Alvarez è il genietto che non ti aspetti. Già condurre in porto un’operazione ad alto rischio come il remake di Evil Dead, e farlo con successo, richiede un talento e un coraggio fuori del comune. Ma confermarsi con un’opera seconda del tutto differente rispetto alle deflagrazioni gore del suo esordio, vuol dire essere davvero bravi. Perché dimostra di saper gestire sia la sottrazione che l’accumulo, sia il silenzio che le urla, sia le situazioni che richiedono uno stile barocco sia quelle che, al contrario, impongono la semplicità e lo schematismo, vuoi per esigenze narrative, vuoi perché gli spazi sono estremamente limitati. Il tutto, senza tradire se stesso, restando quindi riconoscibile. Che Don’t Breathe sia un film di Fede Alvarez quanto lo era La Casa, è indiscutibile. E questo giovanotto, che ha compiuto 38 anni a febbraio, potrebbe davvero essere uno dei nomi di punta per il futuro del genere, accanto ai coetanei e (ancora per poco) più famosi Wan e Flanagan.
A mio modesto parere, Alvarez possiede anche una marcia in più, quella di fare horror commerciale con un approccio che è, in realtà, tipico di un regista indipendente.
Il supporto dei produttori Sam Raimi e Rob Tapert è, in questo senso, fondamentale. La Ghost House Pictures, dopo aver vivacchiato per anni portando in sala roba di cui vergognarsi, ha finalmente trovato, con Alvarez, una direzione da prendere, ovvero porsi come alternativa principale ai film preconfezionati della Blumhouse, ostentando con orgoglio, sia per Evil Dead che per Don’t Breathe, il marchio R.
Don’t Breathe non è un horror soprannaturale, ma un home invasion al contrario. Un thriller che, dopo una breve introduzione che ci permetta di comprendere le motivazioni dei personaggi principali, si svolgerà quasi interamente tra le quattro mura di una casa, l’unica rimasta abitata in un desolato quartiere di Detroit.
Lì si introducono, durante la notte, tre ladruncoli, per derubare un veterano cieco con un grosso patrimonio dovuto al risarcimento ricevuto in seguito alla morte della figlia, investita da un’auto. Sembra un colpo facile e, soprattutto, risolutivo, in grado di cambiare per sempre le vite dei tre, in particolar modo di Rocky (Jane Levy, già protagonista de La Casa), che vuole portare via la sorella minore dallo squallore e dalla miseria.
Ma l’uomo (Stephen Lang) si rivelerà meno inoffensivo del previsto.
Una trama scheletrica, per un film della durata di appena 88 minuti, brevità necessaria affinché una storia così esile tenga. Ma ad Alvarez non interessa seguire gli schemi canonici del genere di appartenenza, quanto piuttosto infilare un paio di svolte clamorose, giocare con gli stereotipi, sorprendere a ogni snodo narrativo e, nel mentre, far calare sullo spettatore una cappa d’ansia perenne. Don’t Breathe è un film che non si arresta mai, che riesce, nonostante un’ambientazione per forza di cose limitatissima e una successione di eventi ristretta in un arco temporale di una sola nottata, a collezionare idee su idee una dietro l’altra, sia a livello estetico che di racconto.
In questo senso parlavo prima di approccio indie al cinema commerciale. Se siamo abituati, quando andiamo a vedere un horror che esce in sala, ad aspettarci un prodotto standardizzato e un po’ vigliacco, ecco che Don’t Breathe non ha paura di assestare dei bei cazzotti nello stomaco, non tanto in fatto di gore o splatter, quando in fatto di violenza psicologica che, in una sequenza in particolare, sfiora l’insostenibile. Disgusta persino, Don’t Breathe, senza che venga versato poi tutto questo sangue, disgusta più per dove è in grado di condurre l’immaginazione di chi guarda che per ciò che effettivamente viene portato a compimento sullo schermo. Il personaggio del Blind Man passa dall’essere vittima inerme, a uomo nero, a figura ripugnante e patetica in un batter d’occhi. E questo non lo rende un personaggio incoerente, ma un villain riuscitissimo e pauroso, nonché umano.
