L’intenzione era quella di chiudere la settimana all’insegna della leggerezza che l’ha contraddistinta, e infatti avevo scelto un film che mi sembrava leggero, un bello slasher con dosi abbondanti di gore gratuito per caricarsi in vista del weekend. Conosco, e ho letto anche molto di recente, il fumetto omonimo da cui Random Acts of Violence è molto liberamente tratto, ma non credevo che uno come Baruchel avrebbe preso gli spunti di riflessione lì abbozzati e li avrebbe addirittura approfonditi. E qui la colpa è mia, che ho sempre dei pregiudizi nei confronti di chi lavora nell’ambito della commedia, soprattutto se di commedia americana si tratta, che io davvero il loro senso dell’umorismo faccio una fatica bestiale a capirlo e, per quanto mi sforzi, non riesco quasi mai ad apprezzarlo. Jay Baruchel è una faccia nota che si sposta tra i film di Judd Apatow e quelli di Seth Rogen e questo è il suo primo lungometraggio da regista, in cui si ritaglia anche il ruolo di spalla e socio in affari del personaggio principale.
Avrei tanto voluto deliziarvi con lo splatterone del venerdì e invece ho ricevuto una sonora lezione da chi non mi aspettavo affatto. Non vedo, tuttavia, perché non infliggerla anche a voi. E quindi, alle soglie di Ferragosto, affrontiamo di petto un argomento spinoso, e anche un po’ sdrucciolevole, come quello della responsabilità dell’autore.
Random Acts of Violence racconta di un fumettista, Todd (Jesse Williams), autore del violentissimo e controverso Slasherman, fumetto horror basato su una serie di omicidi realmente accaduti e dal successo tanto inaspettato quanto clamoroso. Dopo anni di attività, è arrivato il momento per Slasherman di andare in pensione, solo che Todd non riesce ancora a trovare un finale giusto per l’ultimo numero di prossima pubblicazione. In cerca di ispirazione, parte con la sua fidanzata (che sta scrivendo un libro sui veri delitti del killer della I-90 per dare voce alle vittime), la sua assistente e il suo editore per un viaggio lungo i luoghi dove si sono svolti, quasi trent’anni prima, i fattacci, e nel mentre ne approfitta per fare un piccolo tour promozionale, firmare autografi, parlare coi fan e rilasciare interviste.
Peccato che un pazzo cominci ad ammazzare gente a casaccio, replicando in maniera esatta le feroci dinamiche degli omicidi così come Todd li ha disegnati in Slasherman, e che dopo aver fatto fuori un po’ di persone del tutto estranee ai nostri protagonisti, prenda di mira proprio loro.
La frase di lancio del film è “You can’t control what you create” e, come vi dicevo prima, l’argomento è di quelli insidiosi: un horror incentrato su un serial killer che si ispira a un fumetto horror potrebbe sembrare, a prima vista, una resa incondizionata a tutti quelli convinti che noi appassionati siamo soltanto un branco di potenziali assassini con la bava alla bocca. Oppure potrebbe essere l’ennesima rivisitazione di Scream, che liquidava la faccenda con una sola battuta, messa in bocca proprio ai due killer, sul fatto che il cinema non crea gli psicopatici, serve solo a rendere quelli che già lo sono più creativi.
Random Acts of Violence è un po’ più complicato di così, e ve lo dico subito a scanso di equivoci: non è un gran film. Ha problemi di ritmo, ha un montaggio confuso, mette troppa carne al fuoco e fatica ad arrivare al nocciolo della questione, forse perché (come la sottoscritta) Baruchel non ha idea, lui per primo, di quale sia il nocciolo della questione.
E tuttavia resta un’opera interessante, e anche molto sincera, che cerca di fare un discorso non banale sulla rappresentazione della violenza, sulla distinzione tra bene e male e sulla responsabilità che noi autori (sì, mi ci metto in mezzo anche io) di contenuti vari abbiamo nel momento in cui trattiamo argomenti delicati.
La prima cosa che salta all’occhio dei nostri due protagonisti maschili (fumettista ed editore) è la superficialità con cui si ostinano a definire Slasherman l’eroe della loro storia. Quando, messo alle strette durante un’intervista in radio, Todd si ritrova sulla graticola proprio per questa definizione, si affretta a precisare che per lui “eroe” equivale a “personaggio principale” o “protagonista”. E tuttavia la nomenclatura non è una roba da far passare così in secondo piano: un termine non equivale a un altro ed eroe ha un significato ben preciso, di solito positivo. Slasherman è un tizio convinto che infliggere dolore agli altri (quasi sempre donne) sia una forma d’arte; acconcia i cadaveri delle sue vittime come delle grottesche sculture, dà un titolo alle sue “creazioni” e il camion su cui compie le più atroci efferatezze è una sorta di laboratorio degli orrori, replicato in un modellino da un fan del fumetto, che definisce Slasherman “la sua religione”.
