Eccoci di nuovo all’appuntamento mensile con i film da evitare accuratamente se volete mantenere la vostra sanità mentale e non rischiare di ridurvi come me, che assisto a certa roba e non mi capacito di come sia possibile che esista, che qualcuno l’abbia finanziata dopo aver letto le sceneggiature, nonché approvata nelle varie fasi della lavorazione. Poi ci rifletto due secondi e mi ricordo che, una volta messo in moto, un film è un processo irreversibile. Magari sulla carta non era sembrato così male. Durante le riprese, i sospetti che si stesse per partorire una cagata hanno cominciato a serpeggiare in produzione, ma ormai si erano già spesi dei soldi. E tanto valeva montarlo, il film, a meno che non si volessero buttare ore di girato, di lavoro e di quattrini.
Al montaggio l’entità della catastrofe diventa evidente a tutti. Solo che a quel punto non si può più tornare indietro.
Va a finire che il film, completato e messo in circolazione, risulta peggiore di ogni aspettativa. Però si può ancora provare a venderlo, facendo leva su un paio di nomi di richiamo, sperando che qualche festival se lo accatti, scongiurando un distributore di farlo apparire di sfuggita almeno per una settimana in una sala di provincia.
Oppure il prodotto resta bloccato per due anni, prima di vedere la luce. E te lo ritrovi sul groppone nel 2014, proprio mentre ti stai chiedendo che diavolo di fine abbia fatto un certo regista, giovane promessa esordiente nel 2008.
Parliamo di Bryan Bertino, autore di The Strangers, home invasion a mio parere formidabile e rovinato in parte da un finale imposto e non all’altezza, ma ben diretto e con qualche intuizione fulminante.
Mockingbirg, il suo secondo film, è stato girato nel 2012 e poi è sparito dai radar di tutti per riemergere alla fine dell’anno scorso. Ed era meglio se fosse rimasto sommerso.
Bertino torna sullo stesso terreno del suo fortunato esordio: la violazione dell’intimità della nostra vita domestica. Questa volta, però, non ci sono sconosciuti mascherati che godono nel torturare due poveri cristi solo perché si trovavano in casa. Questa volta Bertino si gioca la carta found footage, con un’impennata di originalità che levati. Ma, essendo lui un cineasta serio e strutturato, cosa ti combina? Divide il film in capitoli, denunciandone immediatamente la natura di pura finzione. E ammazzando così la credulità dello spettatore, già messa a dura prova da tutti i problemi endemici al genere dei filmati ritrovati. Come, per esempio, le batterie eterne delle telecamere.
A tre sconosciuti, in tre luoghi diversi di una città, vengono recapitate in casa tre telecamere, con allegate delle istruzioni su come comportarsi in quello che appare come un innocuo concorso a premi. La cosa principale da fare è non smettere mai di riprendere, qualunque cosa accada. Dopo il divertimento iniziale, la faccenda comincia a prendere una piega sinistra. Seguono un’ora e spicci di zoomate, panoramiche a schiaffo e jump scares da manuale del found footage da discount che non fanno altro se non confermare quanto il genere sia morto, sepolto, collassato e spremuto fino all’ultima goccia del (poco) sangue che aveva in corpo già alla fine degli anni ’90. No, ci voleva Bertino, davvero. Ne sentivamo tutti un disperato bisogno. C’è qualche timido sussulto di dignità nella sequenza finale, ambientata in un incubo di palloncini rossi che potrebbe pure essere efficace, se solo fosse girato in maniera tradizionale. Ma così, armatevi di farmaci contro la nausea e di infinita pazienza.
Quando parlo di non sapersi fermare in tempo, è proprio a roba come Lemon Tree Passage che mi riferisco. La sceneggiatura, di base, non doveva essere troppo promettente. Ma il regista e co-sceneggiatore David Campbell, il film se lo è anche prodotto e montato. Fallendo in tutti e quattro i dipartimenti. Anche gli australiani ogni tanto combinano qualche fesseria.
Qui non è ben chiaro se Campbell avesse in mente di raccontare il classico film sulle leggende urbane, una ghost story, uno slasher o un rape & revenge dall’oltretomba.