Don’t Breathe è anche un passo avanti rispetto a La Casa, per il modo in cui la storia viene raccontata, per come ogni forma di spiegone è evitata come la peste. Non so se ricordate la tediosa parte introduttiva del remake di Evil Dead, in cui si doveva per forza dare una giustificazione alla presenza del gruppo di amici nello chalet. Ecco, in Don’t Breathe (lo accennavamo prima) Alvarez impiega una scena di un paio di minuti per illustrarci la situazione di Rocky: un quadretto familiare che pare uscito da un film di Rob Zombie, un dialogo di due battute con la sorella minore e sappiamo tutto ciò che ci serve. Don’t Breathe è un film che elimina tutto ciò che non è indispensabile, si spoglia di ogni orpello narrativo, narra i rapporti tra personaggi attraverso le immagini e crea quell’empatia necessaria a temere per l’incolumità di tre delinquenti di bassa lega, stando sempre attento a non incorrere in facili moralismi. Ed è un atteggiamento da premiare, vista la tendenza di molto horror commerciale contemporaneo alla restaurazione dello status quo. Già il fatto che non ci sia una famiglia al centro della storia, è un elemento di fondamentale importanza, se si dà una rapida occhiata agli horror che hanno incassato di più negli ultimi anni. Alvarez, e con lui il co-sceneggiatore fisso Rodo Sayagues, sceglie di adottare il punto di vista di tre piccoli criminali e non li giudica né, tanto meno, li santifica. Ce li presenta per quello che sono e ci devono andare bene. Sembrerà banale, ma è una delle più nette linee di demarcazione tra l’horror adulto e quello per ragazzini.
Esteticamente parlando, la continuità con Evil Dead è fortissima: Alvarez è funambolico, si lancia in piani sequenza da mal di testa nei corridoi della casa (uno solo di essi è fatto con l’aiuto della CGI), usa angolazioni ardite e dà l’impressione di divertirsi come un matto a lanciare la sua macchina da presa nelle tenebre sempre più fitte, mandandola a esplorare ogni pertugio, muovendola come se avesse a disposizione tutto lo spazio del mondo. Si capisce, qui forse anche di più che ne La Casa, per quale motivo Raimi l’abbia scelto per realizzare il remake del suo ormai mitico esordio: nei film di Alvarez, come in quelli del suo mentore e maestro, è sempre tutto “about the camera”.
Più di tutto, lascia interdetti la consapevolezza con cui il regista punta allo stravolgimento dei modelli dell’home invasion, cambiandone la prospettiva: l’espediente di togliere la corrente, recuperato di peso da Gli Occhi della Notte, è qui ribaltato e vissuto non dalla parte della vittima (che vittima non è), ma da quella degli invasori. Ne viene fuori una sequenza al cardiopalma, che potrebbe in tutta tranquillità essere inserita in un saggio su come creare tensione e panico vero e proprio al cinema. E tutto il film è, in fin dei conti, un omaggio e un ribaltamento della gemma del 1967 firmata da Terence Young.
Ma non solo: a scavare con attenzione, ci si accorge di quanto tutta l’operazione Don’t Breathe sia influenzata da un altro piccolo cult del cinema della paura, La Casa Nera, di Wes Craven. Ci sono un paio di citazioni dirette che stanno lì a dimostrarlo (l’inseguimento nel cunicolo, il volo dalla finestra), ma è proprio l’atmosfera generale del film, che parte e imposta la sua struttura come se fosse un thriller realistico e poi, con lo scorrere dei minuti, diventa una fiaba macabra e nerissima, con tanto di uomo nero e “people under the stairs”.
