Se l’anno scorso, per celebrare Halloween, abbiamo dedicato una rassegna alla Hammer, è doveroso occuparsi della rivale Amicus, e in particolare dei suoi film portmanteau, o per noi rozzi e cafoni, horror antologici con cornice.
Il filone era stato inaugurato, all’interno del cinema dell’orrore, nel 1945 dal bellissimo Dead of Night, di cui in questo blog si è discusso parecchie volte; tuttavia è stata la Amicus a codificarlo in maniera definitiva, facendo di questi film a episodi la punta di diamante della propria filmografia e diventandone la produzione simbolo. In maniera abbastanza curiosa, però, spesso i profani tendono a confondere Amicus e Hammer e il nome della prima non ha la stessa risonanza della seconda; forse perché entrambe tendevano a usare gli stessi attori, resi famosi dai rifacimenti dei classici realizzati dalla Hammer a partire dalla fine degli anni ’50, forse perché le due case di produzione condividevano una filosofia abbastanza simile, ovvero grandi incassi a costi contenuti, ma i risultati sono molto differenti: la Hammer era nota per il suo spingersi continuamente oltre i limiti del consentito, per gli shock visivi cui sottoponeva gli spettatori, per la violenza che non esito a definire estrema, rapportata all’epoca; i film della Amicus erano invece sempre in bilico tra ironia e terrore, non erano poi così espliciti e avevano una costruzione narrativa più raffinata. Non tutti i film a episodi della Amicus sono riusciti allo stesso modo e soprattutto i primi somigliano più a tentativi sperimentali che a opere compiute. Anche per questo, preferisco cominciare con La Casa che Grondava Sangue, perché è una tappa fondamentale nella definizione di un intera categoria di film, che con alterne fortune, ci ha accompagnato fino a oggi.
Gli Autori
Doveva inizialmente essere diretto da Freddie Francis, già regista dei due precedenti film a episodi della Amicus, nonché dello strambo e psichedelico Il Teschio Maledetto, sempre prodotto dalla Amicus. Francis però era impegnato in un film americano (purtroppo mai realizzato) e fu costretto a rinunciare; al suo posto, il veterano della tv inglese Duffel, al suo secondo lungometraggio e al suo primo horror, che non se la cava affatto male, anche se nelle sue intenzioni il film avrebbe dovuto essere molto sbilanciato sul lato comedy. La produzione, al contrario, voleva più equilibrio tra i generi e chiese addirittura al regista di rigirare alcune sequenze e di tagliare molte parti comiche presenti sia in sceneggiatura che nel girato. Questo è, credo, il motivo per cui La Casa che Grondava Sangue sembra virare all’improvviso nei territori della comicità pura nell’ultimo segmento, quello girato in realtà per primo, e impossibile da modificare per mancanza di disponibilità degli attori.
Alla sceneggiatura, troviamo Robert Bloch in persona, che ha sempre affiancato la carriera di scrittore di romanzi e racconti a quella di sceneggiatore. Questo sarebbe stata la sua quinta e penultima collaborazione con la Amicus e, dalla metà degli anni ’70 in poi, Bloch avrebbe lavorato quasi esclusivamente per il piccolo schermo.
La Cornice
Ogni portmanteau che si rispetti deve inserire gli episodi in un contesto atto ad attrarre immediatamente l’attenzione del pubblico, capace di unire i singoli episodi in un insieme coerente, e possibilmente non essere un mero riempitivo tra un segmento e l’altro. Se si prende a modello il solito Dead of Night, ci si renderà conto che è la cornice la vera anima del film, e le varie storie sono sue diramazioni, sue appendici. Una cosa molto simile, anche se priva dello stesso impatto, si può dire de La Casa che Grondava Sangue: protagonista assoluta del film è infatti la casa del titolo, che no, non gronda affatto sangue (non se ne vede neanche una goccia, mai), ma ha un effetto strano su chi ci va ad abitare; agisce sulla personalità degli inquilini e ne rende reali le paure, le idiosincrasie, ma anche le loro convinzioni più profonde, le loro ossessioni prendono corpo e sostanza.
Protagonista della cornice è uno scettico detective di polizia (John Bennet) chiamato a indagare sulla sparizione di un famoso attore di film horror da una villa che l’uomo aveva preso in affitto per essere più vicino agli studi dove si stava girando il suo ultimo film. Parlando con la polizia locale, e soprattutto con l’agente immobiliare che si occupa di mostrare la casa ai futuri affittuari (dal curioso nome Stoker), il detective scopre che il suo caso è soltanto l’ultimo di una lunga serie di morti violente e fatti molto strani avvenuti tra quelle mura.
I Segmenti
Si comincia con Method for Murder, che ha come protagonista Denholm Elliott nei panni di uno scrittore di storie dell’orrore convinto che uno dei suoi personaggi, il perfido strangolatore Dominick, abbia preso vita e stia perseguitando lui e sua moglie.
Una breve storia con un colpo di scena di un certo livello. Interessante il rovesciamento dei ruoli, dove la parte di quello che ha le traveggole spetta al personaggio maschile, mentre quello femminile è lì per rassicurare ed esprimere il giusto scetticismo. Ottima l’atmosfera di paranoia che Duffel costruisce in pochissimi minuti, e molto pregevole l’uso degli interni della casa. Forse, da un punto di vista puramente narrativo, questo è l’episodio più debole dei quattro, ma è anche quello in cui la sinistra magione è un vero e proprio personaggio aggiunto.
