L’horror, quello americano soprattutto, è un genere citazionista sin dalle sue origini. Credo sia a causa della natura seriale e ripetitiva su cui hai basato il successo di pubblico che lo ha quasi sempre contraddistinto. Gli anni ’30, con il ciclo produttivo dei mostri Universal, riproposti poi dalla Hammer negli anni ’50, sono un esempio abbastanza scontato di questa serialità. E la citazione, sia essa consapevole omaggio o inconsapevole ripresa di immagini ormai entrate a far parte di un immaginario condiviso, è parte integrante di un genere con dei codici ben precisi, codici a cui si sono, chi più chi meno, tutti attenuti. Nel fitto sottobosco delle varie tipologie di horror, lo slasher è sicuramente il più codificato e il più rigido di tutti. Ovvio che sia, di conseguenza, anche il più citazionista. E lo è da sempre, perché la sua riconoscibilità si presta magnificamente a certi rimandi e a giochi di specchi tra un film e l’altro.
Tobe Hooper, che spesso passa erroneamente come uno dei padri dello slasher, si è in realtà cimentato con il genere solo due volte in carriera, e la seconda anche a metà, perché Toolbox Murders è slasher solo fino a un certo punto e poi prende un’altra direzione. Slasher puro, ma molto consapevole e autoreferenziale, è invece The Funhouse.
Il fatto che, già nel 1981 (e quindi ad appena due anni dall’uscita di Halloween) lo slasher e le sue regole fossero un qualcosa di assodato e universalmente riconosciuto, che si poteva anche prendere in giro, è evidente nella sequenza di apertura del film: soggettiva di qualcuno che si aggira per le stanze di una casa, in montaggio alternato con le immagini di una ragazza che si sta facendo la doccia. La scena prosegue con il presunto assassino che prende un coltellaccio e si mette una maschera da clown. Il tutto sempre in soggettiva, proprio come nell’Halloween di Carpenter, ma senza le sue stesse classe e fluidità. Non si può avere tutto.
Stacco in bagno e il film smette di essere Halloween e diventa Psycho, nel senso che è una replica esatta dell’omicidio di Janet Leigh.
Ma il coltello è di plastica e l’assassino è soltanto il fratellino minore della protagonista, in vena di scherzi di pessimo gusto. E così, la sete di sangue dello spettatore si smorza in una risata.
È un incipit molto intelligente, perché fa subito capire che l’impostazione di tutto il film sarà basata sulla consapevolezza. Hooper era famoso per opere rozze e dallo stile assente. Non solo il suo esordio, che non ha neppure bisogno di essere nominato, ma anche il suo secondo film, Quel Motel Vicino alla Palude, sebbene vi fosse già presente un tocco sardonico destinato a esplodere con il secondo capitolo delle motoseghe texane, erano storie feroci e rabbiose, tipiche del new horror anni ’70. Film dal taglio documentaristico, dall’evidente pauperismo che, con la loro sporcizia estetica, restituivano però un senso di realtà profondo e shockante.
Nel 1981 sono cambiati i tempi ed è cambiato lo stile. Hooper si adegua, sottolineando, sin dai primi minuti, la finzione scenica del suo film: state tranquilli, è tutto finto. Non vi preoccupate, è solo un film. È solo uno slasher.
L’ambientazione in un mondo falso come quello di un luna park itinerante, con tutte le sue attrazioni di cartapesta, gli imbonitori che promettono un divertimento di rado corrispondente alla realtà dei fatti, il padiglione dei freak che mette in mostra mucche a due teste e feti deformi sotto vetro, rimanda a una tradizione del cinema horror con radici molto, molto antiche. E il tunnel dell’orrore in sé, con la sua paura controllata e rassicurante, basata sulla ripetizione, è in fin dei conti, una delle possibili rappresentazioni dello slasher, un giro rapido e innocuo sulle montagne russe della paura.