Diverso è l’atteggiamento delle due donne del gruppo, Aurora, assistente di Todd (Niamh Wilson) e soprattutto Kathy (è un piacere rivedere sullo schermo una di famiglia come Jordana Brewster): la loro attenzione è calamitata, nel caso della prima in maniera quasi inconscia, della seconda, voluta e consapevole, quasi come un risarcimento per ciò che fa il suo fidanzato, dalle vittime. Perché non dimentichiamo che Slasherman si ispira a fatti reali, della gente è morta sul serio, e su queste morti, c’è chi ha tirato su una bella fortuna.
Non è casuale che il fumetto sia uscito nel 2010, ovvero quando la principale cifra dell’horror cinematografico era ancora il torture porn: Slasherman del torture porn ha tutte le caratteristiche e lo abbiamo detto e ripetuto qui tante volte che, nel torture porn, la prospettiva adottata dal narratore non è mai quella della vittima, mero oggetto del nostro divertimento, ma del carnefice. Tanto per fare un esempio scontatissimo, l’eroe della saga di Saw è Jigsaw, non le innumerevoli vittime torturate e letteralmente fatte a pezzi per seguire un tanto draconiano quanto aleatorio “codice morale”. Ma questa di slittare la prospettiva è una prerogativa che possedeva anche lo slasher classico, in particolare le grandi saghe degli anni ’80. Ci sono però alcune differenze, anche importanti, da prendere in considerazione: la prima è che i vari Jason e Freddy non sono mai stati eroi, ma sono sempre stati considerati villain, e anche con un certo orgoglio. Insomma, nonostante la simpatia che possiamo tutti provare per quelle icone, la distinzione tra bene e male non ci scappava mai di mano, non c’erano giustificazioni filosofiche o artistiche al loro agire, non erano figure in grado di prestarsi a certi tipi di astrazioni.
La seconda differenza è quella presa di petto da Random Acts of Violence, o meglio, da Khaty che, quando cominciano a fioccare cadaveri, giustamente si incazza a morte con Todd e gli dice, chiaro e tondo: “Tu legittimi la violenza, tu feticizzi il male, e tutta la mia vita è in pericolo per colpa tua”.
L’horror è un genere complicatissimo, ed è per questo che, nel mare di film dell’orrore che escono ogni anno tra sala, servizi di streaming, VOD e DTV, se ne salva sì e no un 10%, a voler essere generosi. Non date retta a chi vi dice che chiunque può girare o scrivere un horror, perché non è così. Tutti i generi, cinematografici e letterari, che hanno come nucleo centrale la violenza sono difficili, ma l’horror, che senza morte e senza violenza non esiste, richiede un qualcosa che di solito noi amanti del genere siamo accusati di non possedere: la sensibilità. Oltre a essa, richiede anche un senso di responsabilità nei confronti di ciò che viene dato in pasto al pubblico che molto spesso si tende a ignorare, perché non solo la messa in scena della morte di un personaggio può essere divertente, come insegnano i cinque film di Final Destination, o liberatoria e catartica, ma dietro a questa costante rappresentazione della morte, c’è un risvolto più sinistro: legittimare la violenza, feticizzare il male, Slasherman è l’eroe della nostra storia, l’arte è dolore, ma non il proprio, il dolore altrui. Perché, in fin dei conti, è sempre un qualcosa che capita agli altri.
Se ti senti offeso è un problema tuo, e fattela una risata ogni tanto.
Il problema, direte voi, è che il confine tra responsabilità, autocensura e infine censura vera e propria è labile, sottilissimo, una lastra di ghiaccio che si può rompere da un momento all’altro e farci precipitare tutti nel magico mondo dell’ipotermia, ovvero, fuor di metafora, in una spiacevole situazione di limitazioni a ciò che possiamo o non possiamo permetterci di rappresentare.
E infatti è qui che sia io sia Bruchel tendiamo a perdere un po’ la bussola e a non capire bene dove dobbiamo andare a parare. Perché il film, per quanto riguarda la violenza mostrata in campo, non si tira indietro di un millimetro, anzi. Il primo omicidio, per esempio, ha un fattore di shock elevatissimo, e non per il risultato (visibile anche nella seconda immagine del post), ma per l’esecuzione: più ci rifletto, più credo che la risposta sia proprio in quella sequenza così brutale, che mostra chiaramente come nella morte non ci sia alcun tipo di valore artistico, ma soltanto dolore, sangue, urla e terrore.
È un peccato che Random Acts of violence non sia poi quest’opera riuscitissima: con qualche smussatina agli angoli, una cura maggiore nel ritmo interno alle singole scene, anche con un uso meno didascalico e pedestre dei flashback, poteva essere un film in grado di scatenare discussioni sempre più pressanti e fondamentali in un contesto culturale come quello odierno, che cambia alla velocità della luce e presenta delle esigenze che prima passavano del tutto sotto silenzio.
