Regia – Frank Darabont (1999)
Prima di Flanagan c’era Darabont, e prima di lui, Reiner: sono quei registi che siamo abituati a considerare i più kinghiani tra tutti, anche più dello stesso Garris, e per motivi che, se seguite questa rubrica dall’inizio, oramai dovreste conoscere a memoria. Per farla breve, il regista kinghiano è quello in grado di prendere dai romanzi dello scrittore ciò che è utile a un buon racconto per immagini, senza snaturarli o tradirli troppo, sono quelli capaci di trovare un equilibrio, anche se precario, tra il rispetto per la fonte letteraria e le esigenze del mezzo cinematografico; questo rispetto non diventa mai acquiescente venerazione, mentre le esigenze non superano mai il confine dell’iconoclastia d’autore. È una faccenda delicata essere registi kinghiani, soprattutto al giorno d’oggi. Forse Flanagan ha portato a termine l’impresa più complicata, ovvero trovare persino una sintesi soddisfacente con Kubrick, ma Il Miglio Verde non era affatto un libro semplice da adattare. Per niente.
Dopo il successo di The Shawshank Redemption, era quasi naturale affidare a Darabont anche Il Miglio Verde, quasi un film carcerario valesse l’altro. Il problema è che Il Miglio Verde è concettualmente antitetico rispetto alla novella sulla faticosa conquista della libertà da parte di Andy Dufresne. In entrambi i casi, abbiamo un uomo innocente che finisce in galera, ma le conclusioni cui giungono le due storie non potrebbero essere più distanti: The Shawshank Redemption parla, sintetizzando al massimo, di come la speranza sopravviva anche in un luogo orribile come una prigione; ne Il Miglio Verde, la speranza viene erosa pagina dopo pagina e alla fine non resta nulla a cui aggrapparsi se non la prospettiva atroce di dover scontare con una vita lunghissima il peccato di aver mandato a morte un miracolo in carne e ossa.
Per questo motivo, e nonostante Paul Edgecombe, il direttore del braccio della morte interpretato da Tom Hanks, sia una brava persona, Il Miglio Verde è un libro dove non c’è ombra di redenzione, parola al contrario presente in The Shawshank Redemption sin dal titolo.
Darabont avrebbe potuto, come Hollywood è spesso solita fare, indorare la pillola. In un certo senso, ha addolcito alcuni aspetti, tipo l’incidente in cui muore la moglie di Paul, ma si tratta di dettagli di poco conto, perché il messaggio arriva forte e chiaro. Il regista si è preso una sola libertà macroscopica rispetto al romanzo, per cui ha anche spostato di un paio di anni avanti nel tempo l’ambientazione (dal ’32 al ’35), e ne parleremo a breve. Ciò che conta, ora, è che Il Miglio Verde è un film crudo e durissimo, presentato però con il filtro del realismo magico che infonde una sorta di tenerezza anche alle sezioni più amare da digerire (tranne forse una). Bisogna capire, tuttavia, che si tratta di un trucco: la musica soave, il volto rassicurante di Tom Hanks, il groppo in gola che sale in più di una sequenza, sono accessori, orpelli, ninnoli per nascondere il cuore nero della vicenda.
Cuore nero rappresentato dalla sequenza della morte di Delacroix, bruciato vivo su Old Sparky, la sedia elettrica del Blocco E.
È singolare, perché Il Miglio Verde non è un horror: credo sia la scena più paurosa di tutta la filmografia kinghiana, senza essere poi particolarmente esplicita come invece è nel romanzo. Non esiste un corrispettivo così crudele neppure in altri esempi di cinema carcerario, figuriamoci in quel confettino che è The Shawshank Redemption. Forse è anche per questo che Il Miglio Verde, pur avendo incassato molto bene ai tempi, non ha riscosso lo stesso apprezzamento, e quando si intavola una discussione sugli adattamenti da King più riusciti, viene menzionato di rado. Ci sarà pure un dolcissimo topolino tra i protagonisti, ma è tosto. E non ha pietà per lo spettatore, come non ne ha per i suoi personaggi, tutti condannati, buoni o cattivi non fa differenza.
Perché nella bolla di disperazione rappresentata da un braccio della morte, le differenze si annullano. Si potrebbe dire che si è tutti rinchiusi e tutti a un passo dalla morte, vittime e boia, ma non è così, perché poi ai boia è comunque concesso il ritorno a casa e il conforto delle persone che amano.
C’è una draconiana forma di giustizia nel destino che attende Paul, quello di veder morire tutti intorno a sé e continuare a sopravvivere, senza neppure il viatico di un’eterna giovinezza. La “vita” con cui John Coffey lo ha infettato non risparmia gli acciacchi e i dolori di una vecchiaia prolungata all’infinito. Ed è questa forse la cattiveria peggiore.
