Per celebrare il tanto sospirato arrivo della bella stagione, ho provveduto a una super infornata di Pillole perché voi apprezzate particolarmente questa rubrichetta, e chi sono io per negarvi il divertimento? Poi bella stagione un paio di palle: qui non vuol smettere di piovere e fa pure freddo, quindi l’uso della parola primavera nel titolo è più l’espressione di un desiderio che la constatazione di un fatto. Ma noi non ci scoraggiamo. Dopotutto, tra pioggia e coprifuoco alle 22, abbiamo un sacco di tempo per fare il pieno di film horror. E mi devo pure sbrigare, dato che oggi si parla di 6 (dicasi sei) film.
Partiamo dalla Russia, vi va? Andiamo a esplorare il pozzo più profondo del mondo con The Superdeep o Kola Superdeep, a seconda della versione che si trova in giro. Diretto dall’esordiente Arseny Syuhin, si tratta di un horror fantascientifico molto ambizioso e anche parecchio costoso. Come il bellissimo Sputnik, dell’anno scorso, The Superdeep si svolge negli anni ’80, e mi pare che oramai possa essere considerata una tendenza diffusa nell’horror e nella sf russi, quella di usare l’epoca sovietica come principale ambientazione.
In questo caso, la sceneggiatura del film si ispira al vero pozzo di Kola e a una leggenda che circola dal 1989: qualcuno avrebbe inserito un microfono all’imboccatura del pozzo e lo avrebbe calato per la bellezza di 14 km. Prima di fondersi per il calore, il microfono avrebbe registrato alcuni grida e lamenti chiaramente umani, quelli delle anime condannate all’inferno. La leggenda si situa in realtà in Siberia, ma dato che lì non esisteva alcun pozzo così profondo, tutta la storia è stata poi trasferita a Kola.
The Superdeep parte da premesse simili, ma poi deraglia in territori che con l’inferno e l’horror a matrice religiosa c’entrano poco o nulla, anzi, siamo più dalle parti di Carpenter e de La Cosa, con strabilianti effetti speciali pratici e della CGI già più discutibile.
Il film non può vantare la perfezione di Sputnik: è un po’ troppo lungo (sfiora le due ore), ha dei passaggi confusi che, ogni tanto, fanno perdere l’orientamento allo spettatore, ma è bellissimo da vedere, quando decide di affondare nella melma dell’orrore fisico e delle mutazioni fa una gran figura, e sfrutta in maniera intelligente gli spazi ristretti della stazione scientifica in fondo al pozzo. Dalla Russia continuano ad arrivare cose molto pregevoli, soprattutto sul versante più fantascientifico dell’orrore. E noi siamo qui ad aspettarne altre con gioia.
Se siete tristi e depressi e avete bisogno di qualcosa che vi tiri un po’ su il morale a terra, ecco che arriva Love and Monsters, disponibile su Netflix, a riconciliarvi con il cinema e con il mondo. Trattasi di una co-produzione di USA e Canada, ma girata quasi tutta in Australia, per la regia di Michael Matthews. Il film racconta di un’apocalisse un po’ particolare: la minaccia del solito asteroide viene sventata dall’umanità, ma qualcosa va storto e i frammenti dell’asteroide rilasciano una sostanza che muta tutte le creature a sangue freddo in orridi (leggasi splendidi) mostri giganti. Il risultato è il quasi totale annientamento della nostra specie. Sopravvivono sparuti gruppi di persone, costrette a vivere in bunker sotto terra, senza poter uscire mai all’aperto. Il nostro protagonista Joel (Dylan O’Brien) decide di punto in bianco di uscire e di imbarcarsi in un lungo viaggio a piedi per raggiungere la sua ex ragazza in un altro rifugio. Seguirà uno degli spettacoli più teneri, commoventi, leggeri senza mai essere stupidi, e avventurosi del cinema degli ultimi cinque o sei anni. Ho letto alcuni paragonare questo gioiellino a Zombieland, ma penso che i soggetti a cui vengono in mente certi paragoni devono essere o molto stupidi o sotto l’effetto di droghe allucinogene, perché, seriamente, i due film non hanno nulla a che spartire l’uno con l’altro, se non il concetto di attraversare un territorio ostile, cosa che tuttavia hanno a loro volta in comune con un altro mezzo milione di film. Non fatevi ingannare e guardate il film con il minimo indispensabile di informazioni: accadranno cose inaspettate, Joel farà incontri importantissimi, non tutto, anzi quasi niente, andrà secondi i suoi piani, ma ne varrà comunque la pena. Da far vedere anche ai vostri figli, se ne avete.
