Regia – André Øvredal (2019)
Per la rubrica “infanzie rovinate”, vi presentiamo l’adattamento della raccolta di racconti che ha spaventato una generazione, ove il perfido messicano del Toro e il suo sodale proveniente dal Profondo Nord Øvredal, distruggono sistematicamente il dolce ricordo che queste storie hanno lasciato in ognuno di noi.
No, non è vero un cazzo: Scary Stories to Tell in the Dark è un libro rimasto inedito in Italia fino a pochi mesi fa. Non lo conosceva nessuno, qui da noi, nessun ragazzino italiano è rimasto traumatizzato dalla sua lettura avvenuta durante l’infanzia; forse alcune delle storie contenute in alcuni dei tre volumi pubblicati dallo scrittore Alvin Schwartz tra il 1981 e 1991, le conosciamo perché non sono niente altro se non leggende urbane e classici “racconti dell’uncino” tramandati da generazioni e facenti parte del folclore di più o meno ogni angolo del globo.
Ma chi le ha lette davvero, in Italia, le raccolte di Schwartz? Da bambini, dico.
Nessuno.
E da adulti?
Io. Poche settimane prima di andare al cinema a vedere il film, perché sono una secchiona a cui piace andare in sala preparata, sia mai che qualcuno dovesse interrogarmi all’uscita. È un libriccino che farei leggere a ogni bimbo dagli 8 ai 12 anni per avvicinarlo all’horror e alla scoperta dell’ignoto in generale, perché, oltre a essere racconti spaventosi, sono anche molto divertenti e, in un modo abbastanza curioso, persino interattivi. L’accompagnamento delle splendide illustrazioni di Stephen Gemmel è poi la ciliegina sulla torta di un’opera che, davvero, mi sarebbe piaciuto tanto poter scoprire da giovanissima. Vorrà dire che mi rifarò su mio nipote.
Un tizio che invece con questi racconti ci è cresciuto è il nostro eroe Guillermo del Toro, che sta sviluppando questo progetto dal 2016 e che si è opposto fermamente all’idea all’apparenza più logica, quella di adattare la serie di racconti come un film a episodi. Del Toro, anche co-sceneggiatore, non voleva una semplice cornice, ma una storia organica che contenesse le varie micro-storie presenti nei libri, spesso lunghe al massimo un paio di pagine e dalla struttura elementare, atta a terminare con quelli che si possono solo definire come dei “jump scare cartacei”. Non era semplice, insomma, ma del Toro è prima di tutto un grande narratore e ha quindi impostato il suo film su un concetto cardine: l’importanza del raccontare, la potenza delle storie. Che poi l’idea del racconto fantastico che influisce sulla realtà e sulla Storia è una delle ossessioni d’autore del regista messicano, quindi non stiamo dicendo nulla di nuovo, o nulla che non dovreste già sapere.
Ci troviamo in una piccola città della Pennsylvania, Mill Valley, e siamo alla vigilia di Halloween del 1968 (attenzione, perché la data è importante); la nostra protagonista, Stella (Zoe Margaret Colletti) è una scrittrice horror in erba che si appresta a passare la serata col consueto rito di dolcetto o scherzetto, anche se forse lei e i suoi amici sono un po’ troppo grandicelli, un terzetto di ragazzini alle soglie dell’adolescenza e perseguitati dai bulli del paesino. Lo scenario è quello tipico del coming of age horror, ma la sceneggiatura inserisce subito un elemento estraneo, un orrore reale che stride con quello immaginario e, tutto sommato, rassicurante: parlo ovviamente della guerra in Vietnam; uno dei personaggi si arruola, un altro, un ragazzo di origini messicane che fa amicizia con i nostri protagonisti, è renitente alla leva, le elezioni presidenziali sono alle porte e il faccione di Nixon è disseminato in parecchie inquadrature del film.
In questo contesto, i nostri ragazzini vanno a visitare la casa stregata della cittadina (ce n’è una in ogni piccolo paese americano), trovano il libro maledetto, scritto dalla presunta avvelenatrice di bambini Sarah Bellows, e Stella se lo porta a casa. Si renderà conto subito che il libro comincia a scriversi da solo, una storia al giorno, e ogni giorno la storia diventerà realtà, e coinvolgerà uno dei suoi amici.
A me pare un modo molto elegante per realizzare un film a episodi senza che lo sia effettivamente, con i racconti di Schwartz che esistono all’interno di una trama ben strutturata, e vanno a toccare personaggi di cui ci importa qualcosa. Perché, se ci pensate bene, il problema dell’horror antologico è che non c’è mai tempo di stabilire un legame coi protagonisti, e infatti (lo abbiamo analizzato proprio in questi giorni), si tratta sempre di storie molto ciniche, perfide, i cui personaggi principali si meritano tutto ciò che di brutto accade loro. È una tradizione che deriva da Tales From the Crypt e compagnia bella, ma Scary Stories to Tell in the Dark è un’altra razza rispetto ai fumetti della EC Comics: è una collezione di archetipi, dove non interessano e non sono necessarie cose come sviluppo dei personaggi o progressione narrativa. Sono racconti accanto al fuoco, che finiscono con l’autore che ti consiglia di saltare addosso ai tuoi amici facendo “Booo”, sono incubi la cui origine si perde nella notte dei tempi e l’unico modo per metterli in scena senza snaturarli, ma senza neanche ridurre il film a una sequela di frammenti sconnessi, è quello di portarli all’interno di una vicenda più grande, e di contestualizzarli in vicende storiche riconoscibili.