È un film commovente, Il Miglio Verde, ma non c’è catarsi nelle lacrime che suscita. Darabont adotta, infatti, uno stile molto diverso da quello del suo film precedente: qui ci sono tanti primi piani, tanti campi medi e stretti. Soltanto di rado ci si concede il respiro di un totale o di un campo lungo. È un film chiuso, claustrofobico. Lo stesso John Coffey, il gigantesco uomo innocente condannato a morte, non viene quasi mai inquadrato a figura intera. La sequenza della sua presentazione al pubblico e ai secondini del Miglio è un piccolo capolavoro, nonché un esempio lampante di questa scelta di tenersi sempre il più vicino possibile agli attori: al suo arrivo ne vediamo a malapena dei dettagli, i piedi, un pezzo di braccio, la nuca. Quando poi entra nella cella dove passerà gli ultimi giorni della sua vita, stacchiamo subito sul primo piano. Lo vedremo nella sua interezza solo nel flashback legato al ritrovamento delle due bambine che è accusato di aver ucciso. Certo, in parte sono decisioni dovute al fatto che Michael Clark Duncan non era così enorme come il suo personaggio richiederebbe e ci si dovette affidare a trucchi ottici e alle angolazioni della MdP per ingannare il pubblico sulla sua mole. Ma c’è soprattutto una visione artistica dietro il modo in cui Darabont ha scelto di inquadrare John Coffey, che contribuisce a costruire un personaggio difficile nel passaggio tra pagina e pellicola.
Difficile perché, ed è una trappola in cui purtroppo King è già caduto più di una volta, è molto vicino al sinistro stereotipo del magical negro, un po’ come la sua cugina stronza, ovvero Mother Abigail di The Stand. Darabont, consapevole della problematica, cerca di modifcare Coffey in maniera impercettibile: se nel romanzo i suoi limiti mentali sono sottolineati a più riprese, nel film sono meno evidenti. Coffey qui regge conversazioni con i secondini e con gli altri detenuti, capisce quello che gli succede intorno anche senza far ricorso ai suoi “poteri”. Soprattutto, e qui arriviamo a quell’unica libertà grossa che si prende Darabont rispetto a King, mostra di avere dei desideri, di poter prendere delle decisioni autonome. Nel romanzo, la moglie fa una sfuriata a Paul perché il marito non fa nulla per salvare John; nel film, si limita a consigliare a Paul di chiedere a John quello che vuole. Come nel romanzo, John vuole morire, perché è stanco di sentire tutta la sofferenza e la cattiveria del mondo sulla propria pelle, ma Darabont fa in modo che sia una scelta motivata dalla capacità di intendere e di volere del personaggio, e non è poco.
Come ultimo desiderio, John chiede di vedere un film.
Top Hat è uscito nel 1935, è per questo che Darabont ambienta il suo film proprio in quell’anno e non nel ’33, come invece accadeva nel libro. Di recente, Il Miglio Verde è stato oggetto di una discussione interessantissima nel Kingcast, una puntata dedicata al film con ospite proprio Mike Flanagan che vi consiglio di ascoltare quanto prima. Secondo il regista, quella di John seduto in poltrona a guardare Fred Aistare e Ginger Rogers ballare sulle note di Cheek to Cheek è la scena più bella del film, perché è un’invenzione originale di Darabont, del tutto assente nel romanzo, ed è anche l’unica in cui ci si commuove senza provare rabbia, indignazione, l’unico momento di vera catarsi in un film che ne è privo.
Viene fuori tutto l’amore di Darabont (e di Flanagan con lui) per il cinema in quanto tale, come ultima forma di comunicazione quando le parole si esauriscono, come rifugio dall’angoscia, come sistema per fregare parzialmente la morte. Non abbiamo motivo di dubitare che, nel buio della sala, mentre guarda Top Hat, John sia felice e si dimentichi, per poco meno di due ore, che il giorno dopo ci sarà Old Sparky ad accoglierlo tra le sue braccia. Perché è questo che fa il cinema e, molto triste ammetterlo di questi tempi, è questo che fa l’esperienza della sala.
Per il resto, Il Miglio Verde è un film che pullula di attori colossali anche in piccoli ruoli, e vi sfido a riconoscerli uno a uno; è forse la migliore interpretazione della carriera di Tom Hanks, misuratissimo e anche defilato all’occorrenza; è una tragedia narrata con i toni da fiaba, e quindi colpisce ancora più forte e a tradimento; è il riscatto personale di un attore che qui ha ottenuto la sua prima e unica nomination all’Oscar, anche se poi gli è stato scippato; a oggi, resta il film preferito da Darabont, quello che lui ritiene il più soddisfacente della sua carriera.
Tre ore e spicci che volano e neanche te ne rendi conto. Sto per dire un’eresia, ma credo sia superiore di un paio di punticini al libro, con tutto il bene che gli voglio.
Vedetelo, rivedetelo, imparatelo a memoria perché è soprattutto una lezione di grande cinema.
Questo è un film che non mi stancherei mai di riguardare, anche se ogni maledetta volta mi ammazza di lacrime per tutto l’orrore che contiene. Anzi, vado a togliermi la bruschetta che mi è appena entrata nell’occhio, visto che piango anche solo a leggerne.