Il tratto di strada che dà il titolo al film esiste veramente ed è veramente famoso come teatro dell’infestazione di un motociclista fantasma. Quando qualcuno percorre a velocità elevata il Lemon Tree Passage, una luce che sembra il faro di una moto gli appare alle spalle, quasi a volergli intimare di rallentare.
Su questa base molto scarna, Campbell costruisce una storia molto confusa, dove i soliti turisti americani incontrano in spiaggia dei loro coetanei del luogo e, per provare il brivido del soprannaturale, non hanno di meglio da fare che mettersi a correre come matti con la macchina lungo la strada maledetta. Che è sì infestata, ma non si capisce bene da chi e perché. I nostri si perdono nel bosco, recitando come pastori maremmani, e vengono fatti secchi uno a uno in uno schema risaputo. Le dinamiche dei fatti sono gestite un po’ alla come capita, lo svelamento del mistero avviene tramite una serie di flashback illuminati con i colori di un videoclip dell’85 o giù di lì e montati in maniera tale da non permettere la minima comprensione delle azioni. Al regista, il tutto deve essere parso molto avanguardista. Come bonus, metteteci anche una colonna sonora fatta da canzoncine pop così orrende che avrei preferito ficcarmi un punteruolo nelle orecchie, e avrete servito il disastro. L’unica nota positiva è che il film dura poco.
Rimanendo nell’ambito delle vendette, vi segnalo di starvene a qualche centinaio di chilometri di distanza da questo torture porn da sorority house uscito con quella decina di anni di ritardo sulla tabella di marcia del cinema horror. Gavin Michael Booth è un altro che fa tutto da solo: scrive, dirige, produce, monta e fa pure l’operatore di macchina, nonché il direttore della fotografia della seconda unità. E già qui sorge un punto di domanda grande quanto una portaerei sulla necessità di una seconda unità in un film come The Scarehouse, in cui è superflua anche la prima, di unità.
Non pago di non avere nessuno che gli dica: “Guarda, giovanotto, stai facendo una cazzata”, Booth offre alla moglie il ruolo da protagonista. Parlavamo di pastori maremmani giusto qualche riga fa… Non che il resto del cast si comporti in maniera migliore. Diciamo che è tutto piuttosto livellato verso il fondo del barile. Già raschiato.
Come nel caro e molto amato The House on Sorority Row, anche qui abbiamo un scherzo che va a finire molto male: durante un rito di iniziazione, qualcuno ci rimette la pelle e la colpa va tutta alle due novizie. Le ragazze passano qualche anno in galera, escono per buona condotta e organizzano la loro vendetta. Costruiscono una specie di labirinto degli orrori (la scarehouse del titolo) e organizzano un party esclusivo per Halloween, a cui si recano solo i più fighi del college, tra cui anche le loro ex amiche, che verranno massacrate. A parte la pesantissima macchinosità della trama (con sei o settecento problemi insoluti di verosimiglianza), mi è capitato poche volte di vedere un film più offensivo di questo. Credevo che dipingere ogni donna come una minorata mentale, nel migliore dei casi, e nel peggiore come una perfida virago incapace di concepire un rapporto umano diverso da quello basato su perverse dinamiche di potere e sudditanza psicologica, fosse passato di moda all’incirca nel 2003. Ma mi sbagliavo. Non so voi, ma io all’irresistibile gioco di parole “the final cunt – down”, ho sentito un brivido di ribrezzo lungo la schiena, neanche avessi trovato una scolopendra viva nell’insalata.
Il peggio ce lo lasciamo sempre per ultimo. E qui tocca di nuovo smerdare un po’ Alexandre Aja, che in questo caso produce il primo film da regista del suo amichetto Grégory Levasseur, già sceneggiatore del remake di Maniac. E poteva tranquillamente continuare a scrivere buoni copioni horror, invece di esordire in zona imbarazzo estremo.
The Pyramid è un film incomprensibile. Non perché sia complicato, ma perché non si capisce cosa voglia essere, se un found footage (e tutta la prima parte fa pensare a questo) o un film girato in maniera tradizionale. Levasseur, in dubbio sullo stile da scegliere, li usa un po’ tutti a casaccio. E infatti fa scendere i suoi protagonisti nella piramide del titolo armati di telecamere (c’è anche un robot della NASA) ma poi aggiunge punti di vista oggettivi ingiustificati, messi lì a cazzo perché sì, tanto la coerenza grammaticale quando mai ha avuto importanza.