In Waxwork fa la sua comparsa Peter Cushing, divino come al solito: interpreta un uomo d’affari in pensione che prende in affitto la casa per starsene da solo e dedicarsi al giardinaggio e alla lettura. Un giorno, passeggiando per il paese, viene attratto dall’insegna di un museo delle cere e, tra le varie statue, tutte raffiguranti omicidi, è come ipnotizzato da quella di Salomé, il cui volto gli ricorda una suo antico amore.
Waxwork è un segmento molto strano, è quello dai tratti più classicamente horror, quello che più di tutti contrae qualche debito con la “cugina” Hammer, e non solo per la presenza di Cushing, ma anche per un certo uso delle luci e dello spazio, soprattutto all’interno dell’esposizione delle statue di cera. E tuttavia è anche l’episodio che si avvicina di più a quello che, oggi, chiameremmo thriller psicologico. È qui che si cominciano infatti a comprendere gli effetti che la casa ha sui suoi abitanti, come agisce sulle loro menti, in che modo li porta a perdersi e a morire.
L’episodio più famoso dei quattro è di sicuro quello con Christopher Lee, Sweets to the Sweets, un gioiellino di sintesi con un crescendo di orrore da lasciare ammutoliti; gli affittuari sono, questa volta, un vedovo (Lee) e sua figlia, una bambina che conduce una vita molto isolata, non può giocare con le bambole, non può frequentare i suo coetanei ed è costretta a studiare a casa con un’insegnante privata.
Se all’inizio, il personaggio di Lee sembra un pessimo padre, dispotico e violento, gradualmente ci rendiamo conto che invece è terrorizzato dalla sua stessa figlia. Ora che, a metà film, conosciamo abbastanza bene come si comporta la casa e quale potere abbia sulle persone, iniziamo a condividere la sua stessa paura, fino all’inevitabile conclusione.
Ma devo ammettere che il mio segmento preferito non è Sweet to the Sweets; so che si tratta del migliore, del più calibrato nella sua gelida perfezione, eppure il mio cuore di pietra di scioglie sempre di fronte a The Cloack. Non si può restare indifferenti di fronte a Ingrid Pitt che, in pratica, fa la parodia di se stessa, e non si può non amare Jon Pertwee, nel ruolo di un attore specializzato in film dell’orrore, così ossessionato dall’autenticità da pagarne le spese in prima persona. In realtà, credo si tratti dell’episodio più moderno di tutti, con la sua autoconsapevolezza sul genere di cui fa parte, il suo modo unico di prendersi gioco dei cliché rimanendo partecipe, le stoccate che invia alla rivale Hammer per bocca di Pertwee (“Dracula – the one with Bela Lugosi of course, not this new fellow”), e quel finale dove comunque è sempre l’orrore soprannaturale a trionfare, e di conseguenza il cinema horror.
Con La Casa che Grondava Sangue, il film portmanteau si presenta al pubblico nella sua forma definitiva. Altri ne arriveranno, anche superiori, e ne parleremo, ma il modello di riferimento resterà sempre questo.
Iniziativa meritoria; non so quanto posso generalizzare, però credo che anche molti appassionati horror ignorino i prodotti Amicus, io per primo (credo di avere visto soltanto Le cinque chiavi del terrore).
Ho spiluccato la lettura in attesa di recuperarlo, grazie per la segnalazione.
Sì, l’ho fatto proprio perché li ricordano in pochi e perché spesso vengono confusi con i film Hammer. È ora di ripristinare un po’ di giustizia per la Amicus! 😀
Adoro TUTTI i film della Amicus, quindi mi vedrai spesso qui a commentare… 😀
Anch’io preferisco il segmento finale con Ingrid Pitt e sono quasi sicuro che “Ammazzavampiri” gli sia debitore nella figura del personaggio di Peter Vincent.
Fantastici anche Cushing e Lee, ma questo non fa notizia.
Ricordo ancora con nostalgia quando questo titolo era pressochè invisibile da noi fino a quando qualche benemerito appassionato prese il master del dvd inglese muxandogli l’audio italiano preso da una registrazione tv di almeno 25 anni fa….
Eh sì, me lo ricordo anche io: l’ho visto così la primissima volta. Poi per fortuna è anche uscito in DVD da noi, ma mi pare ancora non in blu ray 😦
Infatti, blu-ray ancora assente….
Sì, Ingrid Pitt e Jon Pertwee (come potrei non amare uno dei mitici Dottori? 😉 ) sono davvero una coppia memorabile dalla soprannaturale -qui da intendersi in senso letterale- capacità di calarsi nei propri personaggi, come sfortunatamente avrà modo di scoprire in prima persona lo scettico detective… Se pure “Sweet to the Sweets” rimane il migliore dell’intero quartetto, di certo l’ottimo “The Cloack” lo segue a ruota.
Poi Pertwee ha anche dato al mondo quel grandissimo attore del figlio. Come si fa a non volergli bene?