DOVRESTE SAPERE TUTTI COME FINISCONO FILM E LIBRO, MA IN CASO ABBIATE VISSUTO SU MARTE, ATTENTI AGLI SPOILER
Di Cujo, il romanzo, ho sempre ammirato la sua perfetta e implacabile costruzione dell’effetto domino atto a portare Donna e Tad dritti nella fauci del San Bernardo con la rabbia: è una catena di eventi, di scherzi del caso (o del destino, fate voi), di piccole coincidenze che lasciano intendere quanto, in fin dei conti, la malattia della povera bestia abbia un qualcosa di soprannaturale e che i terrori notturni di Tad siano giustificati. Il che rientra poi appieno nella cosmogonia kinghiana in cui la città di Castle Rock occupa un ruolo centrale. È un peccato che King non ricordi di aver scritto Cujo, romanzo del periodo di alcolismo e tossicodipendenza dello scrittore, perché l’ho sempre trovato un ottimo horror. Certo, c’è da registrare un eccesso di beghe lavorative e di storiacce di corna, che forse, una volta impostato il sentiero di morte e distruzione dei protagonisti, potevano avere un po’ meno spazio (per non parlare delle peregrinazioni del padroncino di Cujo e di sua madre in viaggio dalla sorella di lei), ma per essere il libro di un autore in quelle condizioni, non ci possiamo lamentare più di tanto.
Rispetto ai due film analizzati in precedenza (di Creepshow, se volete, ne avevo già parlato qui) ci troviamo in una fase differente della carriera di King, e di conseguenza della storia dei film tratti dalle sue opere: ora la star indiscussa è lui, è il suo nome in cartellone ad attirare l’attenzione, è il libro a trainare il successo del film e non viceversa. Questo, inevitabilmente, coincide con un’impennata nel numero delle trasposizioni e con un approccio meno autoriale alla materia; ecco che entriamo nell’era dei B movie tratti da King, e Cujo è un ottimo rappresentante della categoria.
A dirigere il film troviamo Lewis Teague, quel tipo di regista comunemente definito “onesto mestierante”. Non era al suo primo incontro con l’horror, e neanche con il filone dedicato agli animali grossi, incazzati e impazziti: Alligator, del 1980, è suo, ma non credo sia stato scelto per questo motivo. Infatti, il regista designato per Cujo era Peter Medak, che lasciò la produzione mentre stavano ancora preparando le riprese, portandosi dietro il suo direttore della fotografia, poi sostituito da Jan de Bont. Si quel Jan de Bont.
È a questo che servono gli “onesti mestieranti”: arrivano e risolvono i problemi. Cujo è un infatti un film tutto di mestiere, e non è affatto un film facile, come tutti i film che coinvolgono gli animali, soprattutto se devono recitare. Dietro a Cujo c’è un gran lavoro di stunt in costume da San Bernardo, cani attori (almeno 4) e animatroni vari, fusi insieme dalla regia attenta e ottimamente calibrata di Teague e dal montaggio fatto al millimetro da Neil Travis.
Nonostante sia un film di serie B rispetto a Carrie o a Shining, Cujo non è mai e poi mai un film sciatto o poco curato: la sciatteria nelle trasposizioni di King sarebbe arrivata in un secondo momento, forse a partire da Brivido, forse anche prima, ma comunque nel pieno del periodo De Laurentiis, per poi espandersi a macchia d’olio lungo tutti gli anni ’90 e partorire roba come I Sonnambuli, tanto per farvi soffrire un po’.
Al contrario, in Cujo, la cura dei dettagli è l’elemento che vende la storia allo spettatore, che prova a rendere credibile la trasformazione di quel dolcissimo cagnolone in una belva assassina, che pare quasi perseguitare madre e figlio bloccati nella Ford Pinto, come se avesse scelto proprio loro, come se fosse qualcosa di più di un semplice cane malato. Peccato che non sempre ci riesca, ma non per demeriti di Teague o del film.
