Interrompiamo momentaneamente la programmazione a base di bestiacce (tornano venerdì, non preoccupatevi) per celebrare degnamente il compleanno più importante di questo 2020, che di gioie ce ne ha date davvero poche, ma almeno segna il traguardo dei sessanta per l’esordio ufficiale di Mario Bava dietro la macchina da presa. E ho detto ufficiale perché il regista aveva, in realtà, già diretto e co-diretto altri film non accreditato, ma con La Maschera del Demonio si può datare l’inizio della sua carriera, che curiosamente coincide con la nascita dell’horror italiano. Curiosamente era sarcastico, per chi non se ne fosse accorto. Certo, direte voi, ci sono i precedenti de I Vampiri e Caltiki, entrambe opere in cui ci aveva comunque messo lo zampino il nostro (“curiosamente”, e due). Eppure è qui che Bava inventa un linguaggio, quello del gotico all’italiana e, per esteso, del cinema dell’orrore italiano tutto. E non solo: se si fosse limitato a influenzare la breve ma intensa stagione del gotico nel nostro paese, sarebbe già una faccenda grossa, ma lo stile inaugurato da Bava nel 1960 ha varcato i confini nazionali ed è sopravvissuto alla prova del tempo, allungando la sua ombra fino ai giorni nostri.
È vero che il valore di un film non si misura in base a quanto ha successivamente influito sul cinema a venire: La Maschera del Demonio rimarrebbe magnifico anche se si fosse trattato di un caso isolato, anche se non avesse diffuso la sua progenie in tutta Europa e negli Stati Uniti, ma è un fatto acclarato che, con la Hammer in Inghilterra e i Poe-film di Corman negli USA, sia stato Mario Bava a inventare quasi dal nulla quello che noi chiamiamo cinema dell’orrore moderno. Anzi, andando ancora più a fondo, Corman e la Hammer non potevano vantare le intuizioni di Bava in questo film, perché il gotico italiano è un gotico molto particolare, più trasgressivo e, mi si passi il termine, più estremo rispetto ai cugini britannici e americani, è un gotico viscerale che sposta per la prima volta dal fuori campo al campo i dettagli macabri ed espliciti, come si vede dall’incipit de La Maschera del Demonio, che penso ai tempi dovesse essere stato sconvolgente per gli spettatori; da un certo punto di vista, lo è anche adesso. Semplificando al massimo, si può affermare che la Hammer e Corman facevano cinema gotico, mentre Bava è il ponte tra il gotico e l’horror puro. Utilizza ambientazione e struttura narrativa proprie del gotico ottocentesco per traghettarlo in territori molto più oscuri e viscerali.
Non si deve poi sottovalutare l’elemento dell’eleganza formale che caratterizza La Maschera del Demonio: anche in questa ricercatezza estrema nella composizione dell’inquadratura, nella fotografia, nei movimenti di macchina, Bava distanzia di parecchie lunghezze i colleghi anglofoni che lavoravano più o meno sugli stessi temi negli stessi anni. E, anche qui, ha fatto scuola, in Italia, dove il cinema di genere è sempre stato connotato da una ricerca visiva superiore alla media, e all’estero, finendo per essere una delle principali fonti di ispirazione per registi del calibro di Tim Burton (quando ancora era vivo).
Tanto per fare un rapido elenco di momenti dalla portata rivoluzionaria, oltre a citare la classica soggettiva di Asa nella maschera del titolo, ci sarebbe anche quella panoramica a trecentosessanta gradi nella cripta, quando i due dottori in viaggio scoprono la tomba della strega/vampira, o il piano sequenza che presenta la famiglia di Katia e parte da lei al pianoforte per passare al fratello intento a lucidare il fucile e arrivare infine al padre davanti al caminetto; o ancora, i trucchi ottici atti a far convivere Asa e Katia nella stessa inquadratura, la resurrezione di Asa e, per finire, quell’attimo assolutamente dirompente in cui i doppi sembrano fondersi in un unico corpo, quasi ad anticipare addirittura il body horror. E ce ne sarebbero ancora, ma poi non la finisco più e dovete chiamare la polizia per farmi star zitta.
