Dopo il post di lunedì, era inevitabile che mi venisse voglia di rivedere il film Whale e, di conseguenza, infliggervelo qui sul blog. E poi mi manca tanto parlare dei vecchi classici Universal, ora che ci occupiamo quasi soltanto di horror usciti a partire dal 1960. Quindi, per una volta tanto, evitiamo di star troppo dietro alle nuove uscite e concentriamoci su un qualcosa di “antico” e “superato”, ma in realtà, se lo si guarda con attenzione, estremamente audace e moderno, come del resto moltissimi film precedenti, anche se di poco, l’attuazione del Codice Hays, che ricordiamolo di sfuggita, entrò in vigore nel 1930, ma non venne applicato fino al 1934.
Abbiamo già avuto modo di analizzare come Whale riuscì, nel 1935, ad aggirare e a prendersi gioco del Codice. Con The Old Dark House, tuttavia, possiamo ammirarlo a lavoro in un regime di libertà creativa quasi totale, nonché alle prese con una delle prime variazioni sul tema della casa infestata della storia del cinema.
Prima di addentrarci nei meandri di casa Femm e conoscere i suoi occupanti, è necessario spendere qualche parola sul filone di cui The Old Dark House fa parte, un filone che nasce e si sviluppa a partire dai primi anni ’20, e di cui possiamo considerare apripista due film in particolare, The Bat, del 1926, diretto da Roland West, e The Cat and the Canary, di Paul Leni, uscito nel 1927. Si trattava di storie incentrate, appunto, in vecchie case diroccate dall’aspetto tetro, e di solito raccontavano di gruppi assortiti di sconosciuti capitati lì per caso, o in morte del ricco proprietario, e braccati da una presenza minacciosa, come un assassino a piede libero o un qualche agente all’apparenza soprannaturale. Era un filone che faceva da ponte tra il gotico europeo e il muder mystery britannico, con parecchi debiti nei confronti dell’opera di Agatha Christie. Dopo The Cat and the Canary (che è anche uno dei film con più remake all’attivo di sempre), ebbe inizio un ciclo produttivo fortunatissimo e ricco di magioni decrepite, pazzi con manie omicide, scricchiolii, passaggi segreti e tempaccio da lupi, che proseguì indisturbato lungo tutti gli anni ’30 e ’40.
Era il sotto-genere ideale per una Hollywood che voleva dispensare brividi al suo pubblico, ma senza cadere nelle “morbosità europee” di stampo soprannaturale del cinema espressionista, ed era ritenuta una forma di intrattenimento più rispettabile dei due gemelli del terrore, Dracula e Frankenstein, protagonisti di melodrammi a tinte forti, non per i deboli di cuore.
Altre caratteristiche distintive degli old dark house erano gli elementi da commedia, che smorzavano la tensione e impedivano alla gente di svenire in sala, e la risoluzione sempre molto terrena dei misteri di cui le antiche dimore erano ricolme.
Al filone devono qualcosa il gotico italiano, i poe-film di Corman, parte della produzione Hammer, i krimi e, anche se non sembra, lo slasher tutto; e non solo: capolavori riconosciuti come La Scala a Chiocciola e il più volte citato The Haunting sono evoluzioni più mature della formula old dark house, sue filiazioni dirette, se così si può dire, perché furono questi gioiellini in bianco e nero a impostare nell’immaginario collettivo l’iconografia di quello che Stephen KIng chiama “il brutto posto”.
E veniamo così finalmente a Whale, che dirige il suo secondo horror dopo il successo di Frankenstein, e da quel set si porta dietro direttore della fotografia, scenografo e, ovviamente, l’immenso Boris Karloff, qui nel ruolo di un maggiordomo dall’aspetto belluino, dal comportamento brutale e con il vizio della bottiglia, al servizio dei fratelli Femm.
The Old Dark House è tratto da un romanzo, Benighted, di J.B. Priestley, che la Valancourt ha ristampato da poco, compiendo l’ennesimo attentato al mio portafogli (grazie a Davide per la segnalazione, al solito). Non ho, purtroppo, mai letto il romanzo, e non so quanto il film gli sia fedele, ma so che il destino dei reduci della Grande Guerra è una delle sue tematiche centrali, e non trovo affatto assurdo pensare che Whale sia stato particolarmente coinvolto, a livello personale, dalla questione; dopotutto, si può affermare senza neanche troppa approssimazione che sia stato il primo conflitto mondiale a dare vita al cinema horror, e che il concetto di trauma, fisico e psicologico sia un perno intorno a cui ruota il cinema gotico degli anni ’30, The Old Dark House compreso.