Per questo motivo, Scary Stories to Tell in the Dark funziona molto bene: c’è, come dicevamo prima, l’elemento fondamentale del coming of age (non sono forse, le storie dell’orrore un rito di passaggio all’età adulta?), c’è la paura incombente di morire in una guerra lontana e poco compresa, di essere soli, abbandonati da chi dovrebbe volerci bene, di perdere l’infanzia per affacciarsi su un enorme spazio vuoto e sconosciuto: terreno fertile per i mostri, dunque, per far germogliare gli incubi.
Che infatti prendono la forma delle paure peggiori di ogni protagonista, con storie modellate su misura, creature che strisciano nella notte e a cui non si può sfuggire, perché una volta che un racconto dell’orrore è cominciato, deve arrivare alla sua conclusione.
Ma se la narrazione ha il potere di uccidere, ha anche il potere di salvare, ed è qui che si nota di più la presenza di del Toro alla produzione e alla sceneggiatura del film, non solo nella capacità delle storie di distruggere i confini tra realtà e immaginazione, ma nella loro valenza salvifica, di riscatto di innocenze troppo a lungo perdute.
Bisogna però evitare di parlare di Scary Stories to Tell in the Dark soltanto come a una filiazione diretta di Guillermo del Toro, perché c’è un regista dietro, ed è anche un signor regista. Logico che certe tematiche facciano subito pensare al cinema di del Toro, come del resto una cura ossessiva e maniacale nella definizione dell’estetica del mostruoso, porti il suo marchio evidente alla produzione.
Ma io credo che dobbiamo tutti ringraziare Øvredal perché da un libro neanche per ragazzi, ma proprio per bambini, ha tratto un film che può essere fruito da tutti, un horror rivolto soprattutto ai più giovani, e tuttavia capace di suscitare qualche inquietudine anche se lo si guarda da adulti. Sì, è un PG13, e pure grazie al cazzo, signori: ha il suo pubblico ben definito, non aveva bisogno, e neanche doveva essere un film Restricted, per carità.
Eppure sa essere crudele, quando vuole, sa punire con una certa cattiveria anche i personaggi più simpatici, quelli per cui si fail tifo, non prende alla leggera i traumi che questi ragazzi subiscono nel corso del film e, soprattutto, non abusa del jump scare.
Ecco, su questo punto, bisogna essere molto chiari: la fedeltà alle storie di Schwartz è filologica anche nella messa in scena, nel senso che quando il suo racconto finisce con un jump scare, questo si verifica, puntualmente, anche nel film. Ma è quando Øvredal ne fa a meno che il film ci regala la sua sequenza migliore (e non vi dico qual è, perché dovete stare col culo stretto come me). Il regista norvegese ha ormai una padronanza tale del linguaggio dell’horror da riuscire a rendere ogni storia e ogni apparizione diversa, nuova e imprevedibile, scongiurando così il rischio maggiore di un film con una struttura simile, quello di diventare ripetitivo.
Fenomenale il look delle creature, con una menzione speciale per il Jangly Man, che popolerà i miei incubi per qualche tempo.
Anche se Halloween è tristemente passato, noi continuiamo a raccontarci storie del terrore, perché spesso soltanto una buona storia può salvarti la vita.
Ottima recensione, credo forse l’unica che ho letto fatta da qualcuno che avesse effettivamente letto il libro di Schwartz (inclusa la mia, che non solo non l’ho letto, ma neanche sapevo fosse tratto da un libro di storie per bambini quando l’ho visto).
Io l’ho trovato molto meglio come racconto di formazione che come horror, ma è ovvio che essere rispettosi nei confronti della fonte cartacea implicava smorzare l’intensità orrorifica; d’accordissimo sul fatto che il modo con il quale sceneggiatura e regia hanno conglobato in un’unica cornice le varie storie è molto brillante.
Ecco, forse la scintilla in me non è scattata perchè non ho trovato un momento nel quale sono stato col culo stretto durante la visione, anche se a onor del vero la tensione, soprattutto nella lunghissima sequenza che parte dall’inseguimento del bullo fino alla scena nel campo di grano, non manchi.
Sì, anche per me funziona meglio come racconto di formazione e come riflessione sul potere della narrazione.
Io credo che l’effetto di questo film vari moltissimo dal contesto in cui lo si vede: io ero in sala con un mio amico e avevamo la sala tutta per noi. Non c’erano ragazzini molesti che facevano casino, quindi mi sono proprio lasciata prendere dal carrozzone e alla fine, mi sono anche presa un paio di buoni spaventi.
La donna pallida mi ha proprio terrorizzato per com’è costruita la scena, ma è anche vero che io non faccio testo, perché mi spavento con poco 😀
La donna pallida è la migliore e il modo in cui hanno legato le varie scary stories è forse la cosa migliore del film. Però, come ho detto anche altrove, mobbasta co sti ragazzini in bicicletta, nerd e in pieno percorso di formazione. O perlomeno, mobbasta per un po’ almeno… con It, Stranger Things e questo mi sa che siamo saturi.
Purtroppo appartengo anch’io alla vasta schiera degli italici NON conoscitori dei racconti di Schwartz, ma un film che può vantare la presenza in contemporanea di nomi come Øvredal e del Toro credo abbia tutte le carte in regola per essere un buon film (come minimo) 😉
Ma è normale: in Italia non erano mai usciti, e non li avrei letti neppure io, se non fossi una secchiona 😀
Visto.
Buon film, ma non lo definisco un horror (mio aprere), a parte gli effetti speciali (ben fatti) lo possono guardare tutti. Il finale aperto apre la strada a possibili seguiti o serie tv.
ops..volevo scrivere “mio parere”