Regia – Lambert Hillyer (1936)
Il legame tra omosessualità e vampirismo non me lo sono inventato io stamattina a colazione perché mi annoiavo; è ben presente da Polidori in giù, con Carmilla di Le Fanu a renderlo inequivocabile, e con il Dracula di Stoker a farne un sotto-testo velatissimo ma difficile da ignorare. Al cinema, perché diventasse esplicito, bisogna attendere la fine degli anni ’60 e, soprattutto, l’esplosione di vampire lesbiche della Hammer capitanate da Ingrid Pitt. Ma già nel 1960, con Il Sangue e la Rosa, Vadim non ci era andato poi leggerissimo, nel sottolineare questo legame. Certo, per vedere dei vampiri maschi connotati con caratteristiche queer ci vorrà un altro po’ di tempo, ma questo perché, accanto alla componente omosessuale, i succhiasangue hanno sempre avuto una valenza erotica da non sottovalutare, ed essendo il cinema horror degli anni ’60 rivolto ancora in larghissima parte a un pubblico maschile, puntare sulle sexy lesbo vampire era una mossa commerciale tanto cinica quando furba.
Ma prima degli anni ’60 cosa succedeva? Per essere precisi, cosa succedeva quando la Universal aveva preso a saccheggiare i classici della narrativa gotica e a portarli sul grande schermo, segnando di fatto la nascita del cinema dell’orrore e guadagnandoci un sacco di soldi?
E qui dobbiamo fermarci un istante e parlare di queer coding, che non è una bella cosa, ma a volte poteva essere utilizzato, come fece Whale, per far passare sotto il naso dei censori temi altrimenti impossibili da inserire in un film alla luce del sole; nella maggior parte dei casi, tuttavia, il queer coding veniva usato in maniera negativa, spesso spietata, e per decenni è stato l’unico modo che avevano certe minoranze per vedersi rappresentate su uno schermo.
E adesso tutti vi chiederete di cosa diavolo io stia parlando e cosa sarà mai questo queer coding. Cerco di farvela il più semplice e rapido possibile: si scriveva un personaggio caratterizzandolo con tratti fisici e comportamentali immediatamente riconoscibili come omosessuali, o secondo la percezione che il pubblico etero aveva degli omosessuali, ma non lo si dichiara esplicitamente omosessuale. Un esempio facile e noto a tutti sono i cattivi della Disney, da Scar a Jafar, passando per Ursula. Ma, senza arrivare a queste vere e proprie caricature, uno che si divertiva un mondo con il queer coding era Hitchcock, e basta vedere i due antagonisti di Nodo alla Gola per rendersene conto, senza neppure avere bisogno di menzionare Psycho.
Questo per dire che è sempre stata una pratica molto comune, a Hollywood, soprattutto quando infuriava il famigerato Codice Hayes, e per aggirarlo ci si doveva affidare per forza a espedienti simili. Anche qualora i censori si fossero accorti di trovarsi di fronte a un gay o a una lesbica sotto mentite spoglie, avrebbero comunque potuto rilassarsi: erano tutti personaggi negativi, mostri, assassini, predatori e, appunto, vampiri.
Il che ci porta alla contessa Marya Zaleska (interpretata da Gloria Holden), la figlia i Dracula, la prima vampira della storia del cinema codificata come lesbica. Anche se non si poteva dire.
È interessante infatti notare come, sin dal materiale promozionale del film, realizzato ancora prima dell’inizio delle riprese, la contessa venisse identificata come la classica lesbica predatrice: “Save the women of London from Dracula’s Daughter!”, recitavano i manifesti. Ne erano consapevoli anche i censori del Codice, molto presenti durante la lavorazione del film, e in particolare quando venne girata la scena dove Marya seduce e poi morde una giovane donna, attratta nella sua dimora con l’inganno: le viene detto che la contessa è una pittrice alla ricerca di una modella: “This will need very careful handling to avoid any questionable flavor.”
I “suggerimenti” dei guardiani del Codice sono molto chiari: “Tutta la sequenza deve essere girata in maniera tale da evitare qualunque sospetto di un desiderio sessuale perverso da parte di Marya e di un tentativo di aggressione sessuale nei confronti di LIli (la modella)”.
