12 Hour Shift

Regia – Brea Grant (2020)

Per molti, il 2020 è stato, ed è tutt’ora, “l’anno senza cinema”, oltre a essere tantissime altre cose, tutte brutte, ma di cui non mi pare questa la sede adatta per parlare. Io, tuttavia, mi sento di voler correggere la definizione e preferisco dire che il 2020 è stato l’anno senza sala, ma è stato lo stesso pieno di cinema. Cinema indipendente, soprattutto, che forse è stato l’unico a non essere solo penalizzato, ma in qualche modo avvantaggiato dal disastro che ha colpito l’intero mondo dello spettacolo: mentre i blockbuster, per ovvi motivi, continuano a essere posticipati a date da destinarsi, i piccoli film a basso budget prosperano nelle piattaforme di streaming e di video on demand e, per una volta tanto, godono di una visibilità che, in circostanze normali, sarebbe loro negata.

Oggi parliamo di un film dal budget così basso che non si potevano permettere un dolly sul set e ne hanno dovuto costruire uno di fortuna per seguire la protagonista lungo i corridoi dell’ospedale dove si svolge la vicenda.
La regista di 12 Hour Shift, Brea Grant, è un’altra di quelle facce più o meno note a chi bazzica l’horror indie da qualche anno a questa parte; nasce infatti, professionalmente parlando, come attrice, condividendo un destino comune con tante sue colleghe, che iniziano davanti e, dopo un po’, passano dietro la macchina da presa, quasi la recitazione, per una donna, fosse un pedaggio da pagare per poi dedicarsi alla regia, e questo dai tempi di Ida Lupino ai giorni nostri.

Ma è il personaggio principale quello su cui vorrei dirottaste un istante la vostra attenzione: l’infermiera tossicodipendente Mandy è infatti interpretata da Angela Bettis, la divina delle divine, svanita dalle scene per un lasso di tempo che credevo infinito e qui riapparsa, armata al solito della sua sfolgorante bravura, probabilmente pagata una miseria, e mattatrice assoluta della scena. Dio, quanto mi erano mancati il suo volto di gomma e la sua fisicità così unica. Ascoltando un’intervista a Brea Grant nel podcast Switchblade Sisters (episodio dedicato a May, una roba che per poco il mio cuore non cedeva), non sono rimasta neppure troppo stupita dall’apprendere che, con Bettis, è sempre buona la prima. Il fatto che un’attrice simile lavori così poco e faccia un film ogni tre anni, è abbastanza scandaloso, ma sono troppo felice per il suo ritorno sulle scene per lamentarmi, e quindi speriamo se non altro di riuscire a vederla un po’ più spesso in futuro.
Perché come ti regge da sola un film lei, poche altre al mondo.
Soprattutto quando si tratta di caricarsi sulle sue esili spalle un’opera dai costi bassissimi, tutta ambientata in un’unica location, e non si ha il tempo materiale di mettersi lì a girare e rigirare un’inquadratura una trentina di volte, ma davvero ti deve riuscire perfetta al primo, massimo al secondo take.

12 Hour Shift è puro cinema da guerriglia, una commedia nera che, mentre la guardi, ti sembra quasi di avvertire il senso di urgenza e l’entusiasmo folle del set; un film che corre come la sua protagonista, una pallina da flipper sballottata da una parte all’altra dell’ospedale, che cerca di far fronte a decine di problemi, per risolverne uno ne scatena altri dieci e noi siamo lì a chiederci se mai ne uscirà, da questa situazione paradossale in cui si è cacciata.
Perché Mandy, per pagarsi le varie sostanze di cui fa uso (quelle che non trafuga dagli armadietti dei medicinali sul posto di lavoro o non ruba ai pazienti in cura) si occupa di traffico illecito di organi. Non solo svolge la funzione di portarli fuori dall’ospedale, ma se li procura anche con metodi poco ortodossi, tipo somministrare la candeggina ai malati cui non resta molto da vivere, per prendersi gli organi ancora utilizzabili. Insomma, ognuno fa quel che può per sbarcare il lunario.
Se non fosse che, durante un turno di notte di 12 ore, compie il tragico errore di affidarsi a una sua cugina acquisita per la consegna di un rene. E da lì parte un delirio che coinvolge l’intero personale del pronto soccorso, la polizia, un detenuto del braccio della morte ricoverato per tentato suicidio (David Arquette, anche produttore) e svariati personaggi che si trovano a passare da quelle parti, con effetti tra il rivoltante e l’esilarante, a seconda della tenuta del vostro stomaco e della vostra morale.

12 Hour Shift è un film leggero, una commedia horror violenta e irriverente, con un sacco di morti ammazzati, parecchio sangue, quasi tutto sparso su faccia e corpo di Bettis, e una galleria di caratteri tra l’assurdo e il grottesco. Eppure non è affatto un film sciocco: il personaggio di Mandy, vuoi per lo spessore conferitole dall’interpretazione di Bettis, vuoi perché scritto con cognizione di causa da Grant stessa, è per esempio particolarmente riuscito e anche inusuale. Un’assassina quasi per inerzia, stanca di tutto e tutti, che accetta con una rassegnazione fatalista tutti i disastri che le piombano addosso nel corso della nottata. Da un punto di vista fisico, la comicità espressa da Bettis è quasi da film muto, alla Buster Keaton oserei dire: in controtendenza con la sua espressività di solito molto accentuata, qui il volto dell’attrice resta per lo più impassibile, mentre il suo corpo reagisce e scatta come una molla; ma c’è comunque una profonda disperazione che trapela dai suoi occhi. Lo so che sembro un’invasata o una fan girl, ma credetemi se vi dico che 12 Hour Shift vive su Angela Bettis e sulla sua comprensione del personaggio che si trova a incarnare e delle situazioni al limite cui la regista continua a metterla di fronte.

