Lords of Chaos

Regia – Jonas Åkerlund (2018)

Se vi fate un giro sulla pagina di IMDb dedicata al film, vi accorgerete che pullulano recensioni negative, alcune di esse comprensive di minacce di morte. Ovviamente, non hanno niente a che spartire con la qualità di Lords of Chaos, ma si tratta di truppe pseudo nazi aizzate da quella cima di Kristian “Varg” Vikernes, ovvero l’uomo (si fa per dire) dietro il nome di Burzum, ovvero l’assassino di Euronymous. Vikernes, insieme ad altri esponenti della scena Black Metal norvegese, non ha affatto gradito che il film tratto dal libro omonimo Michael Moynihan e Didrik Soderlind venisse realizzato e gli sta spalando merda addosso da anni.
Infatti né lui né i superstiti dei Mayhem e degli Emperor hanno voluto concedere i diritti per l’utilizzo della loro musica all’interno del film, forse perché terrorizzati all’idea che Åkerlund (già batterista dei Bathory) li potesse dipingere come il branco di imbecilli che erano.
Ora, io non ho alcuna intenzione di entrare nel merito della diatriba musicale, anche perché non sono mai stata un’appassionata di Black Metal, ma ho una buona conoscenza dei fatti: all’epoca ero una quindicenne metallara che comprava tutte le riviste e la famigerata foto di Dead col cervello spappolato, messo in posa post mortem da Euronymous fa parte dell’iconografia della mia giovinezza tanto quanto Zio Tibia.  Posso quindi dire che, al netto di alcuni passaggi frettolosi soprattutto nella prima parte e di un paio di licenze poetiche, Lords of Chaos è abbastanza veritiero e non troppo romanzato.

Quando ho iniziato a vedere Lords of Chaos, mi aspettavo di assistere a un film cupo e violento e, parzialmente, è ciò che ho ottenuto. Non mi aspettavo, invece, che fosse un film così divertente e ricco di umorismo, in alcuni tratti addirittura parodistico. Ma non fraintendetemi: nei momenti chiave della vicenda, ovvero i due omicidi, il film non si tira affatto indietro e non risparmia alcun dettaglio; in particolare, la fine atroce fatta da Euronymous è messa in scena con una crudeltà estrema. Lo stesso dicasi per il suicidio di Dead. È tutto il contorno a essere trattato con un senso del ridicolo che ben si addice a un gruppo di ragazzini privilegiati (i soldi per produrre i dischi di Burzum erano della mamma, mentre quelli per aprire il negozio di dischi di Euronymous erano del papà) che si atteggiavano a cattivoni e, alla fine, hanno innescato una reazione a catena di violenza e odio fuori dal loro stesso controllo.
Paradossalmente, la mancata concessione dei diritti musicali rende un ottimo servizio a un film che di musica parla pochissimo e si concentra sui personaggi, sulle dinamiche di branco, su quello che può scatenare la competizione tra due presunti leader e su cosa succede quando in una compagnia di finti matti arriva finalmente il matto vero, e pericoloso.

Quello che non posso sapere, perché si entra in un territorio che non riguarda più la nuda esposizione dei fatti, è se Euronymous fosse davvero come è raccontato nel film. Su Vikernes non ho alcun dubbio: un adolescente insicuro, squilibrato, non troppo intelligente e imbottito di idee del cazzo. Ma Euronymous (un ottimo Rory Culkin) è un personaggio più sfaccettato, nonché il nostro narratore dell’intera vicenda, anche se capita a volte di uscire dal suo punto di vista e assumere la prospettiva di un osservatore esterno.
Il personaggio di Euronymous è interessante, perché ne viene fuori come un ragazzo tutto sommato normale, dotato di un certo carisma ma privo di un reale disagio e senza particolare talento, a differenza del suo amico Dead, con cui non fa in tempo ad arrivare allo scontro, ma di cui è evidentemente geloso sin dal primo concerto dei Mayhem, quando il cantante si taglia le braccia e comincia a scagliare teste di maiale sul pubblico in visibilio.

