Erano i primi anni ’80 e Stephen King si trovava a una convention dedicata alla narrativa fantastica. Era ubriaco lercio e dovette sembrargli un’ottima idea quando un suo conoscente gli fece la proposta di scrivere un calendario.
Un racconto diviso in dodici, brevissimi capitoli, accompagnati da illustrazioni realizzate apposta. Un po’ restrittivo, ma anche piuttosto divertente. La faccenda va in porto nell’unico modo possibile: usando come spunto narrativo i giorni di luna piena e quindi la licantropia. Il calendario viene messo in commercio, fa entrare nelle tasche di King un bel po’ di soldi e, per qualche tempo, cade nel dimenticatoio.
Nel frattempo, De Laurentiis contatta lo scrittore per tutt’altri motivi. I due avrebbero collaborato spesso: La Zona Morta, L’Incendiaria e l’esordio dietro la macchina da presa di King sono tutte produzioni De Laurentiis. Durante uno dei tanti incontri tra lo scrittore e il produttore, salta fuori quella vecchia storia, quella sui licantropi, scritta per stare sulle pagine illustrate di un calendario. De Laurentiis chiede a King di buttare giù un soggetto, perché quello era senza alcun dubbio un momento d’oro per i lupi mannari al cinema e il nome di King, da solo, era sufficiente a portare la gente in sala.
E così, King scrive una prima stesura (che sarà poi pubblicata come racconto, col titolo di Cycle of the Werewolf) che viene rimaneggiata un mezzo migliaio di volte e, nell’ottobre del 1984, possono partire le riprese di Silver Bullet. In Italia, appunto, Unico Indizio la Luna Piena.
Il regista designato era una nostra vecchia conoscenza, Don Coscarelli, mentre per curare il costume del licantropo e gli effetti delle trasformazioni, venne chiamato Carlo Rambaldi. Il povero Coscarelli iniziò a girare quando il lupo ancora non era pronto. Diresse molte scene che non prevedevano la presenza del mostro e, quando finalmente Rambaldi presentò la sua creatura, De Laurentiis andò su tutte le furie: diceva che era inguardabile. King e Rambaldi si rifiutarono di apportare i cambiamenti richiesti dalla produzione e Coscarelli, con le riprese bloccate e privo di potere decisionale, abbandonò il set, per venire sostituito da Attias che, con Silver Bullet, avrebbe firmato il suo primo e ultimo lavoro per il grande schermo.
Insomma, la lavorazione fu un vero e proprio disastro.
Il film arrivò in sala poco pubblicizzato, non incassò moltissimo e fu anche sbertucciato dalla critica. Il pubblico invece, all’apparire del lupo mannaro si fece delle grasse risate. Più che un licantropo, sembrava un orsacchiotto. Fortunatamente, la bestia si vede poco, male e solo in un paio di sequenze. Uno dei pochi ad apprezzare il film fu il solito Ebert, che ne premiò l’ironia (col dubbio che però fosse involontaria) e una forte vena nostalgica, tipicamente kinghiana. In alcuni momenti sembra addirittura di assistere alle prove generali di IT. E infatti le scene migliori non sono di sicuro quelle propriamente horror, ma quelle legate alla vita quotidiana del protagonista Marty (Corey Haim), al suo rapporto con la sorella maggiore e con lo zio (Gary Busey).
Unico Indizio la Luna Piena è ambientato alla fine degli anni ’70 in una piccola città del New England, dove si verifica una serie di misteriosi delitti in concomitanza con le notti di plenilunio. Marty è un ragazzino disabile che sospetta la presenza di un lupo mannaro ed è intenzionato a scoprire chi sia il mostro e a sconfiggerlo, soprattutto dopo che per colpa degli omicidi, sono stati cancellati i festeggiamenti del 4 luglio.
A differenza del romanzo da cui è tratto, che per ovvi motivi si svolgeva nell’arco di un anno, il film si concentra su un lasso di tempo più breve: dalla chiusura delle scuole a settembre, per la precisione, ed evita così, in parte, lo schema episodico e ripetitivo del libro. Inoltre, dà molto più spazio all’approfondimento del personaggio di Marty e, soprattutto si inventa Silver Bullet, la sedia a rotelle motorizzata, vero colpo di genio e motivo principale per la persistenza nella memoria di un film altrimenti dimenticabile.
