Regia – Stephen Susco (2018)
Tra i film che, in maniera del tutto inaspettata, avevo apprezzato molto qualche anno fa, c’era Unfriended, un esperimento riuscito di film girato interamente sullo schermo di un pc; si trattava di una cosa interessante, realizzata quasi a costo zero, che tuttavia doveva la sua resa soprattutto al fatto di non essere incentrata sull’argomento tecnologia: Unfriended era una classica storia di possessione, ma inserita in una cornice modernissima. Tra le altre cose, non aveva bisogno di parlare direttamente di tecnologia per dire che siamo delle capre e che usiamo nel nostro quotidiano strumenti di cui non conosciamo il funzionamento.
Con il seguito (lo si evince sin dal titolo, quindi non è uno spoiler) l’elemento soprannaturale viene accantonato in favore di un pericolo molto più concreto e realistico.
Il che rischia di prestarsi facilmente alla retorica di quanto i nostri poveri ragazzi siano esposti a ogni tipo di minaccia mentre se ne stanno online, signora mia, e quanto era meglio quando giocavano in mezzo alla strada.
Per fortuna, la morale di fondo di Unfriended: Dark Web resta la stessa del predecessore: siamo delle capre e ci meritiamo tutto ciò che ci succede.
La produzione è sempre Blumhouse, ma cambia il regista: l’esordiente Susco, già sceneggiatore dalla carriera altalenante, che alterna perle del calibro di Red a imbarazzi come Non Aprite quella Porta 3D. È anche autore del copione, che ha un peso maggiore rispetto alla regia vera e propria in un caso come quello di Unfriended, dove non ci sono possibilità di evadere dalle strettoie imposte dal linguaggio scelto. In altre parole, dallo schermo del pc non si scappa, non ci si allontana mai e non ci si sposta in nessun momento; schermate fisse, varie finestre aperte che si sovrappongono o si affiancano e il montaggio costituito dal passaggio da una finestra all’altra.
Forse in questo secondo capitolo c’è una maggiore varietà di situazioni, dovuta a una trama che si azzarda addirittura a uscire dalle camere dei sei protagonisti, ma niente di eclatante. Sempre al grado zero del found footage ci troviamo.
Alla base di Unfriended: Dark Web ci sono dei filmati trovati all’interno di un portatile rubato. Matias, il personaggio principale del film, racconta a tutti di aver acquistato il computer usato online, ma in realtà lo ha trovato tra gli oggetti smarriti di un locale e se lo è portato a casa.
Lui e i suoi amici si riuniscono su Skype per giocare a Cards Against Humanity, mentre Matias cerca di far pace con la fidanzata sordomuta Amaya, arrabbiatissima perché lui ancora non si è deciso a imparare il linguaggio dei segni per parlare con lei.
Dopo circa una mezz’oretta di cazzeggio, Matias scopre una cartella nascosta nel computer nuovo, al cui interno ci sono dei video: ragazze rapite, torturate, uccise. Ed è quello il vero e proprio inizio del film, perché ovviamente il vero proprietario del portatile si è accorto che Matias glielo ha rubato, e ora sta guardando tutto quello che lui e i suoi amici fanno online. Rapisce Amaya e minaccia Matias che, se lui o uno qualunque dei suoi amici si disconnette dalla chat o chiama la polizia, la ragazza morirà.
Come anche il film precedente, Unfriended: Dark Web punta gran parte della sua efficacia sulla verosimiglianza di ciò che viene rappresentato sullo schermo: i protagonisti usano tutte le app e i siti web cui anche noi facciamo riferimento ogni giorno; quindi Facebook è Facebook, non un social network inesistente inventato alla bisogna, Skype è proprio lui, e così anche i programmi interni al portatile di Matias, tutte le schermate, i marchi, riproducono fedelmente degli strumenti che sono diventati parte integrante della nostra vita. L’ambientazione del film ci appare quindi come estremamente plausibile e non facciamo alcuna fatica a immedesimarci nella situazione: a tutti noi sarà capitato di chattare in gruppo con degli amici, per giocare o solo per chiacchierare, e vedere questa routine spezzata da un evento traumatico ha delle forti risonanze nelle paure collettive di una società che vive immersa nella tecnologia, ma che ha delle nozioni molto ridotte sul suo funzionamento.
E, se in Unfriended era una fantasma che rivoltava contro i protagonisti degli oggetti familiari, qui ci sono altre persone, molto più esperte di loro, a dimostrare come questi oggetti sono familiari solo fino a un certo punto. Potrebbe essere quasi un episodio gonfiato di Black Mirror, questo Unfriended: Dark Web, perché non tratta soltanto di snuff o di compravendita di omicidi online, ma anche di manipolazione delle immagini, di falsificazione delle prove, del fabbricare accuse a carico di innocenti. Uno scenario davvero inquietante e degno dei peggiori incubi tecnofobici della serie tv britannica.