Il primo “problema” di Euronymous è che non è cattivo, non come vuol far credere ai suoi amici, a chi compra i suoi dischi, ai suoi fan. Il suo secondo problema è che è invece molto bravo a fomentare la cattiveria altrui e a prendersene successivamente i discutibili meriti. Non è interessato a bruciare chiese, a spargere sangue, a rendere il mondo un luogo miserabile, per quanto gli piaccia affermarlo ogni volta che ne ha l’occasione. Per Vikernes si tratta di ipocrisia, per Euronymous, e spero gran parte degli spettatori del film, è solo una questione di marketing e immagine.
Può darsi che il vero Euronymous non fosse davvero così, ma di sicuro è un personaggio cinematografico azzeccatissimo ed proprio nel suo essere una contraddizione ambulante tra ciò che il “true Black Metal” avrebbe dovuto rappresentare e l’aspirazione di un ragazzino a diventare una rock star, che risiedono l’anima drammatica e quella ridicola del film.
Una storia squallida e miserabile, sostanzialmente irrilevante ha in sé i tratti della tragedia e della farsa, e questo Åkerlund lo sa bene. O, ancora meglio, una farsa che si trasforma in tragedia sotto lo sguardo sbalordito del suo ideatore e futura vittima. Materiale perfetto per il cinema.

Una delle accuse più frequenti mosse al film dai gruppi e dai fan del Black Metal è che sia del tutto disinteressato alla musica e più al gossip (gossip un cazzo, si tratta di morti ammazzati). In realtà, il discorso è più sottile: la musica è protagonista, per quanto può esserlo data l’impossibilità di far ascoltare i brani per intero, nel corso della prima parte. In un certo senso, la musica o l’interesse per essa, muore insieme a Dead. Il momento in cui il cantante dei Mayhem si fa saltare la testa con un colpo di fucile, è anche quello in cui l’entusiasmo, la sincerità, la furia creativa di quel gruppo di ragazzini spariscono nel nulla, quasi che Dead fosse l’unico “puro” tra tutti loro. In quel vuoto, si inserisce la figura di Vikernes e da lì è tutta una gara a chi la spara più grossa, fino a quando la prima chiesa brucia e il primo sangue viene versato.
Potrebbe quasi somigliare a un classico biopic hollywoodiano, nei primi venti minuti: le origini di una band, l’incontro tra i membri del gruppo, l’arrivo del frontman e i primi concerti. Poi c’è quella scena così esplicita, così brutale, del suicidio di Dead e il film cambia, nello stile, nel ritmo, nell’andamento: la musica diventa un fattore marginale sia nella storia che nelle vite dei protagonisti e Lord of Chaos si trasforma in un horror.

Åkerlund, se si escludono sempre quei venti minuti iniziali in cui indulge in un montaggio un po’ troppo frenetico e vicino al linguaggio da videoclip (di cui è un grande esperto), adotta per questo film uno stile tipico del cinema indipendente americano; non sembra neanche lo stesso regista di Polar, patinatissimo action disponibile su Netflix e da lui diretto. Lord of Chaos è ruvido, sporco, poco accomodante, non vuole abbellire, edulcorare o normalizzare nulla, abbonda in dettagli osceni e macabri e mostra quanto sia incasinato, lungo e doloroso mettere fine alla vita di un uomo, quanto una miscela letale di arroganza, stupidità, idee distorte e parecchio confuse porti dritti alla tragedia senza quasi rendersene conto.
E l’incredulità di Euronymous di fronte alla prima coltellata ricevuta dal suo “amico” Vard, i suoi tentativi di farlo smettere, gli interminabili minuti trascorsi prima che muoia, tutti esposti sotto una luce fredda e spietata e con dovizia di particolari, sono forse la cosa più difficile da sostenere in un film che non è forse estremo come la scena musicale che vuole rappresentare, ma riesce a coglierne il lato più umano.
Perché spesso si tende a dimenticare, sia tra i detrattori che i tra i sostenitori, che questi personaggi erano dei ragazzini: Euronymous aveva 25 anni, Varg 20, Faust appena 18 la notte in cui ha ucciso un uomo a coltellate e Dead è morto a 21 anni. Non si parla di demoni o di leggende, ma di ragazzini coinvolti in fatti orribili.
E se ai metallari non piace, ce ne faremo tutti una ragione.

