Candy Land

Regia – John Swab (2022)

Non so a voi, ma il tipo di assassino che mi spaventa di più è quello religioso, perché con il fanatismo non puoi venirci a patti, non ci puoi ragionare, non esiste alcun tipo di comunicazione o mediazione. Oltre a farmi paura, i maniaci di Dio non suscitano in me un briciolo di pietà o desiderio di compiere il minimo sindacale di sforzo per comprenderne le motivazioni. Non li trovo affascinanti come potrei trovare affascinante un classico killer da slasher. Mi disgustano, mi intristiscono, mi mettono addosso un senso di squallore e di miseria morale assoluti. Insomma, se mi volete mettere seriamente a disagio, datemi un film con un omicida religioso e state certi di ottenere l’effetto sperato.
Ciò premesso, Candy Land è un graditissimo ritorno all’exploitation più pura, un film che potrebbe essere messo in una eventuale double feature con X di Ti West e nemmeno sfigurerebbe troppo, un film pieno di sesso, di oscenità, di nudità; sleazy nel senso più pieno del termine, ovvero sordido e abietto. Di conseguenza l’ho amato moltissimo. E mi ha messa a disagio per la presenza di un assassino fanatico religioso che uccide sex worker in quanto peccatrici e peccatori che vanno purificati in vista di una futura palingenesi che spazzi via tutto il male da questo mondo e bla bla bla bla. 

 

Candy Land è il nome in codice di un’uscita autostradale, da qualche parte nel Montana, che comprende una stazione di servizio, un motel e un grosso parcheggio. Lì vive un gruppo di cosiddetti lot lizards, ovvero sex worker dalla clientela formata essenzialmente da camionisti. Il film comincia mostrandoci la giornata tipo di questi personaggi a cui riesce molto facile affezionarsi, perché legati da rapporti di amicizia e sostegno reciproco. Insomma, le ragazze (e il ragazzo, Levi, interpretato dal prezzemolino dell’horror indipendente Owen Campbell) si prendono cura le une delle altre, si aiutano, si vogliono bene. Ogni tanto passano per la stazione di servizio i membri di una setta cristiana che vorrebbero convertirle, ma loro rispondono a pernacchie, com’è giusto che sia. Un bel giorno, capita a Candy Land una giovane donna, Remy (l’amatissima Olivia Luccardi), che pare essere in fuga proprio dalla setta religiosa di cui sopra. I lot lizards la prendono sotto la loro protezione, le danno un posto in cui stare, la accolgono come una di loro, ma la tranquilla, per quanto poco convenzionale, routine di Candy Land è turbata da una serie di omicidi, e cominciano i guai. 

Parrebbe la trama di un mistery o di un whodunit ambientato nel mondo del sex working, ma in realtà Candy Land è uno slasher in piena regola: l’identità dell’assassino viene fuori al secondo omicidio e non c’è alcuna trama investigativa. In parte è una sorta di bozzetto su un microcosmo sconosciuto ai più (il film è ambientato negli anni ’90), in parte è, appunto, pura exploitation vietata ai minori, in parte è un interessante studio su dei personaggi che vengono approfonditi con un affetto e una partecipazione rare in film di questo tipo. A supportare il giovane cast ci sono due vecchie glorie come William Baldwin nel ruolo dello sceriffo locale con una cotta per Levi e Guinevere Turner che interpreta colei che gestisce tutti gli affari a Candy Land. 
Ora, non credo di fare rivelazioni sconcertanti dicendovi subito chi è l’autore degli omicidi, però se non volete rovinarvi una “sorpresa” che arriva dopo circa mezz’ora, non proseguite nella lettura e occhio agli spoiler

C’è un’idea narrativa forte, alla base di Candy Land, ovvero l’inversione della dinamica vittima/carnefice: Remy non è infatti, come crediamo quando la ragazza approda alla stazione di servizio, la vittima del suo culto, e nemmeno una giovane donna traviata dal decadimento morale in cui finisce dopo essere sfuggita alla setta; Remy è l’assassina, una versione molto subdola dell’infiltrata, una serpe in seno che le ragazze della stazione di servizio lasciano entrare perché percepita come innocua, come una vittima, appunto, come una di loro, cacciata dalla propria famiglia, smarrita, senza un posto dove andare, in cerca di un nucleo familiare putativo. Anzi, i suoi accoliti l’hanno allontanata perché troppo estremista, perché ha interpretato in senso violento il concetto di “purificazione”, perché è convinta che la sua missione, dettata da Dio, sia quella di sterminare i peccatori. 
Remy è la protagonista e anche la villain del film, che si insinua in questo gruppo molto unito facendo leva sulla bontà di fondo delle persone che lo compongono e la loro disponibilità ad accogliere e prendersi cura. 

