Haunt

Regia – Scott Beck, Bryan Woods (2019)

Un po’ come Terrifier l’anno scorso, Haunt è la sorpresa del 2019, nel senso che entrambi i film sono arrivati del tutto inaspettati, senza alcun hype ad annunciarli con mesi di anticipo, entrambi si sono fatti strada tra gli appassionati a botte di recensioni positive da parte della critica di settore, ed entrambi rappresentano il perfetto intrattenimento per Halloween; a giocare a favore di Haunt è la maggiore presa commerciale dovuta a una confezione più professionale, nonostante il basso budget (c’è comunque Eli Roth dietro al progetto), e a una quantità minore di gore estremo. Non che manchino le frattaglie, sia chiaro, ma non sono l’unica ragion d’essere del film.
Inoltre, i due registi di Haunt sono gli sceneggiatori di A Quiet Place, il che significa di sicuro una scrittura di un certo livello, pur all’interno di un contesto che rispetta, uno dietro l’altro, tutti i tropi del genere.

È la notte del 31 ottobre e un gruppo di amici si prepara a festeggiare recandosi in una haunted house. Trattasi di quel tipo di attrazioni, frequentatissime negli Stati Uniti, che rappresentano un’evoluzione del classico tunnel dell’orrore: possono essere più o meno estreme, più o meno violente, vedono di solito la presenza di attori con il compito di spaventare a morte i visitatori e, a seconda del grado di intensità, possono essere delle esperienze parecchio forti. Sono posti dove io non metterei mai piede, neanche sotto minaccia di morte, ma insieme alle loro gemelle escape room, si stanno ritagliando uno spazio di tutto rispetto nel cinema horror contemporaneo, anche se poi la storia è sempre la stessa: vai lì per qualche spaventacchio a buon mercato, e scopri che qualcuno sta cercando di farti la pelle sul serio.
Ed è esattamente ciò che accade ai nostri protagonisti, che si ritrovano in un labirinto pieno di trabocchetti, e perseguitati da alcuni individui in maschera decisi a ucciderli nei modi più creativi possibili.

Se, a questo punto, state pensando che Haunt non sia nulla di nuovo, avete ragione: non vuole e non ha neanche necessità di esserlo, perché si limita a suonare la solita vecchia canzone meglio di tanti altri, ed è tutto ciò che film come Blood Fest o Hell Fest non sono riusciti a essere. A volte, anche un prodotto a formula riesce a rappresentare una boccata d’aria fresca, se fa tutte le cose nel modo giusto, non ha troppe pretese e porta a casa un lavoro dignitoso e soddisfacente.
Prima di tutto, i due registi azzeccano l’ambientazione: il magazzino addobbato a baraccone per Halloween è sbalorditivo nella sua semplicità ed efficacia; da un lato si respira la finzione degli oggetti di scena comprati nei negozi a poco prezzo, i tipici gadget da notte delle streghe, le scenografie un po’ farlocche, i ragni di plastica, i pupazzi a molla, i costumi che si potrebbero vedere a una qualunque festa di Halloween, e poi, in mezzo a tutto questo, dei lampi di orrore puro. Mentre la narrazione procede, l’atmosfera da luna park lascia il posto all’incubo, e la transizione avviene così rapidamente che il primo vero sangue versato è uno shock.

