Depraved

Regia – Larry Fessenden (2019)

Sapete quanta gioia susciti in me l’annuncio di un ritorno di Fessenden dietro la macchina da presa, a quasi sette anni di distanza da Beneath, il suo ultimo lungometraggio; quando poi la notizia è che Fessenden adatta il Frankenstein, la curiosità sale alle stelle: infatti, se uno come lui, il padrino del cinema indie horror americano, decide di imbarcarsi in un’operazione così rischiosa, è perché ha una visione personale della storia, l’idea di un aggiornamento del mito che vada oltre il semplice “prendiamo la creatura così com’è e infiliamola nell’era degli smartphone che fa tanto giovane”.
Considerando poi che dall’ultimo adattamento moderno, quel mezzo capolavoro firmato Bernard Rose sono passati appena tre anni, che il tentativo del Dark Universe è naufragato miseramente, e che non c’è poi questo grandissimo pubblico pronto a precipitarsi a rivedere Frankenstein per l’ennesima volta, Fessenden deve essere stato o completamente pazzo o molto, molto consapevole.

Se il modello letterario cui il film si ispira è ovvio, e non possono esistere dubbi a riguardo, su quello cinematografico, la situazione si fa più complicata, tante sono state, da quando esiste il cinematografo, le trasposizioni del romanzo di Shelley. Ma, anche qui, Fessenden è molto deciso e netto: la sua fonte principale è il dittico di Whale, perché lo sappiamo tutti che, per quanto si possa amare la Hammer, per quanto esistano al mondo persino degli estimatori del pastrocchio di Branagh, il più grande Frankenstein in sala ce lo ha portato James Whale. Ma, ancora, Depraved non è un rifacimento né del Frankenstein del ’31, né de La Moglie di Frankenstein, è al contrario una rielaborazione narrativamente raffinatissima delle tematiche presenti nel romanzo e nei film, modellate sull’epoca che stiamo vivendo e su personaggi problematici e moderni, e se forse non ha lo stesso cuore o la stessa valenza emotiva dell’opera di Rose, vince dal punto di vista intellettuale e da quello dell’originalità, per aver raccontato la vicenda stranota da un punto di vista mai affrontato prima.
Che sì, è sempre quello del mostro, ma del mostro prima di essere tale, della memoria della vita passata, prima di diventare un puzzle di corpi, prima di morire e rinascere come abominio in perenne cerca di un proprio posto nel mondo.

La trama del classico subisce parecchie modifiche, in questa sua nuova versione, a partire dal fatto che il dottore, Henry (come nel film di Whale, e non Victor), non è uno scienziato pazzo con manie di onnipotenza, ma un giovane medico reduce di guerra che dai campi di battaglia si è portato a casa una bella sindrome da stress post traumatico e un’ossessione per riparare agli orrori cui ha dovuto assistere; finanziato da un suo ex compagno di università, che ha sposato la ricchissima figlia del dirigente di un’industria farmaceutica, comincia a sperimentare con i pezzi di cadavere, fino a quando non crea Adam (non si chiama così per il motivo che pensate voi), un essere senziente e autocosciente composto di varie parti di corpi umani, e col cervello di un ragazzo assassinato mentre tornava a casa dopo aver avuto una piccola lite con la sua fidanzata: “Ne parliamo domani, c’è sempre un domani”.
E invece no.
Adam, all’inizio, è troppo impegnato a imparare a vivere di nuovo, a instaurare un legame con il suo creatore, a comporre puzzle, giocare a ping pong, ascoltare musica, articolare parole e, addirittura leggere, per farci troppo caso. Ma brevi e intensi flash di un passato che non può aver vissuto lo tormentano spesso. E, molto presto, comincerà a farsi delle domande.