Potrebbe essere l’inizio di una riflessione di più ampio respiro su dove stia andando il genere, cosa ci dobbiamo aspettare da esso e, soprattutto, come possiamo renderlo ancora migliore di quanto già non sia.
Per ora è sufficiente ammettere di avere delle responsabilità e non fare finta di non vederle: credo sia un passo necessario per diventare, finalmente, adulti.
Un post dolorosamente ben fatto.
Mi dà da pensare, e mi fa storcere il naso, il fatto che la fidanzata (Kathy, dico bene?) reagisca alla violenza solo quando diventa impossibile da scansare e problematica, mentre tutta l’operazione rappresenta in sé una violenza alle vittime reali, alla morale ampiamente trasmessa dal fumetto e, di conseguenza, alle vittime potenziali.
In realtà, il personaggio di Kathy è più complesso, forse è l’unico veramente positivo di tutta la vicenda, anche perché lei non ha realmente idea di fin dove si spinga il fumetto del suo fidanzato, perché non lo legge. Quello che lei tenta di fare è riequilibrare la situazione, dare una voce alle vittime, che è un po’ quello che fanno tanti documentari true crime, se ben fatti. Ma anche lì, il confine con la pornografia del dolore è davvero sottile.
Sarebbe buona cosa evitare di estrarre exploitation da fatti realmente accaduti.
Esattamente. Così facendo si assottiglia pericolosamente il confine fra realtà e pura fiction, nonché la maturità e la responsabilità indispensabile per distinguere fra le due… E allora si può arrivare a stilare classifiche da brividi fin troppo reali, come quelle di alcuni presunti fan dell’horror che assieme a Freddy Krueger, Jason Voorhees e Michael Myers inserivano in lista veri serial killer come John “Wayne” Gacy, Ted Bundy e via dicendo. Va da sé, credo, che anche atteggiamenti del genere favoriscano il diffondersi di una censura altrettanto immatura e irresponsabile pronta a chiudere le sue maglie in ogni occasione (dando implicitamente dell’idiota/potenziale criminale a chiunque sia appassionato del genere) 😟
E Il film di Baruchel, al di là di limiti e difetti, mi sembra proprio avere il non indifferente pregio di spingere il pubblico ad una riflessione su questi temi…
Ma infatti l’ossessione per i serial killer la trovo abbastanza inquietante. Non per chi li studia a livello, diciamo così, accademico, ma per chi ne segue le gesta come fossero delle rock star.
Bellissimo articolo.
Dirigere e scrivere un horror non è per nulla semplice. Penso che sia uno dei generi più difficili da mettere in scena (insieme alla commedia secondo me) sia perché deve riuscire a trasmettere quelle sensazioni tipiche dell’horror ma anche per via della violenza che mostra. Nonostante non sia un film riuscito ho intenzione di guardarmi questo film. Grazie mille per il consiglio!
Ma grazie a te! Spero che, nonostante i difetti, ti piaccia comunque, o almeno susciti in te qualche riflessione!
Concordo, ogni volta che tiro fuori il discorso di scelta, responsabilità, mi si ribatte ” e allora vuoi la censura e bla bla bla”.Dico solo che ogni gesto nella nostra vita ha delle conseguenze. Tutto qui. Questo vale anche quando scriviamo libri o giriamo film. In realtà chiedo un modo di porsi sulla questione da adulti, non da bambini.
Nel senso uno potrebbe dire che usa il genere per buttare fuori la violenza, il suo lato brutale, l’istinto che abbiamo a predare o ad agire con violenza. Oh, comunque vedi questi che fanno commedia che ti comibinano? Non era un comico anche il regista di a quite place? Che fine ha fatto il sequel?
Sì, era un comico anche lui. Il secondo capitolo è pronto, pensa, doveva uscire ad aprile, ma temo sia slittato all’anno prossimo, come quasi tutto
Ma non mi sarei mai aspettata da Baruchel, da me apprezzato molto nella sua vena comica, che si mettesse alla regista di un film horror! Già solo per questo sono molto incuriosita, se poi ci aggiungiamo la riflessione che, qualità o meno del film, fa scaturire la visione, anche stavolta mi hai dato qualcosa da mettere in lista recuperi!
Pare che Baruchel sia un grandissimo fan del genere. Non me lo sarei mai aspettata neanche io! 😀
La responsabilità deve averla chi sceglie di guardare il film. “Tu legittimi la violenza, tu feticizzi il male, e tutta la mia vita è in pericolo per colpa tua”, l’autore di un film un libro o qualsiasi altra forma di intrattenimento non ha nulla a che vedere con come si comporta la gente nella vita reale, un adulto deve essere in grado di distinguere la differenza tra finzione e realtà. Se invece si tratta di un prodotto mainstream dove il target sono le famigghie allora la responsabilità sta in chi fà il prodotto che rischierebbe di perdere i big money visto che andrebbe a perdersi buona parte del pubblico generoso in quantità e quindi “redditizio” ma di qualità scadente.