Di conseguenza, dopo un’inizio quasi da giallo, Candy Land si trasforma in uno slasher in cui la killer con la faccia da angioletto di Olivia Luccardi, in nome di una morale della quale si presenta come unica portavoce e detentrice, distrugge sistematicamente la rete di protezione di un insieme di persone che non hanno niente altro, togliendo quindi loro gli unici punti di riferimento a disposizione. La vita dei nostri lot lizards è infatti descritta in maniera molto onesta e brutale, come del resto la fauna di disperati che passa per l’uscita autostradale dove lavorano. Qui, se avete intenzione di vedere il film, è mio dovere piazzarvi un bel TW per stupro e, in generale, tutta una serie di aggressioni sessuali in varie forme. Dopotutto, parliamo di ragazze (e un ragazzo) alla mercé di chiunque si trovi a passare di lì, parliamo di uno sceriffo corrotto, parliamo di un’umanità che, quando va bene, è descritta usando tutti i toni di grigio possibili; quando va male, sprofonda nel nero assoluto.
L’ancora di salvezza è rappresentata, appunto, dal supporto delle altre lizards. E infatti, quando Remy comincia fa fuori un viscido prete prima, e un camionista poi, quasi quasi ci sentiamo di perdonarla, ma alla prima coltellata inferta a una delle sex worker, ecco che la sua natura mostruosa viene fuori sul serio. 

Forse ancora meglio di X (che resta un film superiore in ogni reparto, sia chiaro) Candy Land riesce ad affrontare con coraggio e un certo candore il rapporto tra sessualità, violenza, consenso, gestione del proprio corpo e sfruttamento. È un film curioso, che potrebbe essere stato benissimo girato negli anni ’70, per la libertà con cui si aggira su questo terreno minato e per l’ambiguità dei suoi personaggi e delle conclusioni cui arriva. Io ve lo consiglio senza pensarci due volte, anche perché, in un cinema americano che è sempre più casto ed elimina l’erotismo alla radice (senza arrivare alla Marvel, basta pensare all’ultimo Hellraiser), un po’ di sana exploitation è rigenerante. E tuttavia, maneggiatelo sempre a vostro rischio e pericolo perché i contenuti sono esplosivi. Vi ho avvisati. 

3 commenti

  1. alessio · ·

    La serrata dei benzinai, l’aumento dei pedaggi autostradali. Remy la purificatrice. Sono tempi duri per i camionisti. Candy Land (candy nello slang anglofono è un eufemismo per sesso), le terra del sesso dunque per John Swab è l’ennesimo inciampo di questo generoso autore del vorrei ma non posso, o meglio, del vorrei ma non riesco: a partire dal più datato (2016) Let Me Make You a Martyr ai più recenti e riusciti Run with the Hunted e Ida Red l’universo tematico che sta a cuore al regista di Tulsa è la società dei reietti, quella che vive ai margini; la stessa che da tre decadi spinge Sean Baker a dirigere magistralmente. Infatti il cinquantenne regista indipendente di Florida Project possiede una sensibilità e un talento fuori dal comune, una pennellata leggera nel raccontare che è levità e mai banalità, banalità – quest’ultima – che a Swab purtroppo, pur con tutto l’impegno, quasi mai difetta. In entrambi gli autori abbiamo il tema della mercificazione del sesso, ad esempio. Ma si prenda proprio Florida Project (2017), sebbene qui siamo di fronte un dramedy e non a uno slasher con tutto quel che può comportare la grammatica visiva, la mercificazione mostrata da Baker – a differenza di Swab – mai si sogna di scadere in un voyerismo fine a se stesso (in Candy Land già dopo qualche minuto assistiamo a un paio di nudi: il primo sbattutoci là davanti e provocatorio ma con una sua precisa ragione che si può leggere come manifesto di libertà e indipendenza… peccato però che subito dopo assistiamo, come da dietro al buco di una serratura, alla doccia di Sam Quartin – attrice feticcio di Swab – che ci svela il suo bel corpo senza nessuna pretesa estetica o diegetica se non scopofila: che cosa ci voleva dire Swab? Ecco la mercanzia?). Il pregio in Candy Land (perché ne ha) è che i sex workers di Swab non si piangono e non ci piangono addosso, non c’è vittimismo né pietismo; Sadie, Levi e gli altri sono ragazzi sbandati ma non persi e vivono la giornata come tutti noi, anzi forse dentro una comunità più disponibile e solidale di quella che siamo abituati a conoscere e non molto dissimile da quella che si muove tra le stanze e la piscina del motel a Kissimmee alle porte del Disneyworld dove vive la madre single Halley con la propria bambina. Solo – anche qui – si guardi a come Baker riesca a mostrarci il dramma attraverso la scelta di una confezione estetica fatta di pennellate pop: una vernice che non nasconde ma anzi sottolinea – per contrasto – quella sottostante dimensione dolorosa. Per contro Swab si accontenta di qualche scelta registica come lo split screen, il risultato alla fine è solo una leggerezza di facciata e posticcia. Così anche i protagonisti finiscono per essere falsi, poco più che abbozzati (a parte Levi, forse) e Candy Land si perde alla fine per strada come ogni film di Swab che senza scegliere una direzione ne abbozza diverse lasciandoci un senso di incompiuto, nel complesso. Anche il tema millenarista della famiglia di Remy resta un pretesto di secondo piano e negli occhi ci rimangono vivi solo gli omicidi di questa solitaria invasata di Remy che non risparmia la vita a nessuno se non al solo che avrebbe meritato di morire. Ma forse è giusto così: l’inferno si sconta vivendo.

  2. Recupero anche questo

  3. FabioRiguardo · ·

    Accidenti, e questo dove l’hai trovato?