Cujo, pur tagliando giustamente circa una tonnellata di pagine, è molto fedele allo spirito del testo: la micidiale concatenazione di eventi è presente anche qui, anche qui tutto concorre a far precipitare Tad e Donna in una di quelle sacche di resistenza alla civiltà e alla sicurezza del nostro essere persone urbane ed evolute, che sono poi il luogo privilegiato del racconto dell’orrore proprio perché così vicine a noi, all’apparenza così normali.
Rendere estraneo il familiare: se si potesse dare dell’opera di King una definizione secca, credo userei questa. Cujo è, all’interno della bibliografia di King, il più didascalico degli esempi. Cosa c’è di più familiare, amichevole, ispirante fiducia e affetto di un grosso San Bernardo che trotterella nel cortile di una tipica famiglia americana? Niente.
Uno squalo bianco è spaventoso di per sé, è l’animale che risveglia in noi la paura irrazionale di essere mangiati. Ma un cane da salvataggio, per diventare un veicolo di terrore puro, ha bisogno di una spinta creativa non indifferente. E forse sta proprio qui il problema principale del film, non nel “tradimento” finale, non quindi nelle accuse di buonismo e mancanza di coraggio perché non si è voluto (a mio parere con tutte le ragioni) far morire un bambino di 3 anni e mezzo. È che manca la caratterizzazione demoniaca del cane, che pur con tutti i ringhi, il sangue e il pus che gli esce dagli occhi, è pur sempre un adorabile San Bernardo e, quando si ammala, suscita compassione e non terrore.
Questa è una cosa che non risolvi col mestiere, con gli animatroni, con una muta di cani addestrati e con gli stunt. No, non la risolveresti neppure oggi con la CGI, perché si tratta di un problema intrinseco al mezzo cinematografico: se King può scrivere che Cujo ha una scintilla malvagia, consapevole, di intelligenza maligna nello sguardo, altra cosa è quando lo vediamo sullo schermo. C’è poco da fare: non può avere lo stesso effetto.
Il film, poveraccio, ce la mette tutta e spesso ci riesce: dosa i jump scare in modo sopraffino, in alcuni casi ti fare dei salti sulla sedia ancora efficaci a distanza di 37 anni, ha una protagonista, Dee Wallace, obbligata a interagire con un cane e con un bambino per tre quarti del film (chiedete a chiunque abbia anche solo di sfuggita lavorato nel settore: cani e bambini sono l’incubo di ogni set), che offre un’interpretazione così convincente da essere la struttura portante su cui Teague fa poggiare tutto il suo film.
Perché, ridotto all’osso, ed eliminando i primi 45 minuti che sono il corrispettivo narrativo della grande salita con cui di solito comincia una montagna russa (sono quindi indispensabili), Cujo è soltanto una situazione portata avanti all’inverosimile che vede una donna e suo figlio chiusi in macchina, in piena estate, e assediati da un mostro che li vuole mangiare.
Come vedete, nonostante la fonte letteraria sia molto diversa, ci tocca di nuovo chiamare in gioco Spielberg e il suo grande squalo bianco. Non per altro, ma perché Jaws è presente in parecchie scelte compiute da Teague, nonché quasi plagiato dalla colonna sonora di Bernstein. No, non quel Bernstein.
“Ma allora non si è capito se Cujo ti piace o no”.
La verità è che non lo so nemmeno io. L’ho rivisto con piacere, dopo tanti anni, e se da bambina un po’ il cane mi metteva paura, adesso mi fa solo tanta pena; credo ancora che Dee Wallace sia il valore aggiunto al film e che il mestiere di Teague tenga in piedi la baracca; credo sia un classico horror dei primi anni ’80 che cerca di capitalizzare su un nome importante, senza tuttavia sfruttarlo biecamente; credo ci sia una gran devozione nei confronti del testo di King, ma non così tanta da diventare supina accondiscendenza, e quindi è un film che, nonostante tutto, sta ancora in piedi da solo. Sono anche convinta che, quando parliamo di romanzi “infilmabili” tendiamo a riferirci alle cose sbagliate. Cujo è, per i motivi sopra elencati, un romanzo che si avvicina molto all’accezione di infilmabile, perché non parla di un San Bernardo con la rabbia, ma degli incubi che diventano realtà. Possono essere gli incubi di un bambino che vede i mostri nell’armadio o quelli di una donna che si sente isolata, spaventata e senza un posto preciso nel mondo. È un libro sui mostri che alla fine ti prendono.
