
Regia – Michael Chaves (2021)
Sono passati esattamente 15 mesi da quando sono stata per l’ultima volta in sala a vedere un horror. Si trattava di Underwater, ed è stata anche l’ultima recensione uscita su questo blog su un film uscito al cinema. Da lì in poi, il nulla; a un certo punto, nel corso dell’inverno, la sola idea di tornare a sedersi davanti a uno schermo gigante insieme ad altre persone somigliava a un sogno, a un falso ricordo di un passato remoto, forse neppure mai esistito. E invece, sabato pomeriggio mi sono ritrovata con il mio bel biglietto in mano, pronta a entrare nella sala 4 dell’Adriano per assistere all’ultima avventura dei Warren e, credetemi, di rado sono stata così felice. Non penso avrebbe avuto importanza il valore reale del film: contava solo tornare a casa, in un certo senso, a immergersi in una storia narrata per immagini nell’unico modo veramente giusto per farlo. Che sì, lo streaming è meraviglioso, il VOD permette a tantissimi registi indipendenti di esordire o di raggiungere un pubblico altrimenti impensabile. Ma la sala non ha né termini di paragone né rivali, almeno per quanto mi riguarda. E solo quando si spendono le luci e appaiono i loghi di produzione ti rendi conto di quanto ti fosse mancata.
Su The Conjuring, intesa come saga, e sul Warren-verse nella sua interezza, ne ho sentite di tutti i colori, più o meno dal 2013 a oggi: c’è chi si dice convinto che film del genere facciano “il male dell’horror”, chi vorrebbe una sorta di contraddittorio (giuro) che facesse da contraltare alla fede religiosa dei Warren, chi non manca di sottolineare che, in vita, i due demologi fossero dei truffatori e degli impostori, e chi infine rimarca la natura profondamente conservatrice di questi film.
La prima “critica”, se di critica si può parlare, in quanto il termine presuppone un qualsiasi tipo di ragionamento, è abbastanza facile da liquidare: il Warren-verse incassa uno sproposito e avvicina all’horror milioni di persone che forse in altro modo non ci si sarebbero mai avvicinate. Non può quindi fare il male del genere, è un contraddizione in termini. Ma, se ci fate caso, è un’accusa rivolta a qualsiasi film dell’orrore che non sia girato nel cortile di casa del regista e visto al massimo dalla sua mamma, che è tanto orgogliosa di lui.
Sul resto, invece, vale la pena di spenderci qualche riga sopra, in particolare perché mi ricorda tanto cosa pensavo a 20 anni de L’Esorcista.
A meno che non si tratti di sporadici e sovversivi esperimenti di cinema demoniaco o religioso visto da una prospettiva inedita (per esempio, il recente Saint Maud), quasi tutte le vicende che raccontino di esorcismi e satanassi vari non prescindono da una concezione del mondo che dà largo spazio alla fede. Per buttarla giù il più semplice possibile: se c’è il Diavolo c’è anche Dio, e viceversa. Ne l’Esorcista assistiamo a uno scontro tra bene e male (entrambi con le iniziali maiuscole) il cui campo di battaglia è il corpo posseduto di una ragazzina. È un film religioso, è una storia scritta da un autore religioso e diretta da un regista religioso. È anche un film conservatore, non c’è molto da obiettare a riguardo, e non lo è per i parametri del 2021, lo era tranquillamente anche per quelli del 1973.
Da un punto di vista concettuale, una serie come quella dedicata ai coniugi Warren ha parecchie cose in comune con il film di Friedkin. E no, non sto facendo un paragone di natura artistica, dato l’abisso che separa le due operazioni di cui sono consapevole, perché ancora non mi sono del tutto rincoglionita; sto dicendo che le varie vicende in cui vediamo coinvolti i Warren e la storia di Regan e di padre Karras si basano su un presupposto comune: la fede sconfigge il male.
Ci si può godere L’Esorcista senza condividerne i presupposti? Io credo di sì. E la stessa cosa si può e si deve fare con un qualunque capitolo dell’universo Warren.
