
Regia – George A. Romero (1985)
Dopo la bellezza di 10 anni finalmente ci siamo: si parla de Il Giorno degli Zombi su Ilgiornodeglizombi e, per quanto autoreferenziale, doveva accadere, prima o poi. Succede ora perché tecnicamente si tratta di un sequel e perché oggi, 16 luglio 2021, sono passati quattro anni da quando Romero ci ha lasciati: mi sembrava giusto, dato il tema del Ciclo Zia Tibia di questa estate, tentare di tributargli un piccolo omaggio, parlando di quello che è (non credo sia un mistero per nessuno) il mio horror preferito. O forse, ancora meglio, perché “horror preferito” è un modo di vedere la faccenda abbastanza infantile: Day of the Dead è un contenitore di tutti i motivi per cui amo il cinema dell’orrore. E sì, secondo me è persino superiore a Dawn of the Dead per come riesce a esprimere al massimo le potenzialità del genere.
È un film complesso, molto ambizioso, e sulla carta doveva essere ancora più complesso e ambizioso, ma all’ultimo momento la produzione decise di dimezzare il budget e Romero dovette riscrivere la sceneggiatura per adeguarla ai 3 milioni e mezzo di dollari che aveva a disposizione. Ciò tuttavia non è stato necessariamente un male: Il Giorno degli Zombi funziona soprattutto perché è confinato in uno spazio ristretto e con pochi personaggi, perché lo sviluppo della vicenda è affidato ai dialoghi in cui i protagonisti offrono allo spettatore la loro visione del mondo; infine perché, esclusi sporadici momenti di frenesia e orrore, l’azione vera e propria si concentra negli ultimi 20 minuti, e il resto del film è una lunga meditazione su quanto siamo bravi noi esseri umani a fotterci da soli.
Day of the Dead è un’opera radicale ed estrema, lo è sia nel pensiero che esprime che nella messa in scena di una violenza che, neppure ai tempi de L’Alba, era mai stata così esplicita e insistita. Romero lo gira a 45 anni, a dimostrazione del fatto che invecchiare o maturare (usate il termine che preferite) non deve necessariamente essere sinonimo di pacificazione, anzi. Si tratta di sicuro del film più arrabbiato di Romero. Non cinico o disincantato (Carpenter è più così), ma proprio furioso. Comunica tutto lo strazio di chi ci vorrebbe tanto credere, a un un’umanità diversa, ma ovunque si giri, vede soltanto desolazione.
Non credo sia un caso che il film sia uscito in piena era reaganiana: se a Romero le figure autoritarie non sono mai piaciute, qui il potere, quello vero, è un colosso dalle connotazioni kafkiane che ha chiuso e poi abbandonato uno sparuto gruppo di sopravvissuti in una struttura sotterranea, con il vago e fumoso compito di trovare una cura all’epidemia oramai dilagante.
I personaggi agiscono all’interno di un apparente vuoto di potere, è vero: i militari eseguono degli ordini non meglio specificati, gli scienziati vogliono portare a termine la loro missione, ma chi li ha messi lì non ha un volto e non ha un nome. L’impressione è che, come gli zombie nel centro commerciale di Dawn of the Dead, questi personaggi procedano, da vivi, con gli stessi automatismi, rispettando dei ruoli che hanno cessato di avere un senso. Ma, se non altro, gli scienziati hanno almeno delle motivazioni forti, anche nobili, se vogliamo: persino il dottor Logan, detto dottor Frankenstein, agisce perché convinto di aver trovato l’unica soluzione possibile.
Non ha torto, in effetti, forse ha anche più ragione della protagonista Sarah (Lori Cardille), perché ha capito che tornare indietro non si può e tutto ciò che ci resta è poterci adattare a delle nuove condizioni.
I militari, al contrario, vivono seguendo un codice obsoleto, non sanno guardare oltre la loro rigida struttura gerarchica, il loro stolido machismo e il razzismo da parata.
Parlando di Sarah, che per la vostra affezionatissima è il roling model della vita (non scherzo: ho passato metà dei miei anni a voler essere come lei), bisognerebbe tracciare una storia alternativa del cinema di Romero a partire dai suoi personaggi femminili. Non abbiamo tempo di farlo ora, ma un paio di cose possiamo dirle: il regista, a partire da La Notte dei Morti Viventi, ha sempre duellato con il concetto oggi noto come mascolinità tossica. Se pensate alle principali linee di conflitto dei primi due film della trilogia, vi renderete conto che si attestano tutte sullo scontro frontale tra maschi che devono stabilire il proprio potere gli uni sugli altri. Nel primo film, la protagonista femminile, Barbara, è quasi catatonica per l’intera durata; nel secondo Francine ha già più agenda e personalità, ma è soltanto qui che, finalmente, abbiamo una donna a rappresentare il punto di vista principale attraverso cui guardiamo lo svolgersi dei fatti sullo schermo.
“He could’ve made me this sexy little twit bouncing around with a gun:- much more the sexual element. But he made her intelligent and strong. In fact, whenever I would try and make her a little more emotional, he would not allow me to do that.”, queste sono le parole di Cardille a proposito delle riprese di Day of the Dead.