Silver Bullet, Marty, lo zio Red e Jane conquistano lo spettatore e lo portano a seguire una vicenda dalla risoluzione piuttosto scontata e carente nel reparto in cui dovrebbe eccellere, quello horror.
Cycle of the Werewolf, ammettiamolo senza che nessuno si offenda, non è tra le cose migliori scritte dal re. Ed è anche abbastanza logico che non lo sia, se si pensa a com’era nato il progetto. È un raccontino abbastanza anonimo, senza guizzi particolari, con una struttura slasher dove, al posto del maniaco mascherato, c’è un licantropo.
Paradossalmente, il film è molto più complesso e amplia alcune tematiche appena abbozzate nella sua controparte scritta. Queste tematiche portano però impresso il marchio Stephen King a ogni fotogramma e questo perché lo scrittore ebbe un grande potere contrattuale durante la stesura dello script e persino in fase di lavorazione. Bisogna poi aggiungere che, già a partire dagli anni ’80, alcuni elementi tipici della narrativa dello scrittore erano già stati assimilati dal cinema e venivano trasposti in pellicola senza che quasi ci fosse il bisogno di vederli prima su carta. Era il periodo d’oro dell’horror coi bambini, non una faccenda di proprietà del solo King, ma che in un certo senso sarebbe stata codificata ufficialmente dai suoi romanzi successivi, IT in testa a tutti.
E così abbiamo un campionario di personaggi e situazioni estremamente familiari, con cui riesce molto semplice entrare subito in confidenza: la famiglia con genitori assenti, la sorella maggiore in perenne conflitto col fratello più piccolo, ma anche disposta ad ascoltarlo, un mondo adulto rappresentato da un gruppo di bifolchi che frequentano il bar locale e non hanno di meglio da fare se non decidere di far partire le ronde anti-lupo, uno sceriffo messo costantemente in discussione e, in pratica, esautorato dalle sue funzioni e il padre violento e alcolizzato della “fidanzatina” di Marty. A fare da contraltare a questo serraglio c’è però anche l’adulto simpatico, lo zio Red, non proprio un modello educativo, ma l’unico che tratti Marty come una persona normale e non gli faccia sentire il peso della sua disabilità. È anche il costruttore di Silver Bullet e quindi va rispettato a prescindere, oltre ad avere la faccia di Busey, che da sola basta a renderlo degno d’amore.
Come non accade nei ben più cupi universi craveniani, qui gli adulti che compiono il male vengono tutti puniti, dal primo all’ultimo. Il lupo mannaro si accanisce sugli innocenti, ma non risparmia nemmeno le persone più sgradevoli e, quando i bifolchi subiscono il giusto castigo, si inizia anche a tifare un po’ per il licantropo.
Peccato non faccia mai paura, neanche per sbaglio. Fino a quando non lo si vede in scena, il mostro funziona e il film è crudele e spietato quanto basta. Ci sono un paio di omicidi che forse oggi non passerebbero mai, come quello della donna incinta e del bambino. Soprattutto il secondo, tutto fuori campo, con l’aquilone (che è un omaggio a L’Ululato) che svolazza in cielo mentre la sorte del migliore amico di Marty si compie, è girato con classe e suppongo ci sia la mano di Coscarelli, costretto a operare senza il lupo e bravissimo a cavare il massimo dal nulla a sua disposizione.
Però a un certo punto, la bestia deve entrare in campo. E lì cominciano i dolori, perché aveva ragione De Laurentiis: non si può vedere, non nel 1985, quando ben altre trasformazioni e ben altri animatroni avevano già segnato l’immaginario collettivo.
Ciò non toglie che Silver Bullet sia una presenza fissa delle mie estati mal riposte, perché è un film che diverte e intenerisce allo stesso tempo e ha un’anima nostalgica, grazie alla scelta di far raccontare la vicenda dalla voce off della sorella di Marty, che forse è ancora più efficace oggi rispetto a quanto non lo fosse quando ero una bambina e lo vedevo per le prime volte. La distanza del narratore dagli avvenimenti copre tutto con un sottile velo di rimpianto. E viene spontaneo di chiedersi che fine abbiano fatto i personaggi, dopo il confronto con il lupo. Come siano cresciuti, se siano riusciti a crescere, se abbiano dimenticato o ancora siano capaci di ricordare il giorno in cui hanno sparato a un licantropo con un proiettile d’argento.