Oltre al personaggio interpretato da Melvyn Douglas, dichiaratamente un reduce, anche lo stesso maggiordomo pazzo, col volto sfigurato dalle cicatrici, di Boris Karloff potrebbe essere considerato uno spettro della guerra che si aggira tra quelle mura: muto, feroce, incapace di comunicare se non con la sua fisicità, Karloff non è qui soltanto un residuo del Frankenstein (a sua volta film segnato dalla guerra) precipitato in un’altra produzione; è un individuo sofferente che deve aver subito qualcosa. Non sappiamo cosa, ma non è difficile sospettarlo.
Ma Whale non è soltanto un immenso evocatore di un immaginario traumatico, Whale è il primo regista ad aver saputo sfruttare in maniera consapevole il lato satirico del terrore, è colui che ha inventato quel tipo di umorismo che oggi definiamo camp, e se camp è una delle tante definizioni applicabili a La Moglie di Frankenstein, è in questo film che Whale mette in scena una serie di situazioni e personaggi per la prima volta nella sua carriera pienamente riconducibili a quel tipo di umorismo. Non solo perché c’è Ernest Thesiger che fa le prove generali di Pretorius, ma perché le soluzioni comiche adottate sono tutte profondamente stranianti, quasi surreali, con i due protagonisti “normali”, capitati in una specie di circo degli orrori che prima ti terrorizza e poi ti fa scoppiare in una risata fragorosa, quasi che le due emozioni, paura e risata, fossero le due facce di una stessa medaglia. Esemplare è la sequenza in cui Gloria Stuart rimane da sola nella sala da pranzo della casa e si mette a giocare a ombre cinesi sul muro, per poi essere aggredita pochi istanti dopo da quelle stesse ombre e, infine, dal maggiordomo ubriaco in persona.
Parlando di ombre, è impossibile non menzionare l’atmosfera che Whale riesce a creare con minimi giochi di luce, ponendo di fatto le basi per il futuro del genere e per ogni singola casa infestata su grande schermo da lì all’eternità; dobbiamo sempre pensare, quando guardiamo opere di questo tipo, di assistere al lavoro dei pionieri, dobbiamo capire che, spesso, quello che vediamo e ci sembra scontato, faceva la sua apparizione in sala per la prima volta nella storia, che quelle inquadrature, ormai parte integrante della nostra immaginazione indotta dai film successivi, erano esperimenti, invenzioni del momento, che da qui è nato ed è cominciato tutto ciò che amiamo e continueremo ad amare. E se ci rendiamo conto, perché è impossibile non farlo, delle ingenuità tecniche sparse, come i raccordi di montaggio non sempre impeccabili o i frequenti scavalcamenti di campo, dobbiamo anche capire che il cinema era una faccenda giovane, e il suo linguaggio stava nascendo. Soprattutto il linguaggio della paura. Quasi tutto quello che associamo nel 2019 al vago e ampio concetto di cinema dell’orrore è stato fatto, in un modo o nell’altro, negli anni ’30 da questi pionieri.
Whale era, tra loro, il più elegante, il più intelligente e il più scaltro. Riusciva a infilare nei suoi film tutta una serie di ambiguità morali forse comprensibili soltanto a un ristretto gruppo di iniziati: l’omosessualità palese del personaggio di Thesiger, la sovversione dei ruoli di genere incarnata da sua sorella, i riferimenti espliciti all’esistenza di una vita sessuale (o alla sua, voluta, assenza) dei protagonisti, la libertà di cui godono tutte le donne presenti in scena, la fragilità emotiva degli uomini, il modo in cui un quasi esordiente Charles Laughton accetta di essere lasciato e rimpiazzato, l’acume e la compassione con cui viene affrontata la malattia mentale e, ultimo ma non per questo meno importante, il patriarca Femm interpretato da una donna.
Roba quasi da Rocky Horror Picture Show con più di quarant’anni di anticipo.
Tutto questo non può essere spiegato soltanto con la mentalità pre-code, perché sono tratti tipici del cinema di Whale, e si ritrovano pari pari ne La Moglie di Frankenstein, anche se celati in forma di metafora. Questa è la poetica di un regista dal talento smisurato. Se, dal canto suo Browning è stato il maestro del cinismo e della deformità, il grande padre dell’horror basato sul corpo e le sue mutazioni, Whale è il primo a trovare nell’immaginario legato alla paura un gigantesco serbatoio della diversità e della complessità dello spettro dell’esperienza umana.