Purtroppo, pur cercando di cogliere questi sottotesti, comprendendoli anche, Cujo è solo un film su un San Bernardo con la rabbia, ma non credo si potesse fare di più.
L’ho sempre visto come un film che fa parte del filone “animali assassini”. Io per tantissimo tempo avevo paura dei cani, per cui il san bernardo mi terrorizzava a morte. Un film diretto, semplice, medio. Non mi dispiace. Il libro è il primo che io abbia letto di King. Avevo dodici anni e quel finale così amaro, radicale, spiazzante, mi ha colpito molto. Da lì è cominciata la mia passione per questo meraviglioso scrittore.
Eh sì, il filone è quello. Il romanzo ha delle implicazioni un po’ diverse, che vengono accennate anche nel film, ma era troppo difficile metterle in immagini, o forse lo era per Teague. Non lo sapremo mai, a meno che Flanagan non faccia un remake 😀
Con tutti i suoi difetti, non gli si può voler male. “Onesto” è la parola giusta, e Dee Wallace mette i brividi.
Dee Wallace è strepitosa, credo che sia la sua interpretazione migliore.
quanti libri di king hai letto? io tre^^
Almeno fino ai primi anni del 2000 li ho letti tutti 😀 Poi mi sono un po’ fermata. Diciamo che faccio prima a dirti quelli che non ho letto!
Io ho letto solo:
It
Pet sematary
Carrie, il mio preferito
No, nemmeno io credo si potesse fare di più. Del resto, forse, il tutto può funzionare meglio proprio se non ci si concentra su quei sottotesti poco adatti ad essere veicolati dal Cujo cinematografico rispetto alla sua controparte cartacea: qui, alla fine, abbiamo semplicemente un povero cagnone molto malato e, in virtù di questo, molto pericoloso… questo è quanto, scevro da qualsiasi sottile inquietudine malefica/metafisica e, se si riesce ad accettarlo, allora il film scorre via liscio. Senza ovviamente dimenticare l’eccelsa performance di Dee Wallace, chiaro 😉
Ma infatti gli si vuole bene per ciò che è, è un classico prodotto dei primi anni ’80, una specie di manuale del B movie, ma competente.
Esatto (oltre ad aver lasciato tracce di sé anche nel decennio successivo, se pensiamo a chi in qualche modo ha cercato di rifarsi a lui come John Lafia con il suo Man’s Best Friend)…
Articolo che avevo saltato. Il film è quello che è: un’onesta trasposizione di un onesto libro di King. Essendo un Kinghiano di ferro nella rece ho drizzato le antenne soprattutto alla tua visione della weltanschauung kingiana (ho messo apposta “weltanschauung” perchè con King fa un effetto comico. Eh, sì. Sono uno zuzzurellone).
Purtroppo per oggi i complimenti te li ho già fatti “di là” in classifica. Mi limito a dire che “rendere estraneo il familiare” è un altro strike, Lucia. Mi viene in mente Desperation/i vendicatori. Non che sia una sua trovata, eh. Un certo Matheson per dire. Ma l’elaborazione nella poetica di Stefanino è personalissima. E parte già dal principio di TUTTO (lo so, prima viene Carrie, ma “il secondo album è sempre il più difficile”): quel polpettone alla Peyton Place, adorabile, di nome Salem’s Lot.
Sull’infilmabilità ci siamo alla grandissima. L’onesto Teague ha fatto un lavoro decente. Chi ha fatto un numero di alta scuola tipo una volèe di McEnroe sull’ infimabile da King è un altro tipetto con una cosa in cui c’entra il nome Gerald. Ma questo lo sai.
P.s.- Se ti sei fermata ai primi duemila, ahimè, ti sei persa poco. Ho un affetto per Joyland. C’ha dentro quell’aria alla Stand by me. La trilogia del signor Mercedes è IM-BA-RAZ-ZAN-TE.
Eh niente. E’ come un punk di Green Room che si ostina a portare sul palco i Dead Kennedys a 73 anni, il Bangoriano. Difficile non volergli bene.