Piercing

 Regia – Nicolas Pesce (2018)

Non sono tra gli estimatori del film d’esordio di Pesce, The Eyes of My Mother, perché, nonostante le capacità evidenti del giovane regista (è nato nel 1990), mi era sembrato più un lungo saggio studentesco che un film vero e proprio e, anche se durava appena un’ora e un quarto, la durata percepita era di almeno sei ore. Criptico, cerebrale, volutamente astruso, era di sicuro quello che molti definiscono un esordio interessante, e pieno di splendide idee visive, ma un po’ troppo fine a se stesso.
Con questa seconda prova Pesce, forse perché supportato dalla base narrativa solida del romanzo omonimo di Ryu Murakami, dimostra di essere diventato molto più maturo e focalizzato sul racconto, pur restando sempre uno di quei registi che prediligono lo stile e la messa in scena rispetto a storia e personaggi.

Piercing è un omaggio alle atmosfere, ai colori, alla musica e ai telefoni (sì, i telefoni) del cinema italiano degli anni ’70, in particolare il Giallo di Dario Argento, richiamato direttamente dall’inserimento in colonna sonora dei temi di Profondo Rosso e Tenebre. Ma si tratta, appunto, di un omaggio solo formale, di ambientazione, di scelte estetiche, perché il cuore narrativo del film non ha poi molto a che spartire col whodunit che invece caratterizzava i Gialli nostrani.
Comincia infatti con un padre, Reed (Christopher Abbott) che avvicina un punteruolo da ghiaccio alla gola della figlioletta appena nata e, subito dopo, comincia a pianificare meticolosamente l’omicidio di una prostituta, scrivendone ogni dettaglio su un taccuino. Salutate moglie e figlia, prende un taxi e va in un albergo, dove prenota il servizio di una escort specializzata in sado-masochismo.
Alla sua porta si presenta Jackie (Mia Wasikowska), che non solo è più fuori di testa di quanto lui non sarà mai, ma soprattutto, è destinata a dare al nostro assassino proprio ciò che lui desidera, anche se ancora non ne è consapevole.

Da un certo punto di vista, abbastanza deviato, bisogna ammetterlo, Piercing è una storia d’amore, l’incontro di due anime tormentate che scoprono di essere perfette l’una per l’altra. Ma, trovandoci in un film dell’orrore, l’incontro è tra un potenziale serial killer e una donna che ama infliggere e ricevere dolore, entrambi con un desiderio di morte di dimensioni pantagrueliche. Pesce è molto bravo a sottintendere, con una certa ironia, le implicazioni sentimentali di questa relazione nata a colpi di punteruolo nelle gambe e apriscatole in faccia. Lo fa dando grande risalto alle interazioni fisiche tra i due protagonisti, che si comportano come due amanti anche nei momenti di violenza più estrema.
Un thriller erotico e sadico, girato come un film italiano degli anni ’70. O come un De Palma dello stesso periodo, e non solo per l’abbondante uso di split screen e altri artifici che ti catapultano subito in quell’epoca.

Come per The Eyes of My Mother, la durata del film è molto breve, appena un’ora e venti, con ben cinque minuti di titoli di coda inclusi, ma Pesce è in grado, anche qui, di rallentare il ritmo all’inverosimile, in certe occasioni, e di inserire parentesi allucinate, che dovrebbero fornirci indizi sul passato del protagonista maschile, ma che sembrano solo una scusa per sfoggiare la bravura del regista. Non che io mi voglia lamentare di questo: sono tra le sequenze migliori e più suggestive del film, anche se non vanno da nessuna parte, e rappresentano anche una discreta fabbrica di incubi, per cui qualche cinefilo temo sarà pronto a tirare fuori dal cilindro il nome più usato a sproposito della storia del cinema, quello di Lynch.
Se qualcosina di Lynch c’è, in questo film, è l’arredamento delle due stanze in cui si svolge il 90% del minutaggio, e niente più.

E, anche lì, siamo di fronte allo standard dell’ambientazione anni ’70, sebbene non sia mai specificata con chiarezza. L’idea è quella di un film sospeso in un limbo spaziale e temporale, in un luogo di assoluta finzione, una città della fantasia, realizzata a due dimensioni, come uno sfondo di cartapesta, delle camere dove, al di sotto della superficie elegante, è possibile quasi fiutare il lezzo del sudiciume, e dei vestiti che sembrano usciti dritti da un mercatino dell’usato vintage.
Non è un film posticcio, Piercing, è un film che vuole essere posticcio, che lo dichiara sin dall’inizio e porta avanti questa dichiarazione con estrema coerenza.
Perché, alla fine, ciò che credo interessi a Pesce è mettere in scena un continuo scambio di ruoli tra carnefice e vittima, dove Jackie, all’inizio, sceglie consapevolmente di interpretare il ruolo della vittima e Reed, spaesato e disorientato, non capisce che da vittima a carnefice il passo è molto breve e che forse il secondo ruolo gli calza di più.

Oltre alla raffinatezza e alla precisione filologica della messa in scena di Pesce, Piercing deve molto ai suoi due attori, soprattutto a Mia Wasikowska, capace di passare da dolcezza a ferocia nello spazio di un istante, e di mostrare tutti i sintomi di una personalità spezzata dietro a una maschera di sarcasmo e seduzione. Perché è lei a dare il ritmo a questo dramma da camera, a questa battaglia erotica a due che si svolge nell’esiguo spazio di una notte.
Forse il finale del film arriva in maniera troppo affrettata e quando cominciano a scorrere i titoli di coda, la sensazione è che Pesce abbia un po’ tirato il freno a mano, non abbia voluto o potuto spingersi fino alle conseguenze più estreme che le premesse facevano presagire. Ma è anche vero che la chiusura del cerchio è perfetta, il rovesciamento dei ruoli compiuto e la ridondanza dietro l’angolo. Quindi chiudere prima di deragliare è stata una scelta saggia.
Non ho letto il romanzo da cui il film è tratto (per i cinefili oltranzisti, Murakami è anche l’autore del libro da cui Miike ha adattato Audition), ma se qualcuno di voi lo avesse fatto, mi piacerebbe sapere se Pesce è stato fedele al testo o è andato per fatti suoi.
Sono molto curiosa.

3 commenti

  1. The Butcher · ·

    Neanch’io ero rimasto entusiasta del suo primo film. Tecnicamente ottimo ma, come hai già detto, sembrava un lavoro da studente. Questo invece mi ha molto incuriosito e poi c’è Mia Wasikowska che adoro.

  2. Giuseppe · ·

    Riguardo a Pesce sono un totale neofita, non avendo nemmeno visto il suo film d’esordio, ragion per cui vederlo all’opera sarà per me una novità assoluta… tra l’altro, ho appena scoperto che l’anno prossimo dovrebbe uscire il reboot di The Grudge (versione USA) da lui diretto.

  3. Purtroppo Ryu Murakami (il Murakami buono) in Italia è praticamente ignorato e quindi non esiste una traduzione di Piercing. Ne sono abbastanza certo avendo letto i suoi unici tre romanzi pubblicati in questo triste paese, dove invece spopola l’insopportabile Haruki Murakami, che è il classico scrittore da salotto, da citare per dimostrare che non si legge solo la Ferrante o Walter Siti. Il buon Ryu invece, essendo molto disturbante, non se lo caga nessuno.

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