Ma parliamo di un prodotto Blumhouse, che ha ambizioni di tutt’altro tipo, molto più prosaiche: Dark Web ha quindi la struttura tipica del teen horror, con i protagonisti che appartengono a stereotipi ben consolidati e l’unico guizzo rappresentato dalla ragazza sordomuta, che tuttavia poteva essere sfruttata meglio, proprio per l’incapacità di comunicare con gli altri o, al contrario, per la possibilità di comunicare a un livello sconosciuto a chi li sta spiando, quello del linguaggio dei segni. È un peccato, perché il finale alternativo di cui si vocifera (pare addirittura, ma la voce non è confermata, che in alcuni cinema siano state consegnate due copie del film, ognuna con un finale differente) andava proprio in quella direzione.
Se Unfriended: Dark Web vi piacerà o no, dipende tutto dalla vostra percezione personale. A mio parere, è inferiore al primo capitolo perché preferisco la piega soprannaturale e ritengo che l’idea della ghost story applicata ai moderni mezzi tecnologici fosse molto azzeccata, ma a parte queste considerazioni, i due film si equivalgono e, se Unfriended vi ha fatto schifo, molto probabilmente non apprezzerete neanche questo.
Io, al netto del mio proverbiale snobismo nei confronti di operazioni poco cinematografiche, credo che siano film in linea con lo spirito dei tempi, capaci di catturare la schizofrenia collettiva nei confronti di un’esistenza che si svolge online per gran parte del tempo, una visione del mondo composta a metà da complottismo e a metà da noncuranza e che conduce a considerare dei semplici strumenti o oggetti come fossero delle entità dotate di vita propria, quando siamo noi e soltanto noi a determinarne indirizzo e scopo.
In questo senso, Unfriended 1 e 2 sono entrambi interessanti: più spartano e ridotto ai minimi termini del racconto per immagini il primo, più elaborato e, per quanto il termine sia forse fuori luogo, sofisticato il secondo.
Li consiglierei entrambi, visti magari uno dietro l’altro. Non parliamo, per carità, di capolavori e neanche di grandi film, ma almeno hanno il pregio di fotografare un momento storico con spietata precisione.
La ghost story “tecnologica” di Unfriended aveva positivamente colpito pure me, tanto che mi sarebbe interessato vederne le tematiche soprannaturali sviluppate in un eventuale secondo capitolo (nonostante il concreto rischio che un esperimento a grado zero di found footage potesse NON riuscire altrettanto bene per due volte di fila). Per quanto, lo ammetto, continui a sembrarmi molto più interessante l’approccio di Gabriadze e Greaves rispetto a quello di Susco, una visione gliela concederò comunque…
Sì, mi ricordo che anche tu avevi apprezzato il primo film.
Questo è anche tecnicamente superiore, ma avrei preferito un proseguimento nella stessa direzione, anche se forse, cambiare radicalmente genere ha fatto bene al film e ha scongiurato i rischi di ripetitività.
Rischi più che possibili, in questi casi. A proposito di (sempre raro) found footage di grado superiore, hai mai visto “Noroi: The Curse” di Kōji Shiraishi? Pur raccontando una storia totalmente differente, riesce a non essere poi tanto meno spaventoso di “Lake Mungo” (di cui è quasi coetaneo)… 😉
L’ho visto ieri e mi ritrovo perfettamente in quanto hai scritto. Anche a me era piaciuto il primo (per le stesse ragioni che hai esplicitato tu) e anche a me questo secondo è apparso quantomeno interessante, ancorchè meno riuscito del primo.
Sarà l’età, ma dopo un po’ ho iniziato a vederci doppio a furia di stare appresso a instant messages fulminei scritti in micro-riquadri dello schermo, il che mi ha un po’ pregiudicato il piacere della visione.
Comunque un paio di idee sono ingegnose e il film si fa seguire pur con tutti i suoi limiti (intrinseci ed estrinseci). Sfiziosa la notizia di un finale alternativo, anche se onestamente quello scelto è forse un po’ banale ma non rappresenta un insulto all’intelligenza.
Ho avuto il tuo stesso problema con i vari messaggi e le moltitudini di finestre aperte. Il primo lo avevo visto in sala e non mi aveva causato questo fastidio.
Oppure sono solo invecchiata 😀
Sì, il finale non è affatto male, quello alternativo, bocciato agli screen test dal pubblico, secondo me era un po’ meglio.
E poi c’è questa leggenda che, nonostante la bocciatura, sia stato comunque fatto circolare.