 

6 commenti

  1. The Butcher · ·

    Questo era un film che mi interessava e che vedrò con piacere. Mi sono anche informato sulla vicenda e devo dire che sono cose davvero pesanti.

  2. Giuseppe · ·

    Conoscevo anch’io la più che tragica storia, e mi sembra che Akerlund abbia scelto il modo giusto per portarla su grande schermo: ovvio che al folle Vikernes e ai suoi coglionNazi questo non abbia fatto piacere. Tra le altre cose, se la memoria non mi inganna, quando la polizia l’aveva fermato trovandolo in possesso di svariate armi da taglio (asce comprese) e da fuoco aveva tentato di dichiarare che fossero per “difesa personale”…

    1. Sai qual è la cosa che mi fa trasecolare? Che uno come Vikernes sia ancora capace di influenzare delle persone, che scriva libri, abbia un frequentatissimo canale di youtube, faccia dischi.
      E pare nessuno ricordi che si tratta di un feroce assassino.

      1. Giuseppe · ·

        Assassino NON pentito, per di più (infatti sarebbe stato Euronymous a volerlo uccidere, secondo la sua credibilissima versione dell’accaduto) 😦

  3. Antonio Mombelli · ·

    Il montaggio è interessante, perché veloce e lento vengono ben alternati durante la durata. La scelta degli attori è, invece, imbarazzante. Aarseth era per metà indigeno, come dimostrano i suoi tratti somatici. Rory Culkin, oltre ad essere un mediocre attore, ci restituisce – per imposizione della sceneggiatura – un Aarseth lucidissimo, uno stratega del marketing. Cosa confutata da molte altre fonti e dal film stesso, vista la sua incapacità persino a pagare un affitto. Al limite del ridicolo, poi, la parentesi romantica che cerca con una manciata di cliché di restituirci il lato umano dell’artista.
    La rappresentazione, inoltre, di Kristian Vikernes è, ben oltre, sopra le righe. L’attore che lo interpreta – un tale Cohen, nell’aspetto temibile quanto Vincenzo Crocitti – appare completamente fuori ruolo, e il processo di “trasformazione” da nerd di provincia a efferato killer appare privo di una naturale sviluppo. Un ragazzo che ha sempre affermato di andare nei club per cercare ragazze e che non si è mai vergognato di associare le tematiche trattae della sua musica ai giochi da tavolo – invece che al satanismo – viene qui rappresentato in maniera grottesca. Il fatto, infine, che tutti i maggiori esponenti della scena abbiano rifiutato di concedere i diritti di utilizzare la propria musica per questa “docu-fiction”, la dice tutta. Alcuni passaggi rendono bene l’ingenuità dei protagonisti – ricordiamolo ancora, dei ragazzi in piena crisi adolescenziale che oltrepassano il limite – tuttavia, questa operazione, se si conoscono bene i fatti, si limita ai tristi confini dell’exploitation.

  4. Che non sia piaciuto (a priori) ai musicisti coinvolti è più che comprensibile,oltre a raffigurarli per quel che erano,ovvero ragazzetti vuoti e plasmabili,toglie in maniera brutale l’aura di mistero che la scena ha cercato di preservare nel corso degli anni. Io l’ho trovato un film bellissimo,che m’ha ricordato il periodo della giovinezza, lasciandomi al contempo una gran sensazione di malinconia. Non si saprà mai fino in fondo come fosse realmente Aarseth,probabilmente più “spigoloso ” rispetto a quello filmico,ma di certo il personaggio di fiction è credibilissimo grazie ad un culkin ispiratissimo (come in generale tutto il resto del cast). Recensione azzeccatissima,come azzeccata la riflessione sui “fans ” di vikern…anzi,louis cachet.

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