Sarah è costretta dalle circostanze a operare in un ambiente in cui nessuno è disposto a darle credito, a partire dall’uomo con cui ha una relazione, che la incolpa di metterlo in cattiva luce di fronte agli altri soldati, soltanto perché è molto più forte di lui e, in questo modo, porta alla luce le sue debolezze, ne mette in discussione la mascolinità, cosa che porta il resto del gruppo a ridere di lui.
Il conflitto tra Sarah e i militari è insanabile e anche perso in partenza, dato che il monopolio della forza ce l’hanno loro. E tuttavia Sarah non si tira mai indietro quando si tratta di far sentire la voce della ragione, che purtroppo resta inascoltata. Ma attenzione, però: Sarah è il personaggio più in luce del film, quella in cui riponiamo le nostre speranze, e tuttavia il conflitto con i militari non è il solo terreno di scontro. Ce n’è uno ulteriore, e forse più interessante perché soltanto dialettico e all’insegna del rispetto reciproco, con il pilota di elicotteri John (Terry Alexander). In questa circostanza, Romero ci mette di fronte a due visioni diverse di un ipotetico futuro, con Sarah che, in un certo senso, vorrebbe ripristinare lo status quo perduto trovando una cura, e John che, al contrario, vorrebbe azzerare tutto e ripartire da zero. Romero non si schiera apertamente, ma è logico che il finale ci porti nella direzione auspicata da John, com’è però certo che questa direzione equivalga a una sconfitta, a una vita che si riduce solo a segnare un altro giorno sul calendario.
Perché, dopotutto, il futuro sono loro, sono gli zombie, soprattutto ora che, con Bub, hanno acquisito una coscienza oserei dire di classe e hanno superato di gran lunga i vivi nei numeri. L’isola dove si rifugiano Sarah, John e McDermott non è l’ultimo avamposto dell’umanità, è un luogo tranquillo dove andarsi a estinguere senza fare troppo rumore e senza causare ulteriori danni.
Esiste un’alternativa a questo finale così terribile?
Certo, esisterebbe, ci dice Romero, se le persone chiuse nel bunker avessero scelto di comunicare invece di farsi la guerra. L’alternativa è l’atteggiamento sempre critico, lucido e razionale di Sarah, è il suo sguardo umano che mitiga (o almeno ci prova) gli eccessi del professor Logan, la sua pietas che la spinge a prendersi cura di tutti.
L’alternativa è Bub, e sempre di comunicazione si tratta; è avere la pazienza di capire queste creature, aspettare che loro capiscano noi.
Vi siete mai chiesti cosa sarebbe accaduto se Rhodes avesse risposto al saluto militare di Bub?
Cercando di sintetizzare al massimo un’opera troppo densa per essere trattata nello spazio di un post, alla fine Il Giorno degli Zombi è, per citare lo stesso Romero, “una tragedia su come la mancanza di comunicazione porta al caos e al collasso, anche in questa piccola porzione di società”.
Ci servirebbe proprio, in questo periodo così strano e convulso, qualcuno con la capacità di analisi di Romero, qualcuno con la sua rabbia indirizzata nel modo giusto.
Purtroppo non ce l’abbiamo. Possiamo solo rivedere i suoi film all’infinito e imparare ogni volta qualcosa di nuovo.
Che meraviglia, amica, che meraviglia. Ho le lacrime a leggere il post. Credo che, se potesse, Romero ti abbraccerebbe.
Grazie, amica ❤
Lui manca molto.
Sì. E sono recensioni come questa tua che ce lo fanno sentire ancora vicino ❤
Bellissima recensione complimenti.
Adoro questo film come tutti i lavori del grande Romero.
Sono d’ accordo su tutto ciò che hai scritto,
Il prete in Zombi diceva” bisogna smettere di uccidere , altrimenti si perde la guerra”.
“Non cinico o disincantato (Carpenter è più così), ma proprio furioso.”
In una riga hai colto l’essenza dei due registi.
Visto che per coincidenza hai celebrato il 40ennale di Escape from NY…Cosa fa Snake nel finale?
(e anche nel sequel). Uno sberleffo. Sono irriducibile, quindi ti rido in faccia. Altro non posso fare.
Romero è inferocito perchè non riesce a mandare giù quello che l’umanità fa a se stessa.
Forse arrivare a un’isola ed estinguersi è il meglio che si possa fare per il pianeta.
O forse è meglio che Bub prenda coscienza. I Bub non possono fare PEGGIO dei vivi.
Due splendide recensioni/riflessioni comunque. Entrambe molto pudiche nell’affrontare la materia (ti adoro quando sei sguaiata, soprattutto nelle stroncature. Anche se capisco che leggere una stroncatura è un piacere infantile, e suppongo pure scriverla -ma ho riso fino alle lacrime sulla tua recensione di Antichrist…era tutto vero).
Quando ti confronti con queste opere per le quali hai un giustificato timore reverenziale fai quello che faccio io quando vado a soccorrere infortunati in grotta, come mi ha insegnato la mia medica del soccorso speleo: fai 5 passi indietro e prenditi 30 secondi per analizzare la situazione ambientale.
Ecco.