Come True, diretto dal tuttofare del cinema horror indipendente Anthony Scott Burns, è un film prendere o lasciare: potrebbe conquistarvi e ipnotizzarvi com’è accaduto a me, o potrebbe farvi crollare in catalessi che poi ci vogliono le cannonate per farvi riaprire gli occhi. Un effetto piacevolmente in linea con lo spirito del film, che parla proprio di sonno, dei disturbi a esso legati, e di sogni, incubi per la precisione.
Sarah (Julia Sarah Stone), per qualche motivo a noi ignoto, non torna più a casa e preferisce addirittura dormire nel parco. Quando ci riesce, si fa ospitare da qualche amica, ma è anche tormentata da un bizzarro incubo ricorrente. La presunta soluzione per il suo problema arriva quando, sulla bacheca dell’università, trova un annuncio che cerca volontari per uno studio sul sonno. Non dovrà fare altro che dormire e verrà pagata per questo.
Dopo la prima nottata, le cose per Sarah sembrano migliorare. Solo che si deteriorano molto rapidamente. Le finalità della ricerca in cui Sarah e altri come lei stanno facendo da cavie non sono chiare, ma cominciano a sembrare decisamente sinistre dopo un paio di accadimenti tutt’altro che rasserenanti. Soprattutto, hanno risvegliato qualcosa che prima stazionava nel regno esclusivo del sogno, e adesso ha forse trovato il modo per squarciare il velo e incarnarsi nel reale.
Come True si distingue essenzialmente per due cose: la sua protagonista che ha scritto in fronte un destino di grandezza assoluta, se qualcuno si accorgerà di lei al di fuori del cinema indie, ove lavora in maniera stabile da quando è una bambina; le sequenze oniriche, dall’estetica molto originale e diversa rispetto a quello che siamo abituati a vedere al cinema quando si entra nel mondo dei sogni e degli incubi.
È lentissimo, e per dirlo io, che nutro una certa passione per i film compassati, significa che siamo a un passo dall’esasperazione. Ma, come dicevo poco sopra, è un film che mesmerizza, se si è nella disposizione d’animo adatta. Peccato per un finale niente affatto all’altezza, frettoloso (questo sì) e capace di banalizzare in una manciata di secondi quasi due ore di impeccabile costruzione narrativa.
Titolo infelice per un’ottima commedia nera, Dead Dicks promette comicità sguaiata e pecoreccia, ma in realtà è una storia che parla di depressione, suicidio, disturbi mentali e sensi di colpa, di legami familiari che spesso diventano una forma di dipendenza e una catena che ti impedisce di costruire il tuo futuro. Becca è una studentessa di medicina che è stata da poco accettata in una scuola esclusiva. Dovrebbe essere al settimo cielo, ma non sa come dare la notizia al fratello maggiore Richard, depresso cronico di cui si prende cura da anni. Quando finalmente si reca a casa sua per comunicargli la sua prossima partenza, lo trova impiccato nell’armadio, mentre una sua copia, viva e vegeta, si aggira tranquillamente per l’appartamento come se nulla fosse. Becca scopre altri due cadaveri del fratello, uno nella vasca da bagno folgorato da un tostapane e uno in cucina con un sacchetto di plastica in testa. Sulla parete della camera da letto c’è una strana macchia scura, dalla vaga somiglianza con una vagina, da cui Richard rinasce ogni volta che muore. Questa la premessa folle per un film che riesce ad affrontare con una certa dose di leggerezza, ma senza facili minimizzazioni, delle tematiche molto complesse e pesanti.
