
Tanto per farvi capire quanto io sia obbligata a convivere con multiple personalità che hanno anche gusti cinematografici e televisivi differenti, vi dico che sul mio podio delle serie tv dell’anno ci sono Midnight Mass, So Cosa Hai Fatto e, appunto, Chucky. Della prima ne abbiamo parlato in maniera approfondita qualche mese fa, sulla seconda c’è uno degli ultimi episodi di Paura & Delirio, e Chucky… Beh, Chucky è un caso a parte; lo è nella storia delle saghe cinematografiche horror e lo è, a maggior ragione, nel contesto televisivo in cui è stato calato per la prima volta dal suo debutto in sala nel 1988.
Il gran finale di stagione di Chucky è stato martedì e, in contemporanea, è arrivato il rinnovo della serie, che tornerà l’anno prossimo. Nell’arco di appena 8 episodi, il creatore Don Mancini (al timone del franchise dall’inizio) è riuscito nel miracolo di mantenere una stretta continuità con tutti i film precedenti e, allo stesso tempo, di creare un’eredità per le nuove generazioni, che magari Chucky, Tiffany, Glen/Da a stento sanno chi sono. In tutto questo, Chucky è la cosa più queer che vi capiterà di vedere in questi ultimi scampoli di 2021, forse è l’opera horror più queer di sempre. E chi sono io per dire no a tutto questo ben di Dio?
Chucky viene presentata come sequel diretto di Cult of Chucky, ma prima che la sceneggiatura di Mancini renda palese il collegamento tra serie tv e film, dobbiamo aspettare ben 4 puntate, nel corso delle quali troviamo il vero cuore narrativo della serie, che non è quello nostalgico o da fan service rappresentato dalle brevi (anche se gustosissime) apparizioni del cast originale, bensì dai nuovi personaggi, dei ragazzini di 14 anni che si trovano la vita sconvolta dal ritorno del bambolotto assassino nella sua città natale, Hackensack, New Jersey.
Il protagonista, Jake (Zachary Arthur), compra Chucky a un mercatino e se lo porta a casa, ignorando le implicazioni del gesto. Ci vogliono pochi minuti perché il serial killer Charles Lee Ray riveli la sua presenza a uno sbigottito Jake, e faccia leva, per portarlo dalla sua parte, sull’orientamento sessuale del ragazzo, ponendosi come il solo in grado di capirlo e supportarlo.
Già, perché Jake è il bersaglio dei bulli (anzi, di una bulla in particolare, Lexi, ma ne parliamo a parte) a scuola ed è vittima di un padre rozzo e manesco (Devon Sawa) dentro casa. Chucky sa perfettamente come tirarlo dalla sua parte e farlo diventare un assassino. Per motivi che non posso spiegarvi, Chucky ha infatti bisogno che Jake uccida almeno una persona.
“Horror is Queer”.
Sì, è vero, lo è sempre stato, di nascosto, tramite simbolismi inseriti, quasi fossero messaggi in codice, dagli autori queer all’interno dei loro film (James Whale), o perché l’attenzione di un intero genere era rivolta a mostri e reietti di ogni risma e la comunità ci si è identificata e rifugiata (Clive Barker). Ma l’horror ha anche qualche non piccola responsabilità nella definizione del cosiddetto gay panic: se si guarda alla relazione che Mancini stabilisce tra Chucky e Jake nei primi due o tre episodi, sembra di vedere un adescatore all’opera con un fanciullo innocente; Jake, non del tutto sicuro della propria identità, viene “corrotto” da Chucky, stabilendo così un’equazione vecchia come l’horror tra l’emergere di pulsioni omosessuali e lo scatenarsi di istinti omicidi.
Ma stiamo parlando di Don Mancini, l’autore di Bride e Seeds of Chucky, stiamo parlando della persona che, piano piano, ha reso pubblica la natura queer di quello che è il bambolotto più famoso del mondo. Non può essere così semplice e scontato, giusto?
Giusto. Infatti le puntate successive rappresentano una gigantesca sovversione di questo stereotipo: se Chucky ha scelto un destino ben preciso per Jake, ecco che il ragazzo ne è tenuto lontano da due fattori, la nascente storia d’amore con il compagno di scuola Devon, e il nucleo familiare scelto e non imposto che i due formano con Lexi. Alla fine, Chucky non è il mostro queer che ti accetta per ciò che sei e ti ricorda che soltanto mostro puoi essere. Chucky è semplicemente un maschio più subdolo degli altri, perché conosce i termini e il linguaggio giusti e non si fa scrupolo a farsi scudo di Glen/Da per ottenere ciò che vuole.