Dovremmo tutti rivederli, i classici degli anni ’30. C’è tanto da imparare, c’è tanta bellezza con cui educare il nostro sguardo.
Bellissimo post, complimenti
Con questi vecchi film cerco sempre di dare il meglio di me.
Grazie!
E sempre ci riesci 😉
Un classico questo The Old Dark House di James Whale, talento gigantesco, oltre che degno contraltare -nella propria poetica- all’altrettanto grande collega Browning…
Ripensando a questo film (che una di queste sere mi riguardo) ed ai suoi personaggi femminili, ma anche agli altri due classici della old dark house, che sono molto più leggeri – The Ghostbreakers e The Cat and the Canary – si nota come la protagonista femminile, per quanto certamente damigella in pericolo, non sia mai semplicemente una vittima monodimensionale. Si tratta sempre di personaggi forti e a loro modo indipendenti, e gli uomini sono molto spesso dei ridicoli bellimbusti.
L’impressione è che la cinematografia americana abbia in qualche modo indebolito i personaggi femminili nell’orrore, probabilmente a partire dal secondo dopoguerra.
Così, un’idea.
Io credo più a partire dall’applicazione del Codice, e poi in crescendo almeno fino alla fine degli anni ’60 e per tutti gli anni ’70, quando si sono visti ottimi personaggi femminili all’interno del genere. Gli anni ’80 sono ambivalenti, in questo, e dipende molto dagli autori singoli e dalle loro scelte.
Sono d’accordo con entrambi, e espanderei il concetto ad altri generi cinematografici diffusi in USA; gli anni 30 presentavano (soprattutto nelle sophisticated comedies) donne emancipate, forti, volitive, poi è stata la seconda guerra mondiale (e il maccartismo nei 50ies) a generare una decisa preferenza verso personaggi femminili più vicini allo stereotipo madre di famiglia accomodante e alla donzella in attesa di essere salvata (e impalmata) dall’eroe del caso. E’ ovviamente una generalizzazione, e certi registi fanno storia a sè, però credo che a grandi linee sia questo il percorso, interrotto nei primi 60ies nella commedia e poco dopo anche nel thriller/horror.
Perché il Code è stato una iattura, soprattutto per la rappresentazione su schermo di donne emancipate e sessualmente disinibite. Poi hanno cominciato a ignorarlo e alla fine è caduto nel dimenticatoio ed è stato sostituito dal meno invasivo metodo che usano ancora oggi.
Pure con quello hanno fatto parecchie scempiaggini, ma il Code era davvero una roba che sarebbe piaciuta all’inquisitore Hopkins 😀
Anch’io mi trovo d’accordo con voi su questi punti. Pian piano mi sto facendo una cultura sulla storia del cinema è mi sorprendo a vedere come negli anni ’30 ci fossero più donne forti e interessanti rispetto agli anni ’50. Negli anni ’50 si tendeva a realizzarle come persone sorridenti, bisognose e madri di famiglia. Uno stereotipo che non mi è mai piaciuto.
E il Codice Hayes fu una delle censure più brutte che abbia mai visto. E’ una cosa che è riuscito a rendere la vita difficile a molti. Mi viene in mente il finale del Giglio Nero. Mannaggia al Codice.
Che articolo stupendo!
Ho un cofanetto chiamato Boris Karloff Collection in cui è presente questa opera meravigliosa (e troppo spesso dimenticata) di James Whale. C’è tutto il suo modo di essere, passando dall’espressionismo alla sua ironia (che poi sarà presente anche ne La Moglie di Frankenstein e L’uomo invisibile).
Mi dispiace solo che il titolo italiano abbia toppato un’altra volta. Nessuna maledizione e nessun castello. Solo una casa con i suoi segreti e i suoi abitanti grotteschi.
Anche Il Gatto e il Canarino era stato tradotto con qualcosa tipo “La casa dei fantasmi”, o molto simile. Ora non ricordo e non mi va di andare a controllare su Imdb 😀
Toppavano anche all’epoca con le traduzioni dei titoli 😀
Una tradizione che ha radici molto antiche XD
Comunque mi pare l’avessero chiamato “Il castello degli spettri” mi sembra.