Il cinema mistifica la realtà dal 1895, e quindi vi chiedo scusa, ma non mi interessa stabilire se Ed e Lorraine Warren fossero degli impostori, cosa tra l’altro mai dimostrata. La mia storia personale, il mio sistema di pensiero, la mia visione del mondo, mi portano a credere che lo fossero, ma questo non mi impedisce affatto di volere un gran bene alle loro controparti cinematografiche: ho imparato a distinguere finzione e realtà da parecchi anni a questa parte e posso, senza alcuna crisi di coscienza, divertirmi un mondo a guardare un baraccone satanico come The Conjuring 3, e allo stesso tempo non abbracciare i valori in cui i “veri” Warren si identificavano, posto che qualcuno li conosca sul serio.
Mai come nella saga di The Conjuring il termine intrattenimento è stato più azzeccato: io stessa sono diventata una fan del Warren-verse quando ho accettato la natura di questi film per quella che è: film semplici per un pubblico molto vasto, ben realizzati, privi di troppe pretese, ma con un enorme rispetto nei confronti degli spettatori di riferimento; curatissimi dal lato estetico, costruiti con intelligenza da quello narrativo. Si tratta di horror il cui cardine principale non è rappresentato, come molti pensano, dagli spaventi a buon mercato, ma dai personaggi, e dal legame che il pubblico stabilisce con questi.
Se si prende in esame soltanto il filone principale del Warren-verse, quello dedicato ai casi più importanti della carriera di Ed e Lorraine, The Conjuring 3 è il capitolo più debole della loro storia, e non perché arrivati al terzo film si avverta un senso di stanchezza, anzi: Vera Farmiga e Patrick Wilson potrebbero anche recitare la lista della spesa, per quanto mi riguarda, e io potrei ascoltarli per ore, a patto che ogni tanto si guardino negli occhi e si dicano “ti amo”. Ormai l’identità tra attori e personaggi è assoluta, e io, davvero, mai mi stancherò di vederli interpretare Ed e Lorraine, per quanto è bello e confortevole vederli vestire quei panni. Il problema è l’assenza di Wan alla regia in primo luogo, e in seconda battuta, un trasporto emotivo minore nei confronti dei personaggi di contorno rispetto ai film precedenti. La regia di Wan, per quanto classicista, non è mai stata di maniera, e ha sempre mostrato un tocco personale nella messa in scena degli spaventi. Un jump scare orchestrato da Wan difficilmente lo vedi arrivare, mentre Chaves mette sempre tutto in campo e ti telefona lo sbalzo di volume con mezz’ora di anticipo. The Devil Made me Do it è quindi un po’ troppo prevedibile e manca dei guizzi barocchi di Wan e delle sue intuizioni da grande artigiano della paura.
Inoltre, il rapporto dei Warren con le famiglie dei due film precedenti era più approfondito e più forte. Una sequenza come quella in cui Ed canta Elvis, in The Conjuring 2, è irripetibile per carica emotiva, e non sono sicura sia un problema di scrittura, ma, anche qui, di messa in scena: Wan te lo fa passare come un momento tenero e non stucchevole; un altro regista lo affronterebbe in maniera maldestra. Di conseguenza, cala l’interesse per il singolo caso e tutta la nostra attenzione è concentrata sulla coppia di protagonisti.
Più di qualsiasi altro capitolo, questo è il film di Wilson e Farmiga, è tutto sulle loro spalle, sulla loro storia, sul loro amore, e infatti portatevi i fazzoletti per un paio di scene, perché, e lo dico senza timore di essere coperta di ridicolo, quella tra Ed e Lorraine è davvero la più bella storia d’amore mai raccontata dal cinema horror. Ci credi a ogni primo piano, a ogni scambio di sguardi, a ogni gesto d’affetto apparentemente casuale, ma sempre significativo.
Anche con tutti i limiti fin qui evidenziati, rimane lo stesso un bell’otto volante da vivere in una sala affollata, sobbalzando a ogni impennata degli archi e accettando che, ogni tanto, ci si può anche lasciare andare a un divertimento un po’ ingenuo, senza doversi sentire per forza in colpa, volere il male dell’horror o diventare tutto d’un tratto dei bigotti creduloni.
