Una delle primissime recensioni di questo blog (sono passati quasi cinque anni, ormai) era quella su Wake Wood, che segnava il ritorno in scena della nuova Hammer, di cui poi si sono perse le tracce, ed era il secondo film di David Keating. Ci ha messo un bel po’ di tempo a tornare a dirigere, questa volta con l’ausilio dell’Irish Film Board. Il film ha aperto l’edizione del Frightfest del 2015 e non è stato accolto benissimo. Da un certo punto di vista è comprensibile: Cherry Tree è un film che non si capisce bene dove voglia andare a parare, ha svariati momenti di confusione e una sceneggiatura che scricchiola un po’ e lascia troppi punti oscuri.
Eppure, lo devo ammettere, mi ha affascinata non poco. Sarà perché, del precedente film di Keating, avevo apprezzato l’uso viscerale del folklore, che è ben presente anche in Cherry Tree, nonché la mancanza di una identità ben precisa, cosa che, da queste parti, non è mai da considerarsi un difetto.
Se stiamo tutti aspettando The Witch con la bavetta alla bocca e chi è già riuscito a vederlo ne dice meraviglie, pare che comunque le streghe abbiano intenzione di farla da padrone, in questa stagione cinematografica. E si parla di streghe anche qui, calate in un contesto contemporaneo, ma ben ancorate alle loro tradizioni. Ed è proprio il mischiare tradizioni e modernità, quasi che la congregazione di streghe presenti nel film sia una sorta di bolla sospesa nel tempo, a rendere Cherry Tree, a suo modo, speciale.
Il ciliegio del titolo si riferisce a un albero molto antico, sotto le cui radici sembra si riunissero le streghe di Orchid, la piccola città dove è ambientato il film, nel XVI secolo. La leggenda locale vuole che la più potente tra loro avesse tentato di ingannare il demonio in persona e che, per punizione, fosse stata spedita dritta all’inferno, causando così la fine della congrega.
In realtà, la congrega è ancora ben presente in città ed è guidata dalla splendida e inquietante Sissy (Anna Walton), coach della squadra di hockey su prato del liceo. Obiettivo principale della congrega è quello di trovare una vergine che si presti a mettere al mondo l’anticristo. La scelta cade su Faith (Naomi Brattick), sedicenne costantemente bullizzata dalle sue compagne di scuola. Faith è disperata perché suo padre è malato di leucemia e non gli resta molto da vivere. Al mondo non ha nessun’altro, non si sa che fine abbia fatto la madre.
Sissy le propone così un patto: lei guarirà il padre e Faith dovrà portare in grembo per sei settimane il figlio del diavolo.
Un po’ riluttante, Faith accetta e in effetti suo padre guarisce da un giorno all’altro, mentre lei resta incinta e le cose cominciano a farsi sempre più strane e minacciose.
Non è di sicuro per la sceneggiatura che sto qui a consigliarvi di perdere un’oretta e mezza del vostro tempo guardando Cherry Tree. La storia, in sé, è di quelle che abbiamo già visto e sentito mille volte. Di gravidanze demoniache ne possiamo contare a centinaia e di patti con satanasso non c’è neanche da stare qui a fare il conto. I motivi per vedere il film risedono altrove, precisamente nello stile e nell’immaginario di Keating, che sono maturati entrambi rispetto a Wake Wood ma che hanno mantenuto una certa coerenza di intenti.
Se c’è una cosa che la narrativa, scritta o filmata, di genere fantastico ci ha insegnato, è che la magia ha sempre un prezzo da pagare e se si chiede qualcosa, e la si ottiene, al soprannaturale, bisogna dare qualcos’altro in cambio. Di solito, lo scambio non è affatto equo. E sarà così anche in questo caso.
Ora, il modo in cui Keating rappresenta l’ingresso del magico nel quotidiano è interessante, anche originale, se vogliamo. Lo installa infatti nello squallido grigiore urbano di una piccola città. Non più la campagna irlandese che nasconde leggende destinate a rivelarsi reali, come in Wake Wood, ma uno scenario diverso, sicuramente non rurale, ma neanche metropolitano come accadeva, tanto per fare un esempio eclatante, in Rosemary’s Baby.
Ragazzini tristi che conducono una vita triste e monotona, tra le partite di hockey e i ritorni a casa in bicicletta, con un cielo che è perennemente plumbeo e un senso di depressione che pare connaturato a un’esistenza priva di sbocchi.
Il magico, in questa narrazione lenta e dai toni spenti, non solo arriva ad alzare il ritmo, ma anche a dare colore al mondo. Il rosso, per esempio, è un piccolo elemento che è costante (le divise della scuola, per esempio), ma che cresce e invade il campo quando si officiano i rituali di guarigione o di morte delle streghe. Ed è nelle scene dedicate alla congrega, violente, cupe, oserei dire visionarie, che il film dà il meglio di sé, tra scolopendre che entrano ed escono dalle ferite, generose secchiate di sangue, squarci che si aprono nella carne, gole tagliate e neonati sgozzati. Keating, lo abbiamo detto prima, ha questo approccio viscerale alle materie del folclore e del soprannaturale. Per lui è un fatto di carne e frattaglie, non va tanto per il sottile. Il male irrompe nella realtà facendo un gran casino e lasciando tutto sporco in giro. Puzza, è disgustoso, si serve di creature orribili e striscianti (mai viste tante disgustose, oscene scolpendre tutte insieme in un solo film) e si insinua nel dolore di chi crede di non avere più nulla da perdere, facendogli poi perdere anche quel poco che ha.