Ottima direzione degli attori, Lang e Levy su tutti, uno sfruttamento interessante, per i pochi esterni, di quella che sta diventando la città d’elezione dell’horror contemporaneo, Detroit, e una capacità rara di usare il silenzio come veicolo principale della paura. Non ci sono (quasi) jump scares in tutto il film. Anche perché, con un sonoro che sottolinea ogni scricchiolio sul pavimento e ogni respiro, in quanto agenti in grado di determinare la salvezza o la morte di un personaggio, non è necessario niente altro.
Per questo, forse, il pubblico di quindicenni presente in sala sabato sera non lo ha capito e ha continuato a fare battutine idiote per 88 minuti di fila. Ma non credo sia un’opera adatta per il pubblico italiano, abituato ad altri spaventi, ben più dozzinali. E infatti, negli Stati Uniti, Don’t Breathe è campione di incassi.
Fatemi chiudere con una piccola riflessione sul titolo con cui il film è uscito in Italia: è una roba imbarazzante, ma non è campata in aria. Sostituire un titolo in inglese con un altro titolo sempre in inglese, ma dalla pronuncia più semplice, nonché didascalico ai massimi livelli, è soltanto indice di quanto siamo ignoranti. Peggio delle capre.
ecco, questo mi ispirava davvero tantissimo dall’uscita del trailer mesi fa; lieta di vedere che le mie aspettative non erano mal riposte 🙂 purtroppo me lo sono perso al cinema, ma mi rifiuto di vederlo in streaming data la versione obbrobriosa che gira in rete; attenderò, anche se questo articolo (stupendo come sempre) non ha fatto altro che aumentare la mia curiosità 🙂
Ma in sala lo trovi tranquillamente ancora. È uscito appena la scorsa settimana. E ti assicuro che vederlo in sala è un’esperienza 😉
magari 😦 dove abito io non l’hanno nemmeno passato in sala, figurati…
Ma no! Che cosa brutta! Io devo smettere di lamentarmi di vivere a Roma. Almeno qui è pieno di cinema…
Detroit è una triste città industriale (almeno al cinema e cosi) basta vedere Robocop dell’87,quindi si adatta a storie di disperazione,l’uomo cieco del film poi non è mica piccolino,bellissimo La casa nera ,ma mi hai ricordato un’altro gran film Seasoning House
Ah, il titolo dall’inglese all’inglese è fenomenale: mi chiedo perché non abbiano pensato addirittura a un bel “Man in the dark: Thieves in peril” così, giusto per aggiungere al didascalismo pure qualche indizio per lo spettatore pigro e rincoglionito. Comunque, tornando a noi, trovo che Stephen Lang sia perfetto per questo ruolo e che Alvarez abbia le carte in regola per riportare la Ghost House Pictures sulla retta via 😉 (vederla ridursi a un quasi-clone della Blumhouse non era esattamente il massimo)…
Appena visto (detto fra noi, andare al cinema con due euro è una goduria supplementare) e piaciuto assai. Specialmente la parte finale, dove molti horror – ma non solo horror – si sgonfiano, questo continua ad aggiungere carne al fuoco e non ti molla fino all’ultimo secondo.
Io a due euro sono stata a vedere ieri sera Roland Emmerich 😀
Questo me lo son visto a prezzo pieno. Ma li meritava tutti
Bellissimo. Alvarez si conferma un regista di primo piano. Già a me era piaciuto tantissimo con La casa (difficilissimo fare un bel film partendo da un originale così ingombrante, ma lui ha vinto la sfida alla grande) ma qui è tiuscito a cambiare registro ed a fare un film che è un manuale di tensione! E con una regia raffinatissima, secondo me. Da vedere e rivedere.
Infatti era difficilissimo realizzare un film come il remake di Evil Dead. Tanto di cappello. E tanto di cappello per essersi saputo rinnovare!
Purtroppo nemmeno qui nella enorme e cinematografica provincia barese risulta reperibile… La recensione mi incuriosisce non poco… farò quel che posso!
Ma non ci posso credere!
Sono strafortunato… è stato inserito questa settimana nel circuito UCI (“solo per riempire il buco che lasciava il film dei Beatles” ha ammesso un amico che ci lavora in amministrazione)