
Regia – Adam Robitel (2021)
Io non lo so perché su questo blog non esiste un articolo dedicato al primo Escape Room, quello del 2019; forse è uscito in un periodo in cui c’era davvero troppa roba in giro e l’ho lasciato da parte. Resta il fatto che si tratta di una dimenticanza imperdonabile. Ho adorato Escape Room, l’ho rivisto da poco in vista dell’arrivo in sala del suo seguito, e mi è piaciuto anche di più rispetto a una prima visione. Credo che Robitel abbia azzeccato in pieno l’estetica che ogni film di questo tipo dovrebbe avere per supplire alla scarsissima originalità dell’idea di base. I maligni diranno che Escape Room non altro se non una versione PG13 di Saw, un film che potrebbe essere un meraviglioso ed efferato torture porn, se ancora esistesse qualcuno con il coraggio di farlo, un torture porn.
Ecco, io sono di un’altra scuola di pensiero: posto che non ci siamo persi poi chissà cosa con la morte del torture porn, in Saw l’attenzione del pubblico non è indirizzata verso il gioco in sé. Ogni elemento della messa in scena la dirotta verso le trappole. In un film come Escape Room, la meccanica del gioco ha lo stesso peso del suo esito letale, per cui noi, non è un “Saw per ragazzini”, ma un film che sfrutta un concept vecchio come il mondo nella maniera giusta, ovvero tramutandolo in una gigantesca macchina di intrattenimento.
Avevamo lasciato gli unici due superstiti di Escape Room alla ricerca di un modo per smascherare la misteriosa organizzazione Minos Corporation: Zoey (Taylor Russel), pare aver scoperto un magazzino a New York che dovrebbe essere la sua sede principale, ma è terrorizzata alla sola idea di salire su un aereo, quindi, accompagnata dal fido Ben (Logan Miller) decide di andarci addirittura in macchina. Una volta lì, trovano i magazzini completamente deserti, tranne che per un tizio che scippa Zooey e fugge in metropolitana. I nostri lo inseguono e salgono su un vagone, dove ci sono solo cinque passeggeri. Il vagone si stacca dagli altri, finisce in una stazione abbandonata, viene elettrificato, e il gioco ricomincia.
Dopo che ho cercato di mettere due parole sensate in fila su Titane, e dopo che mi sono sciroppata quella roba da narcolessia immediata di 1408, me la merito anche io un po’ di leggerezza, ed Escape Room: Tournament of Champions è esattamente quello che ci vuole per chiudere la settimana. L’ho visto in sala, ma il film è uscito anche in VOD. Vi dico subito che si tratta di due versioni differenti, e non soltanto per qualche taglietto, ma con sviluppi nella trama e destini dei personaggi che variano a seconda di dove vedete il film. Questo articolo si occupa della versione distribuita nei cinema, e non sarà possibile fare alcun paragone, perché non avuto il tempo materiale di guardare anche l’altra.
Ma parliamo un po’ della leggerezza: Tournament of Champions è un horror di puro e frivolo intrattenimento, forse un tantino penalizzato dall’essere un PG13, specialmente per un paio di “stanze” che fanno presagire sviluppi particolarmente cruenti. Si tratta, tuttavia, di una penalizzazione quasi irrilevante perché, come dicevo all’inizio, il film e il suo predecessore devono la loro efficacia non alle morti pittoresche dei giocatori, ma ad altri fattori.
Per prima cosa, è necessario inventarsi una nuova idea visiva a ogni avanzamento nel gioco dei personaggi: tutti gli ambienti sono molto studiati, scenograficamente molto ricchi, frutto di un evidente sforzo produttivo che, dal primo film, è aumentato in maniera esponenziale: il treno elettrificato, la spiaggia, la banca, la strada newyorkese dell’ultima stanza, sono tutti una gioia per lo sguardo dello spettatore, e Robitel è bravissimo nel rendere comprensibile la macchinosità degli enigmi all’interno di sequenze che sono sempre più concitate e cariche di tensione. Sfido chiunque, durante quella ambientata nella banca, a non rannicchiarsi sulla poltrona del cinema aspettando ogni volta il peggio.