Fino a ora abbiamo affrontato il film soltanto da un punto di vista formale, perché La Maschera del Demonio, e tutto il gotico italiano da esso scaturito, è la dimostrazione pratica di una delle mie massime preferite: la forma è sostanza. Ma la prima opera accreditata di Bava è profondamente eversiva anche per i contenuti, che tuttavia passano spesso in secondo piano rispetto alla pura bellezza delle immagini; non parlo qui della trama in sé. La narrazione è fluida, scorrevolissima e, caso strano per un horror degli anni ’60, di solito caratterizzato da un ritmo letargico, il montaggio è di una modernità quasi sconcertante. Merito di Mario Serandrei, che figura anche tra gli sceneggiatori del film, e il cui apporto creativo all’operazione non può passare sotto silenzio. Ma la storia del film è in larga parte la tipica zuppa gotica, tanto che non pare neanche interessare più di tanto a Bava. Sono i dettagli a fare la differenza, perché propongono tanti piccoli spunti di sovversione alla linearità un po’ prevedibile della vicenda.
Lo sappiamo sin dall’inizio che la strega sarà sconfitta, Katia e il dottorino coroneranno il loro amore, che sarà la forza del simbolo religioso al collo di Katia a far scoprire l’inganno della perfida Ana. Sono tutte cose a cui siamo pronti.
Non siamo pronti alla carica erotica, di natura quasi sadomasochista (Bava avrebbe in seguito diretto La Frusta e il Corpo), sprigionata da Ana, non siamo pronti all’insistenza con cui Bava calca sul tema del doppio, che non è soltanto relativo al dualismo Ana/Katia, ma riverbera in ogni angolo del film, a partire dai due protagonisti maschili, entrambi caricati di potere salvifico in quanto medici, e destinati a intraprendere strade opposte e, appunto, speculari. Ma c’è di più: Katia cede al proprio destino con voluttà, è legata al castello diroccato della sua famiglia a un livello quasi simbiotico e, anche se arriva l’amore a spezzare questa catena (ma è un tropo, anche abbastanza trito, anche nel 1960), l’impressione forte è che Katia desideri che Ana prenda il suo posto, in uno slancio, anche quello di carattere quasi erotico, nei confronti della morte che fa impallidire il contemporaneo I Vivi e i Morti di Corman.
E cosa dire di quel momento di assoluto orrore in cui la veste di Ana si sposta a scoprirle il torace in putrefazione? Mai nella sua storia il cinema italiano si era spinto così oltre e anche se si tratta solo di pochi fotogrammi, sono l’innesco di un processo irreversibile.
La Maschera del Demonio esce in sala per la prima volta l’11 agosto del 1960 e segna l’inizio dello strano destino di Bava, ovvero quello di essere sistematicamente ignorato in patria ed esaltato all’estero. I francesi, soprattutto, accolsero questo film in maniera lusinghiera, e pure questo grande amore della Francia nei suoi confronti è destinato a reiterarsi nel corso degli anni.
Tra le varie invenzioni attribuibili a Mario Bava (il gotico italiano, il Giallo, lo slasher) c’è anche quella di Barbara Steele come regina del gotico, nel senso che se l’è proprio inventata lui in questa veste che poi ne avrebbe segnato l’intera filmografia, in Italia e all’estero.
Steele, all’epoca ventitreenne, ebbe un rapporto non facile sul set con Bava, e in seguito ha ammesso di essere stata abbastanza insopportabile, in parte a causa della sua giovane età e dell’inesperienza, in parte a causa dei problemi di comunicazione: non parlava italiano.
E tuttavia, Bava ci ha consegnato, alla sua prima apparizione nelle vesti di Katia, una delle icone più potenti del cinema gotico. Non ho inserito l’arrivo di Barbara Steele all’esterno della cripta coi cani al guinzaglio tra le sequenze memorabili del film solo perché me la volevo tenere per ultima. Credo che poche inquadrature possano essere considerate così definitive di un’epoca, di un genere cinematografico, di una carriera. C’è tutta una concomitanza di fattori che confluisce in quell’unico taglio: il volto e la postura di Steele, il modo in cui è vestita, pettinata e soprattutto, illuminata, la scenografia da dipinto tardo-romantico. Un concentrato di bellezza assoluta che, ne sono certa, avrà stregato aspiranti registi a ogni latitudine.
Ecco, mi piace pensare a La Maschera del Demonio come un sortilegio che continuerà ad avere effetto fino a quando esisterà un mezzo di comunicazione chiamato cinema. E immagino una mia omologa, tra altri sessant’anni, a scriverne ancora, perché alcuni film sono indelebili e la loro eredità immortale.
recensione capolavoro per un film capolavoro. non ho altro da aggiungere, hai già detto tutto 😀
Ma grazie (si nasconde imbarazzata dai complimenti).