Il budget di Dead Dicks è ridicolo, e lo si nota a ogni fotogramma: la recitazione non è sempre all’altezza, gli effetti speciali digitali sono approssimativi, l’aspetto è molto povero. Dopotutto si svolge interamente tra quattro mura, con solo due attori a caricarsi sulle spalle un macigno emotivo, e ogni tanto qualcosa scricchiola. Ma è tale la passione messa in campo dai due registi, Chris Bavota e Lee Paula Springer, che alla fine gli perdoni tutto, perché film così coraggiosi e sinceri sono oggetti rari e vanno tenuti stretti.
Se invece siete stanchi degli horror “impegnati” e volete soltanto assistere a ottanta minuti di carneficina, ho proprio il film che fa per voi: For the Sake of Vicious, del duo canadese Gabriel Carrer e Reese Eveneshen è un puro esercizio in brutalità, adrenalina e ultraviolenza. Comincia come un dramma da camera, con un’infermiera che torna a casa dal lavoro ci trova due uomini: il primo è un padre disperato, il secondo è accusato di aver fatto qualcosa di orribile a una bambina. Dopo circa un quarto d’ora di dialoghi inframmezzati da cazzottoni sul naso e martellate sulle rotule, il film si trasforma in un home invasion: una banda di individui mascherati irrompe nell’appartamento della povera infermiera, che voleva soltanto passare in pace la notte di Halloween, con la chiarissima intenzione di fare a tutti la pelle. Parte così una furiosa lotta per la sopravvivenza a base di secchiate di sangue, traumi su ogni parte del corpo e fratture esposte che, ne sono certa, vi delizierà come ha deliziato la sottoscritta. Semmai alla Warner dovesse venire in mente di girare un seguito del Mortal Kombat uscito quest’anno, fossi in loro mi rivolgerei a questi due pazzi canadesi: loro sanno come si massacra di botte una persona, sanno come ridurre un corpo umano in poltiglia e non si tirano indietro di fronte a niente. D’altronde, già il titolo dovrebbe farvi capire a cosa andate incontro.
Nonostante sia, anche questa, un’operazione micro-budget, con i due registi impegnati anche in quasi tutti gli altri ruoli della troupe, anche in post-produzione, il film funziona dall’inizio alla fine, in parte per la sua brevità e in parte perché non ha altra ambizione se non mostrare nei minimi particolari come ci si può ammazzare a vicenda all’interno di uno spazio ridottissimo, utilizzando qualsiasi oggetto a portata di mano. For the Sake of Vicious si merita solo amore, perché ogni tanto un film così è necessario e galvanizzante, e se ne esce caricati a pallettoni.
Chiudiamo con The Toll, esordio alla regia dello sceneggiatore di quello strano film di fantascienza nascosto sotto un mascherone da slasher che era Head Hunter. Anche qui abbiamo un film che cambia pelle in corso d’opera. Se non fossi la raffinata ed elegante critica cinematografica da voi tutti conosciuta e stimata, liquiderei The Toll con cinque parole: “Me la sono fatta sotto”. Però non è solo questo, e anzi, a uno sguardo superficiale alla trama verrebbe anche voglia di passare oltre, per rivolgere la nostra attenzione a qualcosa di più interessante. Non commettete questo errore, mi raccomando.
C’è una giovane donna appena atterrata e desiderosa di raggiungere il ranch dove vive suo padre, un po’ fuori mano ma raggiungibile in macchina; c’è l’autista di un specie di uber che la fa salire in macchina; ci sono delle stradine di campagna sperdute in mezzo ai boschi; soprattutto c’è tanta stanchezza da parte di lei, c’è qualche uscita infelice da parte di lui, l’imbarazzo di due sconosciuti costretti dalle circostanze a condividere uno spazio ristretto, la paura (che, come dice la protagonista Cami, è una seconda natura) tipicamente femminile di essere aggredite, e l’incapacità, dall’altro lato, di comprenderla e di stare al proprio posto.