Da A Quiet Place, inoltre, i due registi e sceneggiatori hanno mutuato il raro dono di tenere la tensione in costante progressione: il preambolo del film è di breve durata, e anche lì, per tutta una serie di problematiche che coinvolgono la protagonista, non si sta affatto tranquilli; quando poi si entra nella haunted house, non c’è più un solo secondo in cui il film ci permetta di rilassarci o tirare il fiato. Persino la rivelazione su chi siano i folli assassini, invece di smorzare l’elemento di mistero, e di conseguenza, di minaccia, li accresce, mantenendoli sino ai minuti finali. Anche in questo caso, la scelta di non fornire una spiegazione esaustiva si rivela vincente, in quanto è sempre l’assenza di motivi, come insegna Carpenter, a rendere pauroso l’uomo nero di turno, o gli uomini neri di turno.
Il che ci porta alla caratterizzazione dei “cattivi”, altro aspetto apprezzabilissimo in Haunt. Sono tutte icone dell’immaginario horror: c’è il clown, c’è il fantasma, c’è il diavolo e c’è la strega cattiva. La maschera ha qui una funzione identitaria molto interessante, trattata con grande acume, di cui mi è impossibile parlare perché è l’unico vero colpo di scena presente nel film, e mi dispiacerebbe molto rovinarvelo, ma di rado, nello slasher contemporaneo, mi sono trovata di fronte a delle scelte estetiche simili. Il fatto poi che la rivelazione avvenga più o meno a metà film dimostra un certo coraggio da parte degli autori nel giocare con gli stereotipi, rispettandoli e, allo stesso tempo, rovesciandoli.

La regia è molto diversa dallo standard dell’horror commerciale: niente over editing, tanti campi lunghi, un uso dello spazio che ti dà sempre l’esatta percezione della geografia del luogo, anche quando i personaggi, per qualche motivo, si separano e vagano da soli in questo dedalo pieno di insidie, la macchina da presa è ferma, stabile, non indugia in facili trucchetti come le panoramiche a schiaffo con conseguente jump scare dietro l’angolo; c’è un gran lavoro di messa in scena, con piani sequenza invisibili e altre soluzioni che non appaiono mai scontate. Questo per dire che il ritmo in un film non è dovuto a settecento inquadrature al secondo, ma alla chiarezza espositiva, e la paura non è il riflesso pavloviano del botto con apparizione improvvisa, ma un qualcosa di più sottile ed elaborato.
E poi c’è il gore, che sì, non sarà ai livelli di Terrifier, ed è anche dispensato all’interno del film solo in determinati momenti, ma quando Beck e Woods decidono di usarlo, picchiano durissimo, con la giusta ferocia e avvalendosi di ottimi effetti speciali artigianali che nell’horror non guastano mai (qui siamo contrari al sangue in CGI).

A completare il quadro, abbiamo anche un gruppo di attori molto bravi e dei personaggi che non si fanno odiare sin dal minuto numero uno. Non si fa il “tifo” per gli assassini, ma si sta in pena per i protagonisti, che sembrerà una banalità, ma è ciò che manca a una grossa fetta degli slasher degli ultimi anni.
Certo, ci sono ogni tanto un paio di cose che non tornano, qualche comportamento un po’ strambo da parte di qualcuno che poteva essere evitato; c’è una sorta di vicenda parallela alla trama principale che non si incastra poi alla perfezione nel tessuto narrativo del film, e che di fatto non porta da nessuna parte, ma serve per dare il minimo sindacale di spessore al personaggio principale, e quindi ce la teniamo senza lamentarci troppo.
Haunt è un film che vi stupirà, ne sono certa. Magari comincerete a guardarlo, come ho fatto io, senza scommetterci sopra neanche un centesimo, e poi, gradualmente, vi conquisterà, e arriverete in coda in debito d’ossigeno, non capacitandovi del fatto che sia già finito.

5 commenti

  1. Maxnataeleale · ·

    Sembra una bella sorpresa… Appena riesco lo recupero.
    Lucia vado fuori tema :hai visto Last Blood?

    1. Non ancora. Conto di andare in settimana!

  2. Maxnataeleale · ·

    Visto ieri. Se scritto meglio avrebbe potuto essere una specie di Man on fire ma comunque a me è piaciuto molto. Buona visione

  3. Giuseppe · ·

    In effetti, devo ammettere che Haunt non mi ispirava granché (principalmente per l’impressione di essere un prodotto un po’ troppo a formula perché il talento del duo Beck/Woods potesse esprimersi al meglio) però, dopo questa tua rece, penso di poter riconsiderare la mia iniziale diffidenza… 😉

  4. Ciao! Non sono riuscito a trovarlo nella recensione (o forse, banalmente, non lo hai scritto): distribuito al cinema o su piattaforma streaming (netflix / Prime?)

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