C’era dunque un’attenzione estrema per il materiale trattato in Dracula’s Daughter, oltre a un’evidente consapevolezza delle sue implicazioni. Il che è strano se si pensa alla fonte letteraria cui il film dice di ispirarsi, ovvero Dracula’s Guest, il capitolo stralciato del Dracula di Stoker e poi diventato racconto autonomo. In realtà, La Figlia di Dracula non ha nulla a che spartire con Stoker, semmai ha molti più punti di contatto con Carmilla, se non per la trama, a livello concettuale, ed è di fatto una creazione originale del solito Garrett Fort, sceneggiatore di quasi tutti i mostri Universal degli anni ’30. Si trattava in realtà di un progetto MGM e non Universal, ma in seguito ai ritardi nella tabella di marcia produttiva, Carl Laemmle (junior), acquistò la sceneggiatura che finì nel calderone Universal. Pensate che, a dirigere il film, doveva esserci James Whale, poi impegnato su altri set. Immaginate soltanto cosa avrebbe potuto tirare fuori Whale da uno script simile e piangete con me.
Non che ci sia andata malissimo, dopotutto: Hyllier era un regista solido, il tipico animale da studios, mentre la scelta di casting della giovane e quasi esordiente Holden si rivelò azzeccatissima. Lei non lo voleva proprio fare, il film, e detestò il ruolo con tutte le sue forze. Ma ai tempi una giovane attrice (o un giovane attore) a inizio carriera non poteva permettersi di rifiutare una parte da protagonista, per quanto negativa. Questa insofferenza trapela dalla sua recitazione e ne esce fuori una contessa Zaleska devastata dal disgusto per se stessa, una figura tragica e patetica, ritratta anche con una certa simpatia da Hyllier e molto più umanizzata rispetto al Dracula di Lugosi.
Marya è una donna in perenne conflitto con i suoi impulsi, che chiede addirittura l’aiuto di uno psichiatra per liberarsene, in un processo che ricalca certe terapie di conversione per gli omosessuali non ancora del tutto cadute in disuso.
Non ho fatto alcun cenno alla trama del film, perché non è quella che mi interessa: è la solita storia del mostro che si scatena per circa una quarantina di minuti, prima di essere abbattuto dall’eroe normalizzante di turno, qui lo psichiatra che tenta senza successo di “curare” Marya, interpretato da Otto Kruger. Lei gli rapisce l’assistente (e probabile futura fidanzata), la porta in Transilvania, tanto per far vedere agli spettatori il castello di Dracula, ma molto più pulito e ordinato ora che il vecchiaccio si è tolto di mezzo, e lui arriva giusto un minuto prima che Marya la baci appass… ehm… la dissangui, riportandola così nell’alveo di una relazione sana, approvata dal Codice e benedetta dalla cristianità. La povera contessa si becca una freccia (di frassino?) in petto e crepa com’è giusto che crepino le predatrici della sua razza. Tutti sono felici, sipario. Almeno fino a quando il prossimo mostro non striscerà fuori dal buio, pronto a mettere in discussione un intero sistema di valori con la sua sola presenza.
È questo il motivo per cui l’horror è così sfuggente, e così difficile da contenere, anche per gli inquisitori del Codice Hayes: puoi sconfiggere l’aberrazione quanto e come vuoi, ma perché il film esista, devi lo stesso darle lo spazio e il tempo di instillare anche una sola goccia di dubbio negli spettatori. Il caso di Dracula’s Daughter è emblematico, perché Marya di rado fa paura; le mancano sia la presenza minacciosa di Dracula sia l’aspetto repellente della creatura di Frankenstein. L’orrore è scatenato dalla sua condizione, e da ciò che essa lascia intendere, perché bisogna essere ciechi o sciocchi per non notare che Marya è, senza ombra di dubbio, attratta delle altre donne.
Ora, il film si presta a una duplice interpretazione; la prima, quella più scontata, vede nell’omosessualità una malattia da sradicare, e infine da punire con la morte quando la cura fallisce. Credo sia un’interpretazione valida, forse anche voluta da tutti quelli che al film hanno preso parte attiva.
Però, i tratti di estrema empatia con cui è messa in scena Marya suggeriscono anche un’ipotesi differente, quella dell’enorme sofferenza patita da una persona omosessuale all’interno di una società che la vede come un mostro, tanto da arrivare a disprezzare se stessa e volersi sottoporre volontariamente a una cura.
Credo sia per questo secondo livello di lettura che Marya, nel corso degli anni, si è ritagliata una sua nicchia tra le varie icone gay che costellano la storia del cinema horror, proprio lì, accanto al Dottor Pretorius e al figlio di Chucky. Se è vero che La Figlia di Dracula è uno dei più evidenti e anche un po’ biechi episodi di queer coding degli albori dell’horror americano, è anche uno dei primi esempi in cui un personaggio omosessuale attira la simpatia del pubblico in misura infinitamente superiore rispetto all’eroe del film.
Ma figuratevi se i censori dell’epoca se ne potevano rendere conto.
