio e non presta attenzione alle loro preghiere. 

Ma forse non è neanche così, perché Reece mi dà tanto l’impressione di essere uno che prima gira e poi si chiede perché, o meglio, di un regista che trova il senso delle sue storie in corsa, le costruisce sul campo e le lascia aperte all’interpretazione dello spettatore non tanto per una precisa volontà di essere criptico o astruso, quando perché il suo modo di fare cinema consiste soprattutto nel catturare impressioni sparse, fuggevoli e approssimativi sprazzi di comprensione in un mare di tenebre, e un’angoscia che resta inspiegabile e inspiegata. 
Però non voglio che ora pensiate che Agnes sia noioso: Agnes è una commedia, per la maggior parte della sua durata, e anche nelle sequenze più drammatiche mantiene sempre un tono stralunato e assurdamente leggero. È un film più triste che spaventoso, ma più sciocco che triste. Sì, mi rendo conto anche io di star dando i numeri, ma è davvero complicato descrivere Agnes senza raccontarlo o senza cercare  un ordine nel caos.

La sezione del film che si può accostare senza fare troppi errori all’horror classico è la prima, quella ambientata nel convento, ma di classico non ha proprio niente. Somiglia più a una satira consapevole, quasi che i personaggi stessi sapessero di trovarsi dentro un film dove ci si aspetta che reagiscano in un determinato modo, perché il pubblico ha visto centinaia di volte L’Esorcista, e sono quelle le cose che devono per forza succedere. Poco importa se il primo a non credere in certe cose sia proprio colui che l’esorcismo deve eseguirlo, ovvero padre Donaghue: è una messa in scena, una performance in cui a ognuno tocca un ruolo prestabilito. Non solo, ma di solito siamo anche ragionevolmente sicuri di come andrà a finire: o con la sconfitta dell’ospite indesiderato o con la sua vittoria. 
E invece no. 

Reece infatti non solo si rifiuta di darci informazioni su che fine abbiano fatto i vari attori dell’esorcismo, ma scombina tutte le carte in tavola, sposta il fuoco su un personaggio diverso, cambia genere, addirittura, dal film di possessione al mumblecore, e noi restiamo come se ci avessero chiuso la porta in faccia nel momento culminante di un qualunque horror religioso, quello in cui il demone viene scacciato e il bene trionfa. 
Qui, oltre a non essere scacciato, il demone non viene neanche chiarito. Non ne viene accertata l’esistenza, e con ogni probabilità è soltanto un’idea, un’immagine, un’allucinazione per riempire il vuoto affettivo ed esistenziale delle suore recluse nel convento. 
Mary se ne accorge, e quindi sceglie di andarsene, sperando di trovare altrove quello che le manca. 

Ma anche l’esterno riserva sorprese negative: se tra quelle quattro mura intrise di bigottismo la madre superiora la insultava chiamandola “slut”, se ogni corridoio era una prigione e ogni tentativo di raccogliersi in preghiera e rivolgersi a Dio rimaneva inascoltato, anche il mondo secolare è una gabbia, soltanto di tipo diverso. Non a caso, persino lì, lontana dal fervore delle sue ex consorelle e dalla stanca ripetizione rituale di padre Donaghue, Mary ha bisogno di trovare un demone che la infesti: un po’ come nel (sempre secondo la mia umile opinione) decisamente più riuscito e più centrato Saint Maud, anche Mary non ce la fa a esistere senza dare un senso preciso alla propria vita, una direzione anche orribile, ma pur sempre una direzione che spieghi in parte le sue disgrazie; se Dio è muto, deve essere colpa del Diavolo. 
Che cosa sia Agnes è quasi impossibile da stabilire: parodia dell’horror a tematica religiosa? Riflessione sulla fede, su cosa succede quando la si perde, su come si fa a riconquistarla o a vivere privati di essa? Potrebbe pure essere il racconto di una donna destinata a sentirsi ovunque fuori posto e sbagliata, e di conseguenza essere un horror politico. O ancora, forse Reece vuole soltanto farci notare che non c’è poi questa grande differenza tra la vita fatta di restrizioni e privazioni di un convento e la cosiddetta libertà che ci viene graziosamente elargita in una società capitalista. 
Chi lo sa cosa aveva in testa questo matto. 
E tuttavia, Agnes è una visione piena di fascino e stile, un film che funziona contro la sua stessa natura, un piccolo miracolo che si regge in piedi per puro sforzo di volontà. 

8 commenti

  1. Blissard · ·

    Intrigante, grazie per la segnalazione.
    PS: sono vecchio, film recenti sulle possessioni degni di nota? Non me ne viene in mente neanche uno…

    1. Guarda, recente recente nel senso di quest’anno c’è The Medium che è molto bello, e poi c’è The Cleansing Hour che è buono. Di qualche anno fa ci sono At the devil’s door, The Atticus Institute. In teoria, tutto il Warren-verse parla di possessioni di varia natura.
      The Devil’s Candy è, a modo suo, un film di possessione demoniaca, e forse lo è persino Hereditary. C’è Veronica di Paco Plaza che a me è piaciuto tantissimo. E se me ne vengono in mente altri, ti dico!

      1. Blissard · ·

        Te l’ho detto che sono vecchio, li ho visti tutti (tranne The Medium) e nn me ne veniva in mente neanche uno. Come ho fatto a dimenticare Hereditary ?…

        1. Ma perché Hereditary non è un tipico film di possessione, è molto diverso.

  2. Luca Bardovagni · ·

    Bhe, poi c’è il citato dalla Lucy (in the Sky with Demons) Saint Maud. Che è un film sulla possessione DI DIO.
    (non saprei come altro descriverlo).
    P.s.- Sto Agnes è esattamente il tipo di roba che mi piace.
    P.p.s.- (sempre OT) Rivisto appunto Saint Maud di recente. Mi viene in mente Friedkin. E tutti “GRAZIEAR…”. E invece no. Non quello di QUEL film. Quello di BUG.

  3. Giuseppe · ·

    Se Baudelaire sosteneva che “la più grande astuzia del diavolo è farci credere che non esiste” (lo si potrebbe in qualche modo dire anche riguardo alla prima parte del film) Reece, specialmente nella seconda parte, sembra parafrasarlo aggiornandolo per dimostrare che la più grande astuzia di una società capitalista è farci credere di essere liberi (e Mary, infatti, scopre che NON è così)…

  4. “La sezione del film che si può accostare senza fare troppi errori all’horror classico è la prima, quella ambientata nel convento, ma di classico non ha proprio niente. Somiglia più a una satira consapevole, quasi che i personaggi stessi sapessero di trovarsi dentro un film dove ci si aspetta che reagiscano in un determinato modo, perché il pubblico ha visto centinaia di volte L’Esorcista, e sono quelle le cose che devono per forza succedere. Poco importa se il primo a non credere in certe cose sia proprio colui che l’esorcismo deve eseguirlo, ovvero padre Donaghue: è una messa in scena, una performance in cui a ognuno tocca un ruolo prestabilito. Non solo, ma di solito siamo anche ragionevolmente sicuri di come andrà a finire: o con la sconfitta dell’ospite indesiderato o con la sua vittoria.
    E invece no. ”

    Non avevo pensato a questo, minimamente. Mi era parso semplicemente una pagliacciata. Non sono riuscito a continuarlo per quello; potrei riprovare ora capendo meglio questo punto di vista…

    1. Può sembrare una pagliacciata, io ho ancora il dubbio che in effetti lo sia 😀

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