E poi c’è Corey Haim, idolo adolescenziale dalla carriera e dalla vita sfortunate, che ci ha lasciato poco tempo fa. Ecco, lui a crescere non ci è riuscito. Spero che almeno Marty lo abbia fatto.
Hai pescato un titolo ideale per questa rubrica su Zio Tibia, questo film è veramente un classico della mia infanzia. Bellissimo pezzo, mi hai fatto scoprire delle cose che non sapevo 😉 Cheers!
Ma infatti anni fa te lo beccavi ogni santa estate 😀
È il fisico film che si impreziosisce nel momento in cui scatta l’ elegia del passato. Ci vedrei anche qualche eco spielberghiano tra l’altro…
Sì, è vero: si trattava proprio di una corrente tipica di quel periodo. Se Spielberg l’ha consacrata per l’avventura e la fantascienza, King e altri scrittori l’hanno codificata per l’horror.
“tipico” sorry
Quanti ricordi! Non solo degli amati horror estivi e di quel libretto di King che mostravo in giro come una reliquia, ma anche degli amici di quel tempo, che ho perso di vista come Corey Haim…
Il libretto di King mi confermi che sia oggi praticamente introvabile? Io ce l’ho ancora, ma è uno dei pochissimi libri di King a non essere stati ristampati, vero?
Ora sono fuori casa ed è scomodo consultare i database: in attesa di confermartelo, quel libretto (della TEA se non sbaglio) era una rarità già nei primi ’90 quando lo sfoggiavo con gli aamici kinghiani 😉
Ma non provate nemmeno a guardare la quotazione dell’usato!
Quest’opera minore del re arriva quasi a 400 euri, potifarre….
Pace profonda nell’onda che corre.
Mi rimane il dubbio cosa avrebbe fatto Coscarelli,mi sembra di aver letto che il lupo era interpretato da un ballerino per la camminata ,di Rambaldi mi piace troppo il goblins che realizzò Nell’occhio del gatto,se ci fate caso molti ragazzi attori dell’epoca hanno avuto esistenze segnate,Corey Feldman,River Phoenix,Drew Barrymore.
Mi ricordo anche In compagnia dei lupi di Frears(Byzantium),dell’anno prima e mi sembra che ci fosse un licantropo anche in Waxwork.
Tenetevi strette le vostre copie del romanzo soprattutto l’edizione Longanesi, che nel circuito dell’usato è venduta a peso d’oro.
Stranamente pur riconoscendone migliaia di difetti sono affezionatissimo a questo film, se non altro perché mi ricorda le lunghe e calde serate estive passate con miei cugini davanti alla TV nella febbrile attesa dell’ennesimo film presentato da Zio Tibia. 🙂
Paradossalmente, trattandosi di lupo mannaro, l’unica cosa che davvero ricordo poco di Silver Bullet è quel poco di mostro in bella vista (se si esclude l’onirica sequenza licantropica collettiva in chiesa), forse proprio perché non così orribile come avrebbe dovuto essere… Nota stonata, in questo piccolo classico venato di nostalgia che per il resto funziona a dovere. E la mano iniziale di Coscarelli deve aver contribuito più di quella dell’anonimo Attias…
Effetto nostalgia, a partire da zio Tibia…
Il licantropo non me lo ricordo però il film era piacevolissimo da guardare… sarà un decennio e passa che non lo rivedo…
bellissimo questo ciclo zio tibia 2015! ma quest’anno niente notte horror 2015 special blog edition? 😦
Pensare che avevo 12 anni e mi fece una strizza assurda. Vorrei rivedermelo adesso ma non sono poi così sicuro, visto che alcuni film rivisti a distanza di tanti anni mi hanno piazzato una patina sgradevole sui ricordi precedenti. Poi ci si lamenta dei remake, a me invece fanno più effetto queste verifiche.