Tuttavia, in tutta questa finzione si può nascondere un orrore reale. E Hooper, a cui va dato atto, se non altro, di essere sempre stato molto bravo nella costruzione del marciume e del degrado, inserisce tanti piccoli dettagli weird nella prima metà del suo film, che stanno lì a smentire la tranquillità borghese in cui si situa la vicenda: il barbone davanti alle giostre, la vecchia predicatrice che disturba la protagonista e la sua amica in bagno, l’uomo che minaccia il fratellino con il fucile e la cartomante. Tutti particolari stonati, tipicamente alla Hooper, personaggi che potrebbero benissimo essere appena usciti da un mattatoio texano, per dire…
I quattro imbecilli che decidono di passare la notte nella Funhouse del titolo, convinti di potersi appartare indisturbati, non sanno che l’horror non è mai veramente innocuo. E vengono puniti per questo, scoperchiando un segreto orribile nascosto sotto la superficie di quel tempio del divertimento a basso costo dove stanno trascorrendo la loro serata.
Perché, tra i tendoni del luna park, vive un mostro, un freak che solo qualche decennio prima sarebbe stato un’attrazione e che oggi va invece tenuto lontano dagli sguardi altrui, celato dietro alla maschera di Frankenstein, affinché non vengano rivelate le sue fattezze animalesche. L’orrore che fa da paravento a un orrore ancora più grande, quindi, come in un gioco a scatole cinesi che attraversa decenni di storia del genere e continua, instancabile, a raccontarci la deformità, a mettere i corpi perfetti degli adolescenti americani a contatto con quelli, mutilati e osceni, dei loro carnefici. Ma, se In Non Aprite quella Porta, Leatherface sopravviveva, e con lui quella porzione di America selvaggia in cui i protagonisti erano precipitati, in uno slasher, il mostro deve morire (almeno fino al prossimo sequel) e Hooper gli riserva una fine atroce, in un film fino a quel momento molto poco esplicito.
Non è infatti la violenza il tratto distintivo de Il Tunnel dell’Orrore. La sua estetica è fredda, distante anni luce dall’accanimento furioso degli esordi del regista. Tutta la parte ambientata nel tunnel non sembra nemmeno diretta da Hooper, per quanto è raffinata. E qui c’è lo zampino di quel geniaccio di Andrew Lazslo, che aveva illuminato la New York notturna e le paludi della Louisiana per Walter Hill e che, in questa occasione, si diverte con cromatismi iperrealisti che ricordano addirittura Suspiria. Vedere per credere.
Forse non è il più personale tra i film di Hooper, ma è di sicuro il più elegante e il più controllato. Perché uno slasher, per essere riuscito, esige la distanza dalla materia trattata, soprattutto se si tratta di uno slasher così metacinematografico, quando di metacinema ancora non si parlava.
Piccola curiosità: tra le varie citazioni, Hooper trova anche il tempo di mettere in scena una affettuosa rievocazione di Herschell Gordow Lewis e del suo The Wizard of Gore.
Hooper è un discontinuo ma nella sua discontinuità riesce sempre a lasciar trapelare qualcosa di buono e interessante. Ho un ricordo vago del Tunnel dell’orrore, visto una, forse due volte nei remoti ’80’s lo recupererò. Spezzo una lancia per Quel Motel vicino alla palude, che ho sempre considerato un lavoro sottovalutato e, non centra un tubo ma lo cito sempre con amore Life Force, che giudico uno squisito e delirante divertissment
Ah, sì, Quel Motel Vicino alla Palude è un buon horror, forse proprio perché è rozzo e privo di qualsiasi vezzo stilistico, come il suo predecessore.
Qui conta molto il lavoro del dop e meno quello di Hooper.
se penso che lo slasher non é nemmeno la mia “branca” horror preferita e nel giro di due recensioni sei riuscita a vendermi due slasher…mi inchino. alla descrizione della prima scena ero già a pescare nel torrente 🙂
(piccolo OT: ti é capitato di vedere “carnage park”, con il mitico pat healy? se sì, cosa ne pensi?)
Lo slasher è un genere particolare: bisogna cercare l’originalità nella ripetitività. Ma, quando questo elemento esiste, allora è sempre una festa 😉
L’ho visto, Carnage Park. Non mi è dispiaciuto, ma non l’ho apprezzato abbastanza da dedicargli un post intero. Forse ne accennerò a novembre, in un articolone consuntivo insieme ad altri film.
Slasher niente male, per un Hooper ancora in transizione dalla fase memorabile degli esordi a quella meno memorabile degli anni successivi. E, visto il citazionismo qui sapientemente diffuso, direi che anche le “Suspiriane” scelte cromatiche di Laszlo ne possono far parte a pieno titolo…