Capita che, in questa situazione, si fermi la macchina e si rimanga bloccati di notte nel nulla più assoluto. In pratica il mio incubo peggiore messo in immagini. E, come se non bastasse, c’è qualcuno che si sta divertendo a giocare con la sanità mentale dei nostri due personaggi.
The Toll si basa tutto sull’ambiguità dell’autista, Spencer, e sul dubbio se Cami (e di conseguenza noi spettatori) deve fidarsi di lui, se per lei è più sicuro avventurarsi da sola nel bosco o restare insieme a questo strambo individuo, che pare inoffensivo, ma forse non lo è fino in fondo.
L’elemento soprannaturale fa leva su terrori molto attuali e concreti, e funziona proprio per questo. The Toll dura pochissimo, ma è un film molto denso, di avvenimenti, di significati, di simbolismi e concetti. Per la prima metà si limita a terrorizzarti, per la seconda va più a fondo e da vicenda con spauracchio nascosto tra gli alberi, diventa un horror psicologico in piena regola.
Dato che quasi non ne ho sentito parlare, mi sembrava giusto dargli un po’ di spazio. Cercatelo, non leggete le recensioni negative e fate lo sforzo di capire quello che il film tenta di comunicare. Poi tornare qui e fatemi sapere. Grazie.
Visti solo Love and Monsters (che non mi ha esattamente esaltato) e Come True (che invece mi ha intrigato, pur con tutti i suoi difetti). Parto alla ricerca degli altri.
Grazie sempre per le tue preziose pillole.
Ma Come True è molto intrigante, e credo che se non fosse per quel finale lì, se ne starebbe tra i migliori horror del 2021 in scioltezza.
Love and Monsters mi e piaciuto molto, divertente e non banale..Come True è veramente interessante, visivamente notevole..ma il finale…boh…non mi ha finito…Superdeep è in programma… grazie per le pillole.
ci mancherebbe! Siamo qui a disposizione!
The Superdeep non ha la perfezione di Sputnik, vero, ma a voler essere proprio critico io lo trovo appena un paio di gradini sotto e forse già esagero, a dire un paio. Bellissimo da vedere, concordo, e con il cuore citazionista dalla parte giusta: Carpenter e La Cosa padrini illustri, magari con un pizzico aggiunto di George Pan Cosmatos e Leviathan (per alcune caratteristiche che ovviamente non spoilero, a beneficio di chi non l’avesse ancora visto) 😉
Andrò in cerca degli altri, adesso, e potrei cominciare proprio dal bistrattato The Toll…
The Superdeep avrebbe guadagnato di qualche nodo narrativo risolto in maniera più coerente e di una quindicina di minuti in meno, ma vale comunque la pena di guardarlo perché ha alcuni momenti di terrore puro e degli effetti speciali pratici prodigiosi. Bello davvero.
The Toll
“fate lo sforzo di capire quello che il film tenta di comunicare. Poi tornare qui e fatemi sapere.”
(SPOILER interpretativo:-) Ci ho visto un trauma rimasto latente, accompagnato da sensi di colpa, forse superato alla fine. Il Toll Man è il “pedaggio” che la vita riscuote (la sofferenza subìta ma anche la reazione a quella sofferenza: la “vita” che chiede è la tua se non reagisci, è quella del tuo trauma se lo “uccidi”). Però su queste cose non sono molto bravo, nonostante gli spiegoni. C’è sicuramente molto altro. Con la signora sulla ruspa è nata una nuava icona horror:-)
Love and monsters
Amore e mostri, che je voj dì?
Io voglio uno spin off sull’incontro della signora sulla ruspa con il Toll Man. Voglio sapere cosa è successo!
Ma davvero! Toll Man VS Bulldozer Old Lady! Quando è apparsa ho avuto dei flash, l’ho pure intravista salvare la protagonista dai Tremors! The new Furiosa!
Ma che incantevole Love and monsters. Non gli davo mezza lira, meno male che ho conoscenze nell’ambiente 🙂
Un film di una dolcezza infinita ❤