La storia poi (Levasseur non ne è responsabile) è da fucilazione immediata: un gruppo di archeologi scopre una nuova piramide, ma rischia di non poter entrare a vedere cosa ci sia dentro, in quanto i disordini in Egitto portano alla chiusura del sito archeologico sino a nuovo ordine. Allora i protagonisti, furbissimi, si introducono di nascosto nella struttura, senza avvisare nessuno. E una volta lì sotto, chi trovano? I gatti sfinge cannibali e Anubi in persona. Entrambi i fenomeni si presentano in pessima CGI e Anubi è una faccenda che sfiora l’incredibile. Un cagnone bipede realizzato con una computer grafica che fa sembrare gli squali della Asylum delle opere d’arte. Vedere per credere. Anzi no, non vedete. Credetemi sulla parola. Oppure leggete la recensione più approfondita de La Bara Volante.
Anche per questo mese, la pratica delle porcherie è sbrigata. Se mi volete bene, evitate questa rumenta. Non rendete vano il mio sacrificio per voi. Alla prossima.
Comunque , da amante dei cagnolini ( e cagnoloni ..) , i pastori maremmani non recitano tanto male , dovresti vedere i pechinesi , sempre la stessa espressione … ohibò….
Ma in questi film diciamo che ogni razza canina è degnamente rappresentata. Qualche pechinese di passaggio c’è 😀
Lemon Tree Passage è inguardabile, Mockingbirg purtroppo ho finito di vederlo ieri (con gran fatica), The Pyramid è una barzelletta, invece The Scarehouse, ok hai ragione, è in ritardo sulla tabella di marcia rispetto al Torture Porn, però io ci ho visto (e forse solo io) un attacco a tutti i clichè dei personaggi femminili negli Horror, lo anche commentato sul mio blog, è ripetitivo ma secondo me ha dei numeri, pochi ma ne ha 😉
Non saprei… a me più che un attacco mi è parso un adagiarsi su quei cliché. Ma quello dipende dall’interpretazione che ognuno di noi riesce a darne. Certo, girato meglio e meno macchinoso, forse sarei anche riuscita a reggerlo…
0 su 4 , per fortuna ancora non ci sono incappato…
Mantieni inalterato il bilancio!
La Piramide é imbarazzante con Anubi
realizzato con colla e plastilina. Gli altri mi mancano e credo continueró nella mia beata ignoranza
A volte l’ignoranza è una gran fortuna 😀
The Strangers mi aveva terrorizzata perché era davvero bastardo ma il finale non lo ricordo, ho rimosso inconsciamente. E spero di rimuovere presto anche il gioco di parole cunt-down, davanti al quale mi levo il cappello, roba che neanche Colorado Café, signora mia.
Comunque di tutta questa zozzeria conoscevo per sentito dire solo The Piramid, di cui avete parlato tutti malissimo. E siccome si manca di rispetto ai felini credo proprio gli starò lontano chilometri!
Il gioco di parole è roba proprio d’alta classe, eh?
A certa gente bisognerebbe proibire di mettere le manine su una tastiera 😀
The Pyramid ho visto il trailer, in quella bella giornata in cui si cazzeggiava su youtube per cercare filmetti graziosi e in effetti faceva alquanto schifo. Poi, come ben sai, ho pescato Tusk. Non serve aggiungere altro.
Ti ringrazio per questo ennesimo elenco di sterco da evitare cordialmente. 😀
D’ora in poi, stai sintonizzata fissa sulle porcherie. Che non ti debba ricapitare un altro Tusk
Grazie anche questa volta, eviterò il tutto senza pensarci più 😀 Perché qualche rischio l’ho corso, seppur minimo, visto che il mio istinto mi dicevaa sì di star lontano dai primi tre – e quel cunt-down poi, roba di una finezza senza pari 😦 – ma non dall’ultimo, per via del tema trattato… anche se, in effetti, qualche resistenza dovuta al rischio di trovarmi di fronte all’ennesimo found footage (magari pure “ibridato” non a meraviglia con riprese classiche da film) mi aveva frenato. E meno male allora, vista la merdaccia che ne è venuta fuori.