Ogni personaggio all’interno della serie è in perenne conflitto con il ruolo che la società gli impone. Non soltanto i protagonisti giovani, ma anche un paio di veterane della saga, come Tiffany (Jennifer Tilly) e Nica (Fiona Dourif), tanto che il processo di emancipazione da Chucky della prima è tutto basato sui sentimenti provati per la seconda, con tanti saluti al già traballante concetto di eternormatività, che Mancini ha messo in discussione a partire dal primo film, inscenando rapporti familiari e, in generale, umani, non conformi alle regole, siano essi appannaggio dei personaggi negativi o positivi.
Con la differenza che siamo arrivati finalmente al 2021 e Mancini può giocare tutto a carte scoperte. Intendiamoci: Chucky non è mai, e neanche pretende di esserlo, sottile. Al contrario, grida forti e chiare le proprie metafore, affinché sia quasi impossibile equivocare. So che pretendere di abbattere oltre un secolo di cliché negativi nello spazio di pochi episodi è un’ambizione spropositata, ma di sicuro una serie come questa aiuta a comprendere come sia possibile realizzare una serie horror apertamente queer in un contesto commerciale. Non horror di nicchia o elevated horror o quel che piace ai critici: Chucky è una commedia al sangue corredata di tutti i possibili ammiccamenti, doppi sensi e battutacce che vi aspettereste da uno come Chucky (doppiato sempre da Brad Dourif, casomai qualcuno se lo stesse chiedendo). La gente muore malissimo e ci sono un paio di omicidi di una cattiveria fuori misura. Insomma, ci si diverte un mondo, e non soltanto perché si è fan del bambolotto assassino, ma perché i nuovi personaggi funzionano e vedere Chucky alle prese con degli adolescenti è semplicemente una delizia.
Sul cast di attori adulti non c’è molto da dire: sono ineccepibili e danno l’impressione aver passato l’intera durata delle riprese ad ammazzarsi dalle risate, il che è sempre positivo quando si tratta di stabilire il grado di affiatamento di un cast corale. Dourif e Tilly, per ovvi motivi, rubano la scena, specialmente in proporzione al tempo limitato sullo schermo che viene loro concesso, ma anche Sawa se la cava in un odioso doppio ruolo. In generale, i genitori non fanno una grandissima figura in questa serie: Chucky, nonostante (lo abbiamo detto) lo faccia in maniera strumentale al suo obiettivo, risulta un padre migliore di tutti quelli in carne e ossa presenti nella serie.
Sono i bambini a impressionare: il quartetto di protagonisti è così convincente che quasi non ci si crede, anche perché hanno l’età giusta, ovvero dai 14 ai massimo 16 anni. In particolare Alyvia Alyn Lind, che interpreta Lexi e che, per i primi tre episodi, è codificata come il vero villain della serie, è un piccolo mostro di bravura. Non a caso Mancini le dà l’arco evolutivo più interessante e complesso di tutto il racconto.
C’è qualche difettuccio sparso, che riguarda soprattutto l’ingresso, a stagione un po’ troppo avanzata, di Kyle e Andy, che arrivano dritti dagli anni ’90, ma sono troppo poco in scena per poter avere un impatto reale sulla serie. In generale, tutto l’impianto narrativo derivato dai film ha più la funzione di collante che di vero cuore e anima della storia, almeno in questi primi 8 episodi. Vedremo se il tutto sarà sviluppato meglio nella seconda stagione in arrivo l’anno prossimo, se Mancini aveva un progetto a lunga scadenza o se, al contrario, dovrà improvvisare.
Credo tuttavia che si tratti di minuzie e che Chucky sia in grado di soddisfare sia i fan di vecchia data del pestifero bambolotto sia chi si avvicina alle sue avventure soltanto adesso. Mancini, ma è cosa evidente dai tempi di Curse of Chucky, dimostra di essere l’unico autore in grado di prendere un’icona dell’horror anni ’80 e riconsegnarla, non snaturata, ma profondamente aggiornata, al XXI secolo. Chucky e Tiffany resteranno con noi ancora a lungo e saranno sempre più queer. Che Dio benedica Don Mancini.
A costo di fare la figura del buzzurro, devo ammettere che la serie (ma ho visto fino alla sesta puntata) mi è sembrata una versione diluita e troppo ripetitiva delle imprese di Chucky; c’è da dire che io non amo il format seriale e che, al contrario di te, ho trovato insopportabili gli adolescenti, non per colpa degli attori ma per come sono stati delineati dalla sceneggiatura.
Gli darò un’occhiata. C’è Jennifer Tilly, la donna più sexy sensuale di tutta la storia del mondo 🙂
Ero già ben predisposto nei confronti di questa serie, e con la tua recensione mi hai dato il colpo di grazia (adesso resta solo da vedere quando riuscirò a trovare il giusto tempo da dedicarle) 😉