In secondo luogo, bisogna imprimere alla vicenda un ritmo talmente elevato da impedire a chiunque di farsi troppe domande su cosa sta guardando: Escape Room è un vortice che ti risucchia e non ti dà neanche il tempo di pensare, perché altrimenti si aprirebbero voragini nella logica più elementare.
La logica più elementare, tuttavia, è per deboli.
Tutto sta, credo, nel famigerato patto stipulato tra autore e pubblico: nel momento in cui accetti che una spietata, segretissima e ultra-ramificata corporazione organizzi giochi dai costi esorbitanti per scommettitori facoltosi, e abbia le mani in pasta un po’ ovunque, così da poter agire indisturbata e continuare ad ammazzare gente a mucchi senza che nessuno se ne accorga, sei pronto per goderti lo spettacolo; lo sappiamo noi e lo sa Robitel che ci muoviamo ben oltre la linea del paradosso, e allora tanto vale sparare sempre più alto, inventare meccanismi sempre più complessi, stanze sempre più assurde e situazioni che rasentano spesso il fisicamente impossibile.
Come dicevo prima: puro e frivolo intrattenimento per una serata disimpegnata, che ogni tanto ci vuole e ti rigenera.
Escape Room: Tournament of Champions mi ha rigenerata, ma attenzione: non incorriamo nell’odioso equivoco del film da guardare a cervello spento, perché non si tratta di quello. Non ti dà il tempo di pensare a come hanno fatto quelli della Minos a imbastire un’operazione del genere, a come sia possibile che siano infiltrati ovunque, a chi è che ha i mezzi sufficienti per dirottare il vagone di un treno e poi farlo saltare per aria o ricostruire un’intera strada di New York e poi usarla per un giochino così deviato che persino io ho provato un reale senso di angoscia. Cose di questo tipo. La verosimiglianza va lasciata fuori dalla porta della sala, ma non il resto del nostro cervello, che deve rimanere ben acceso per cogliere i dettagli e, soprattutto, godersi il mestiere di Robitel, che oramai possiamo considerare un veterano del genere, del reparto scenografia, e dei due montatori all’opera, che hanno fatto un lavoro eccezionale e a cui do la responsabilità di avermi fatto perdere circa cinque anni di vita in una scena in particolare.
Anche il cast corale funziona molto bene e, come per il primo film, i personaggi sono abbozzati per mancanza di tempo, ma interessanti: a parte i due protagonisti, cui abbiamo imparato a volere bene, spiccano le due facce nuove di Holland Roden e Indya Moore.
Il mio consiglio è di andare a vedere il film in sala: abbiamo bisogno più che mai di distrarci, di divertirci, di sederci davanti a uno schermo gigante e andarcene altrove per una manciata di minuti. Dopo gli ultimi due anni, ce lo meritiamo tutti.
Anche io avevo apprezzato il primo film del 2019; questo onestamente mi ha lasciato più freddo, in particolare perchè – al contrario dell’episodio precedente – i personaggi (come hai rilevato anche tu) sono figurine abbozzate, della cui sorte importa veramente pochissimo al regista come a noi spettatori. La scelta di velocizzare il ritmo fino al parossismo poi penalizza le parti nelle quali i protagonisti devono risolvere gli enigmi.
Preciso che ho visto la versione non cinematografica, che se ho capito bene ha un finale diverso.
Probabilmente cmq hai ragione tu, dopo i due anni che abbiamo vissuto forse film come ER:ToC ci fanno bene.
Il primo è sicuramente strutturato meglio. Ma questo, devo ammetterlo, mi ha divertita anche di più. Poi sono filmetti, questo è assodato. Però mi ci voleva una serata così.