Accadeva così alla coppia in lutto di Wake Wood e accade così a Faith, terrorizzata dall’idea di restare sola al mondo e, per questo, facile preda del piano della congrega di Orchid.
Che questo piano faccia acqua da tutte le parti e, anzi, sia praticamente incomprensibile a noi umani, conta anche fino a un certo punto. Certo, siamo dalle parti del farraginoso andante, non perché debba sempre essere tutto chiaro, ma perché bastava impegnarsi cinque secondi e forse sarebbe uscito fuori un film migliore, senza una parte finale visivamente maestosa ma poverissima per quanto riguarda la narrazione. Alcuni indizi (anzi, didascalie) sparsi all’inizio del film fanno presagire come tutta la faccenda andrà a finire e anche leggendo le scarne indicazioni di trama che vi ho agevolato all’inizio, ci si arriva senza sforzarzi troppo. Il problema è che si esce dal film con un gigantesco punto interrogativo tatuato in fronte e il colpo di scena, se così si può chiamare, che ci guida verso i minuti conclusivi riesce nell’impresa di essere, al tempo stesso, telefonato e confuso.
Io vi dico queste cose perché poi magari lo vedete e ve la prendete con me. Ma non ho un interesse così profondo negli sviluppi coerenti della trama in una storia apertamente soprannaturale. E preferisco accontentarmi dell’orgia di splatter della sequenza finale, dove Keating, forse conscio di avere per le mani una sceneggiatura non proprio eccelsa, si scatena in mutilazioni e grottesche trasformazioni che ricordano addirittura Clive Barker (c’è una certa aria di cenobiti) e visioni da incubo che restano ben impresse negli occhi e nella mente dello spettatore. Soprattutto, sono girate da Padreterno e non soltanto loro. Tutto il film, nonostante sia costato davvero poco, riesce comunque a dare l’impressione di essere molto ricco, con gli elaborati eppure sobri movimenti di macchina di Keating; le inquadrature composte sempre in maniera geometrica e significativa, ché sono lì per raccontare qualcosa; la scelta di usare tanta prospettiva dal basso, quasi che tutta la vicenda venisse spiata direttamente dall’inferno; quel non aver paura di indulgere in dettagli macabri e di affondare il colpo nello stomaco di chi guarda.
Poteva essere migliore, Cherry Tree? Certo che sì, e le critiche pessime da cui è stato bersagliato stanno lì a dimostrarlo, come la media molto bassa che ha sia su Imdb che su Rotten Tomatoes. Eppure, nonostante i difetti, è lo stesso un’opera potente. Menzione d’onore per il make-up a cura di Stephanie Lynne Smith, che ha fatto un lavoro pazzesco.
Non l’ho mai visto tuttavia ho trovato davvero interessante – come sempre, del resto 😉 – la tua recensione. In particolare mi ha colpito la tua nota sull’utilizzo in crescendo del rosso. E’ una finezza della regia, c’è poco da fare. Indizio cristallino di sensibilità, di mestiere o di entrambi, che spesso lo spettatore percepisce inconsciamente e realizza solo ripensandoci, Perciò non mi sono stupita del finale (e non solo) ‘ girato da Padreterno’. Brava tu a notare ogni piccola cosa, una recensione così ben fatta è sempre utile per il potenziale spettatore.
Ma grazie!
Noto certe cose perché alla fine il cinema è il mio mestiere e ho l’occhio allenato. Ci faccio caso per forza, perché sono tutti dettagli a cui devo fare caso quando lavoro. Però sono contenta che questa pignoleria serva a qualcosa 🙂
Serve, serve… Porta lo spettatore a avere un ruolo più attivo (quando si dice “saper leggere tra le righe” o, meglio, “saper guardare tra i fotogrammi”) 🙂
Di Cherry Tree in effetti ne hanno parlato male in parecchi anche se, al netto dei difetti, ho l’impressione che ci sia di mezzo pure una certa dose di incomprensione nei confronti delle sue caratteristiche migliori (inquadrature mai casuali, l’uso “simbolico” del rosso, la prospettiva da bassi inferi, uno splatter dirompente quanto serve che lo sia)…
Che peccato!
Fino a due terzi di durata il regista era riuscito a costruire un’atmosfera progressivamente sempre più angosciante, poi gli ultimi 20 minuti sono un mezzo pasticcio e il finale goliardico ci sta come i cavoli a merenda. Il brutto è che è più facile ricordarsi la manata di difetti con cui si chiude il film che le cose buone presenti in precedenza, per questo mi sorprendono poco le recensioni negative: il finale dà l’impressione di essere stati turlupinati…
Ottima recensione come sempre, by the way.
Ecco, il finalino con botta di CGI livello pc del nipotino del regista è una cosa che grida vendetta.