E, per la cronaca, la sequenza incriminata, pur diretta secondo i consigli sopra elencati, ha una carica erotica che soltanto a un cretino integrale poteva passare inosservata. Ma quelli del Production Code Administration non saranno mai ricordati per la loro perspicacia.
Mi era capitato tempo fa, parecchio tempo fa, un articolo sulla genesi del film e li si raccontava che la prima stesura era molto più sleazy rispetto al film che poi effettivamente la Universal ha realizzato. Si parlava di cose tipo donne incatenate nelle segrete e la Contessa era una vera e proprio virago ben poco “simpatetica”, ne sai qualcosa in merito o secondo te è una leggenda urbana?
P.S. Parlando di Vampiri e omosessualità volevo chiederti se conosci il racconto di Eric Stenbock “La Vera Storia di un Vampiro”? Perchè credo che insieme a Carmilla sia uno primi vampiri esplicitamente gay dell’immaginario, anticipando parecchio anche certe cose della Rice.
Conosco il racconto di fama, ma non l’ho mai letto.
E su una stesura molto più scabrosa del film, credo non sia una leggenda, perché ne avevo sentito parlare anche io. Non so esattamente in che termini fosse più sleazy, ma sono praticamente certa che sia esistita. Anche perché i manifesti promozionali andavano in quella direzione.
Un giorno dovrai recensire Frankenhooker…:D
È in rampa di lancio per l’estate 😘
Niente oh. Sempre due passi avanti. Ah, big OT : ho diluito la maratona tra the vast of night e il “tuo” ultimo sole. C’ho sempre il turno al pomeriggio ultimamente e arrivo cotto come una bresaola a mezzanotte.Capisco perchè ti sia “auto-citata” proprio riferendoti a The vast of night. Due esempi di basso (bassissimo, credo) budget dove si supplisce alla CGI e alle ROBE CHE COSTANO con la sceneggiatura, i dialoghi. E, per il poco che ne capisco di “tecnica” son convinto che il tuo montaggio gli abbia giovato parecchio. Ha un sacco di lati buoni il film ( a proposito, quando vedo un mendicante con un cartello “la fine è vicina” mi viene da pensare che ‘sto omaggio a They Live ce l’hai infilato tu :D… Ma è pieno di omaggi) ma credo che nei difetti personalmente posso annoverare un po’ di verbosità e un po’ di didascalismo. Chiarisco: non l’odiato “spiegone”, grazie a Bafometto, ma il rendere evidente il sottotesto politico-sociale che è già evidente di per sè. Cose che capitano quando c’è molta carne al fuoco. E ce n’era. E qui entra in scena la Nostra montatrice che non mette un fotogramma in più e non fa scendere il ritmo di un’opera che comunque ha un minutaggio “lungo”.
Te l’ho detto nella mia assoluta analfabetizzazione “tecnica” ma credo pure in buona fede senza pagare debiti di riconoscenza per tutte le piccole gemme che mi hai fatto scoprire.
Sì, è assolutamente verboso e ha i difetti tipici delle opere prime. Il regista non aveva neanche 30 anni quando ha cominciato a girarlo, e ha finito la post produzione che ne aveva appena compiuti 30.
È stato un bel lavoro, durato tanti anni, e ci siamo fatti tutti un discreto mazzo, ma ne è valsa la pena.
Ti ringrazio tantissimo di averlo visto, e soprattutto di aver notato il montaggi, che non è da tutti 😉
E perchè mi ringrazi? Mi sono divertito 😉
Un secondo livello di lettura abilmente nascosto fra le righe del primo, direi: l’ottusa censura omofoba, condivisa da una non piccola parte del pubblico, vedeva appagato il proprio pregiudizio nella condanna senza appello (fino alla morte, e non in senso figurato) dell’omosessualità di Marya, laddove invece intelligenza e sensibilità arrivavano a capirne l’intima e profondissima sofferenza, causata da un rifiuto così totale nei suoi confronti da portarla a credersi un “errore” che poteva e doveva essere corretto per via psichiatrica (un “metodo”, questo, purtroppo non rimasto relegato agli anni ’30 😦 )
Massimo rispetto per Hyllier, responsabile comunque di un risultato dignitoso, ma in questo caso per trarne un vero capolavoro il regista più adatto non avrebbe potuto essere altri che il grande James Whale, non si discute. Posso solo immaginarmi quale livello di empatia con il personaggio di Marya sarebbe riuscito a trasmetterci, aggirando il queer coding come ben sapeva fare…
Sono quelle cose che purtroppo non sapremo mai. Materiale da ucronia, quasi