Io mi sono sottoposta al calvario di rileggere il libro e rivedere il film uno dietro l’altro, e non mi sento affatto bene.
Sì l’opera di King pullula di buoni ritardati. A memoria velocemente andiamo a The Stand, il licantropo del Talismano, quella COVER di “uomini e topi” che è Blaze,..sono sicuro che ce ne siano altri. Una di quelle cose cui ritorna, Stephen. Tipo il paesino desolato in cui arriva una coppia che si è persa, per dire. Darabont fa una cosa violentissima, rendendo John Coffey qualcosa di più che una pecora condotta al macello, ma coi superpoteri. Se lui è senziente, in senso ampio, il Male è ancora più immotivato. Per certi versi questa libertà stilistica che si prende è una delle cose più coraggiose mai fatte con King. Ok, prima che arrivasse Mike Nostro. Non sorprende poi vedere lo stesso Darabont, in una pellicola per molti versi imperfetta come The Mist inventarsi quel finale.
E’ una cosa che King scrive spesso: (parafraso, non ricordo esattamente) “Perchè succedono cose brutte alle buone persone? Perchè POSSSONO SUCCEDERE”. Qui Darabont porta alle estreme conseguenze. Non sorprende che nonostante il cast in qualche modo ci sia un po’ di rimozione verso questo film. Ok, va bene il “NON HAPPY END DISNEYANO”, ma qui si esagera.
Chiaramente superiore alla Redemption carceraria, che pure aveva i suoi pregi.
Come dicevo più giù a Erica, ho riletto il libro e rivisto il film a distanza molto ravvicinata ed è stata un’esperienza emotiva sfibrante, perché davvero, né King né Darabont ti risparmiano niente, e facendo di Coffey un essere umano dotato di volontà, desideri (la scena del pane portato dalla moglie di Paul, che lui rifiuta di dare a Bill e offre soltanto a Del, un piccolo momento, ma importantissimo per il personaggio), nonché una sua morale, rende il tutto ancora più atroce.
Io non so come fanno in molti a scambiarlo per un film di buoni sentimenti.
In effetti la cosa è incomprensibile: in caso, avrebbe dovuto svolgersi molto diversamente, con personaggi (forse una risposta come quella data da Gary “Hammersmith” Sinise a Tom “Edgecombe” Hanks riguardo a John Coffey la si può trovare in film di buoni sentimenti, giusto per fare un esempio fra i tanti?) e, soprattutto, con un finale diverso… Possiamo dire tutt’al più che i malvagi -due grandi Rockwell e Hutchison- vengono puniti, sì, ma non c’è nessuna redenzione in questo né tantomeno riscatto o salvezza per un gigante innocente che, purtroppo per noi, nel film è anche pienamente consapevole di tutto (compreso quanto il suo potere sia per lui fonte di continua sofferenza, tanto da volervi mettere fine). Per non parlare del destino riservato al buon Paul Edgecombe, con il “dono” di una vita quasi eterna ma SENZA eterna giovinezza segnata dal dolore della perdita nei decenni (secoli?) di tutte le persone care…
Comunque, ho rivisto questo capolavoro giusto l’altro ieri e niente da fare, bruschette e cipolle mi sono andate negli occhi anche stavolta!
Eh, ma questo dannato film ti incarta ogni volta, non ne puoi fare a meno. Io comincio a singhiozzare da quando arriva Mr Jingles e non mi fermo più fino alla fine.
C’è un’altra cosa , anche se non ho rivisto il film nè riletto il libro da tempo.
SPOILERONE
Se non sbaglio nel libro la scoperta dell’ innocenza di Coffey è frutto di un’indagine diciamo autonoma di Paul.
Nel fim è Coffey che rende edotto “a modo suo” Paul su com’è andata veramente.
Cioè, come hai ben scritto, Coffey si prende COSCIENTEMENTE colpe non sue. Ma non come un cazzo di Garrone del libro Cuore (e infatti tutti tifiamo per Franti, individuo di spessore morale).
C’è un salto etico.
Il martirio non redime. Il martirio è insensato.
Film che ho molto amato ma con le tue considerazioni mi hai allo stesso tempo messo molta voglia di rivederlo dopo anni e anche un certo timore di farlo.
Ti ringrazio per entrambe le cose.
Io amo questo film.
E concordo con te che credo che sia uno dei ruoli migliori di Hanks nella sua carriera.
E scusate, ora vado a togliermi le DUE bruschette che stranamente mi sono finite negli occhi.
Dannate bruschette, sempre lì vanno a finire!
Ovviamente considerato buonista e corretto dai soliti dementi. Rimane invece un capolavoro di amarezza e umana tenerezza miscelati benissimo. Racconta benissimo un mondo chiuso, dove gli uomini che ci lavorano e aspettano la fine vivono un confronto spietato sia col male che con la volontà di rimanere umani. Per me bellissimo. Purtroppo non ho letto il libro di King .
Leggilo, perché è molto bello. Ha solo una struttura un po’ particolare dovuta al suo essere stato, in origine, pubblicato a puntate.