Perché poi è proprio nel contrasto tra l’impassibilità di Mandy e la fura di ciò che le si scatena intorno e contro, che risiete l’efficacia del film: questo contrasto ci fa sorridere, dà ritmo ritmo alle scene, carica gli eventi di una luce surreale, ma certe volte ci dà anche il tempo di affacciarci nell’intimità di Mandy, un personaggio così distante e alienato da risultare quasi inumano. Nelle rare occasioni in cui ci viene concessa la vicinanza con lei, riusciamo a intravedere il dramma che la condiziona, il percorso che l’ha portata fin lì, a rimanere indifferente alla vita e alla morte, vittima di una routine sfiancante e di un mestiere che l’ha svuotata progressivamente, lasciando di ciò che un tempo è stata a malapena un guscio vuoto e tremante quando si manifestano i sintomi della crisi d’astinenza.
E tutto questo mi riporta al vecchio adagio kinghiano pronunciato da Vera in Dolores Clairbone, quello sulle donne che per sopravvivere devono diventare carogne.
Ecco, 12 Hour Shift è un film pieno di donne che sono diventate carogne, e Mandy è la loro portavoce.
Che questo anno apocalittico almeno ci faccia la grazie di conservare così il cinema indipendente. Ne abbiamo davvero tanto bisogno.

9 commenti

  1. Enrico · ·

    Sapevo dell’arrivo di questo film e ora non vedo l’ora di vederlo. Con Angela Bettis è stato amore grazie a May, credo uno dei miei film preferiti in assoluto. Lo guarderei spesso ma evito, per non farlo diventare una consuetudine, perché visto che non lo è (una consuetudine), vorrei ogni volta sentirmi come la prima volta in cui l’ho visto insieme alla mia gatta 😅 Si parla troppo poco di May nel mondo!

  2. Blissard · ·

    Grazie per la segnalazione, messo in wishlist assieme ad Archons e Books of Blood.

  3. Almeno una buona notizia nel 2020, aspettavo il ritorno di Angela!

  4. Luca Bardovagni · ·

    Sarà deformazione professionale (faccio l’operatore socio sanitario) ma anche con questo bassissimo budget non noti come un certo tipo di lavori e/o persone “assistite” stiano sempre più al centro dell’ horror di qualità contemporaneo? La protagonista del MUST del decennio (è Babadook, lo sappiamo) è mia collega, quello che hai battezzato come il best 2020 (Relic) vede diverse tipologie di questi “dimenticati”, Amour di Haneke (che nella mia visione iperinclusiva come la tua non ho problemi a chiamare horror…)…
    L’horror (in senso iperinclusivo) ha SEMPRE MOSTRATO QUELLO CHE LA SOCIETA’ RIMUOVE. Pensa all’American Dream e a “They Live” per fare un esempio che viene da DIO aka John. Nel tuo incipit accennato in quanto OT hai fatto riferimento al motivo dell’ “anno senza cinema”. Ecco, molto brevemente anche io mi incazzavo come un Bruce Campbell sotto steroidi davanti alle frasi sentite così troppo spesso questi mesi “tanto ammazza solo i vecchi”. Come se un 90enne non meritasse di arrivare a 95, se può. Come se io, te, tutti, non SAREMO TUTTI VECCHI; UN GIORNO. Credo che l’horror postmoderno, ancora una volta, ci mostri il RIMOSSO SOCIALMENTE. E bene fa.

    1. Ma pure a 100 o a 120, se solo fosse possibile: pare quasi che la vita, da una certa età in poi, non sia più vita. Non sia più degna di essere vissuta, per cui sì, dai, che vuoi che sia se qualche vecchio crepa.
      Ma vecchiaia e morte, come dici tu, sono degli enormi rimossi della nostra società, e qui interviene l’horror che ti dice: guarda, ciccio, che un giorno anche tu invecchierai e poi morirai, quindi smettila di fare lo stronzo, Più o meno

  5. Maria Alessandra Cavisi · ·

    L’ho visto ieri sera e devo dire che concordo pure con le virgole. Lei è supermegafantastica!

    1. Sì, lei è una bomba! Dovrebbero farla lavorare di più, è un’ottima attrice.

  6. Blissard · ·

    Finito di vedere ora e scrivo per esternarti profonda ammirazione per la tua recensione; il paragone tra Angela e Buster Keaton è azzeccatissimo, mi ha colpito molto, e in generale la tua rece fa percepire come 12 hour shift sia un film vivo, febbrile e pulsante, al di là delle implausibilità e degli eccessi grotteschi.
    Non so se hai avuto la stessa impressione, ma io ho pensato che David Arquette abbia chiesto alla regista di scrivere un personaggio per lui, perchè il suo ruolo si amalgama poco e niente con la narrazione.

    1. Grazie, sono contentissima ti siano piaciuti entrambi, film e recensione.
      E sì, ho avuto il tuo stesso sospetto: Arquette ha prodotto il film ed evidentemente nella stesura iniziale non aveva un ruolo e lo ha imposto.

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