L’horror, per nostra fortuna, è tante cose, ha tante facce, tante identità. Non è obbligatorio amarle tutte, ma è doveroso comprendere che tutte possono avere il loro spazio. Anzi, più nutriamo e apprezziamo questa enorme varietà, più facciamo il bene dell’horror.
Il problema principale di questo terzo capitolo è proprio la mancanza di Wan. Le storie di The Conjuring sono molto semplici e in questo caso è la regia e la messa in scena che rende unico un film. Hai fatto bene a citare la scena di Elvis nel secondo per quanto riguarda il livello emotivo. Questo terzo capitolo è il peggiore ma non è un brutto film.
È il più debole, però a sua discolpa va anche detto che aggiorna la struttura narrativa: dalla casa infestata dei primi due capitoli si passa a un mistery investigativo.
Se ci si può godere L’Esorcista senza condividerne i presupposti, dici? Certo che sì, e per le vicende dei Warren vale ovviamente lo stesso… con il bonus, non trascurabile, di poter finalmente tornare a farlo in sala 😉
Sapendo a mia volta distinguere fra finzione e realtà, determinate critiche da parte dei detrattori fatico davvero a capirle: a cosa mai dovrebbe servire un non ben precisato contraddittorio di contralto alla fede di due personaggi cinematografici (perché questo sono, le controparti dei veri Ed e Lorraine)? E a che scopo rimarcare le accuse di truffa e impostura nei confronti dei Warren, poi? Si pensa forse che una caratterizzazione più realistica delle loro controparti in tal senso avrebbe portato ad avere film più convincenti e, magari, meno “conservatori”? Ma Il cinema mistifica la realtà fin dai suoi primi vagiti, appunto: se lor signori hanno tanta fame di realtà a riguardo, si guardino un documentario che fanno prima…
Non ho visto C3. Vidi il primo all’uscita e mi ricordo che mi sembrò molto ben fatto, senza lasciarmi molto. Il tuo pezzo contestualizza benissimo il tipo di operazione: del resto, da metallaro, se non ci fossero stati i Van Halen o gli Europe, quando ero bambino, non avrei conosciuto gli Iron Maiden o gli Helloween.
Approfitto degli spunti del post per condividere un pensiero da spettatore.
Quando vedo un film me lo godo, anche se non ne condivido i contenuti. Poi ci penso, magari. Sono ateo, non credo nel soprannaturale (non voglio in nessun modo che questo venga visto qui come un giudizio verso chi lo fa), vivo tante sensazioni, emozioni, sentimenti a cui di solito do delle spiegazioni per conto mio. Con i film a contenuto religioso ho sempre avuto delle difficoltà, ad esempio quando rappresentano forze senzienti divine o diaboliche come se esistessero davvero al di fuori dell’uomo (fuoco, vento, presenze, levitazioni, voci…), ma, come dicevo, me li godo lo stesso. Poi dipende anche dal tono. Stigmate ci racconta (forse) che dio esiste, ma che non ha affatto legittimato la Chiesa. Mi piace, mi fa riflettere e va bene. Ovviamente sento più vicino un film come Il signore del male (dove le forze invisibili hanno un intento satirico, pur essendo terrificanti – almeno, io le leggo così). Una ulteriore difficoltà nasce dal fatto che ho vissuto (anche) in ambienti molto religiosi, pure di recente: ecco, e anche qui non voglio che sia visto come un giudizio, l’idea che mi sono fatto è che il pensiero religioso, soprattutto se vissuto in modo totalizzante, crei esso stesso dei fantasmi piuttosto che scacciarli. Questo mi obbliga a sforzarmi un po’ di più per sospendere l’incredulità (è proprio il caso di dirlo:-) con film come questo dove, se ho capito giusto, c’è una ben definita contrapposizione tra bene e male. Poi mi ci butto lo stesso, eh!
L’horror religioso, dipende dal punto di vista in cui è narrato, mi terrorizza come poche cose al mondo.
Ovviamente, non è il caso del Warrenverse: si tratta di baracconi un po’ kitsch con cui distrarsi un paio d’ore, ma se non altro, sono provvisti di un gran cuore.