Depraved è girato in povertà, come quasi tutta la filmografia di Fessenden, del resto. Eppure, sembra che in questo caso il budget sia anche più basso del solito. Magari a voi disturberà, ma ho trovato, una volta tanto, nella mancanza di denaro un punto importante a favore del film, al netto di alcune mancanze che, purtroppo sono parte integrante di ogni progetto realizzato in ambito del tutto indipendente: avere pochi soldi a disposizione ha contribuito a creare un’atmosfera sporca e malsana e la perenne macchina a mano che, lo sapete, di solito non amo, in questo caso acuisce il senso di disagio e di smarrimento di una creatura che non ha alcuna nozione su cosa significhi essere vivo, ma al contempo soffre di vaghe reminiscenze di un passato che ha smesso di appartenergli. La differenza principale rispetto al mito originale di Frankenstein sta appunto nell’aver reso Adam non solo un neonato, ma un cervello con un suo vissuto, risvegliatosi in un corpo non suo.
Questa scelta aggiunge una sfumatura ancora più tragica a una vicenda che già di per sé non è facile da digerire.

Fessenden, da grande autore horror qual è, non ha una grande opinione della natura umana e, duole ammetterlo, ma è spesso un requisito fondamentale per saper raccontare una buona storia dell’orrore.
Non c’è niente di meglio di uno sguardo innocente e incontaminato per mettere in luce tutte le brutture della nostra epoca, e Fessenden ci va giù pesantissimo, senza mai un briciolo di retorica, e con il punto di vista del mostro che non si limita soltanto alle persone che lo circondano e prima lo illudono e poi lo tradiscono, ma si allarga a giudicare il nostro passato e presente, come nella splendida sequenza in cui un attonito Adam è accompagnato dal vero “villain” del film, Polidori (un bravissimo Joshua Leonard) all’interno del Met, e gli impartisce una lezione sulla storia, l’arte e la cultura.
E tuttavia sarebbe anche scorretto e banale etichettare Depraved come una parabola cinica e pessimista su quanto siamo disgustosi. Fessenden è molto meglio di così, i suoi personaggi sono sempre pieni di difetti, ma allo stesso tempo così umani da rendere impossibile non provare una certa compassione nei loro confronti.

Per questo ci dispiace per il povero Adam, gettato nella vita solo per essere abbandonato, ma ci dispiace anche per il suo creatore Henry, perché non ci viene presentato con alcuna delle caratteristiche che di solito associamo, dopo anni di film, a Frankenstein: Henry è soltanto un uomo geniale, ma spezzato, che cerca disperatamente di rimettere insieme quello che si è rotto per sempre e crea con Adam un legame molto forte, anche se difficile, un rapporto quasi da padre e figlio; persino Polidori, forse, meritava di meglio.
Piccoli uomini che combinano grandi disastri, una sorta di riedizione molto al passo coi tempi della massima kinghiana delle “brave persone a cui accadono cose orribili”.
Nell’universo di Fessenden le brave persone non esistono, se esistono stanno sullo sfondo, ad aspettare qualcuno che non tornerà mai, forse a riconoscerlo in un corpo pieno di cicatrici, quando però è troppo tardi. Al loro posto, uomini che si affannano e sbagliano su un sentiero già indirizzato verso la tragedia.
I will hide and disappear and learn not to care. This is what they have taught me.”

3 commenti

  1. A dir poco meraviglioso. Mi hai indotto a desiderare fortemente di scoprire questo regista, che non conosco. Mi rattrista solo pensare che la “vicenda arcinota” di Frankenstein e della sua creatura tanto nota forse non sia, considerata la ricchezza del romanzo che troppi riducono a poche, reiterate e rimasticate, scene.

  2. Giuseppe · ·

    Per un attimo, l’Henry di Fessenden mi aveva fatto pensare più a Herbert West (già intento sotto le armi a “sperimentare” negli ospedali da campo) che a Frankenstein ma, appunto, qui non abbiamo all’opera nessun classico mad doctor. Tutt’altro, direi… Mi fa piacere che Larry sia tornato in mezzo a noi, e con una reinterpretazione personale a basso budget di un classico di tale livello, per di più. Credo proprio che non ne rimarrò deluso 😉

  3. E la canzone che apre e chiude il film? Bellissime sequenze entrambe…

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