Un film così d’impatto che, pur essendo in bianco e nero, molti se lo ricordano a colori.
Ottima recensione ed eccellente pro-memoria.
Magari se si ricordano anche un paio di esplosioni, forse lo vedono anche, tu che ne dici? 😀
Grazie!
Non so se sei a conoscenza della risposta che Bava diede a chi gli chiedeva i motivi per i quali i suoi film avevano più successo in America. “Perché so’ più fessi de noi” commentò ironicamente. Comunque, a parte la frecciatina a Burton (cattivaaaaa!), splendida recensione. Torno a ripeterlo: sei la Lester Bangs del cinema di genere. Entrambi scrivete divinamente, ma tu capisci di cinema, mentre Bangs non capiva nulla di musica 🙂
Troppo onore ❤
Ma io a Tim Burton voglio un bene dell'anima. Lui ha girato uno dei film che amo di più sulla faccia della terra, ovvero Ed Wood, gli devo gran parte del mio immaginario infantile e della mia rudimentale comprensione del cinema quando ero un'adolescente.
Però Alice non glielo perdonerò mai finché campo, ecco. 😀
Tra l’altro, diversi anni fa Burton rimase giustamente e malamente spiazzato quando, durante una conferenza stampa nostrana in cui aveva citato Mario Bava come uno dei suoi indiscussi maestri, scoprì che i giornalisti ITALIANI presenti per intervistarlo non avevano mai sentito parlare di lui…
Recensione e film di pari altissimo livello, ovvio, e da te non mi sarei aspettato niente di meno ❤
P.S. Mmmh… ci sarebbe addirittura chi se lo ricorda a colori, eh? Sarà mica perché il torace in pessime condizioni l’aveva anche il povero Nordeg/Sallis in Terrore nello Spazio? 😉
Bella la competenza dei giornalisti italiani, vero?
Tutta gente che in teoria dovrebbe essere preparata sulle fonti d’ispirazione del regista che sta andando a intervistare, e invece niente, figure di palta su figure di palta.
E siamo fin troppo generosi a dire “di palta”… 🙁
Vabbè mi parli di uno dei miei film preferiti in assoluto! Come posso non esserne felice? Una recensione meravigliosa che mostra tutto il tuo affetto per questa pellicola e per il grande Mario Bava e che fa capire al lettore perché La maschera del demonio sia un film importantissimo e molto bello. Anch’io tempo fa ci ho fatto una recensione ma ammetto di essere un po’ geloso della tua. Mi sarebbe tanto piaciuto farla in questo modo.
Mi accodo buon ultimo. Ma avendo visto il titolo, ho stappato una birra e mi son messo comodo mentre leggevo.E’ difficile anche per me aggiungere qualcosa al capolavoro di Bava. Ma sapevo che la tua sensibilità e il tuo acume ne avrebbe scandagliato dei lati in quel modo che ti fa dire “questo ‘ho sempre pensato anche io. Solo che non lo sapevo esprimere”. E concludo; più qualcosa si avvicina a ciò che ti tocca pi profondamente, più ne scrivi MEGLIO. Ed è il contrario di facile, come ci insegna pure Stand by me. Ora imbarazzati pure, ma è solo una constatazione, manco un elogio.
E io ti ringrazio e ti dico che sì, tutta la faccenda mi tocca profondamente e personalmente perché Bava è stato uno di famiglia, quindi la sua storia è in parte anche quella dei miei nonni e quindi, quando ne parlo, ho sempre un po’ di soggezione, ecco 😀
Mi accodo buon ultimo. Ma avendo visto il titolo, ho stappato una birra e mi son messo comodo mentre leggevo.E’ difficile anche per me aggiungere qualcosa al capolavoro di Bava. Ma sapevo che la tua sensibilità e il tuo acume ne avrebbe scandagliato dei lati in quel modo che ti fa dire “questo l ‘ho sempre pensato anche io. Solo che non lo sapevo esprimere”. E concludo; più qualcosa si avvicina a ciò che ti tocca più profondamente, più ne scrivi MEGLIO. Ed è il contrario di facile, come ci insegna pure Stand by me. Ora imbarazzati pure, ma è solo una constatazione, manco un elogio.
Film stupendo, con la Steele divenuta icona meravigliosa del genere