Ci ha fatto aspettare tre anni, ma Anvari è tornato con il suo secondo film, il primo girato in lingua inglese, forte del successo riscosso nel 2016 dal magnifico Under the Shadow, e quindi aiutato da un budget più alto, dalla presenza di star importanti e da una distribuzione che, grazie e Hulu e a Netflix, gli ha permesso di arrivare in ogni parte del mondo.
Da quando Wounds è arrivato su Netflix, tre giorni fa, non ho fatto altro che leggerne ogni male possibile, quindi è il caso di rispolverare la rubrica “film che piacciono solo a me” per l’occasione.
La cosa, a dire la verità, non mi stupisce: Wounds si allontana molto dalla norma dei film che possiamo vedere nella sezione dedicata agli horror di Netflix, e infatti non è una produzione originale del colosso dello streaming, ma il classico animale da Sundance, dove è stato presentato a gennaio. Non si tratta quindi di una cosa molto adatta allo spettatore casuale, che cerca un horror per passare una serata: Wounds è orrore cosmico, sporcizia e disagio, ed è anche un film abbastanza impegnativo e, da un certo punto di vista, respingente, perché estrae l’elemento horror dalla mente di un protagonista privo di qualunque attrattiva, inserito in un contesto squallido e che compie azioni altrettanto squallide. Insomma, non è piacevole essere nella vita e nella testa di Will (Armie Hammer, molto coraggioso ad accettare il ruolo), e dopo la visione, avrete bisogno di una bella doccia calda.
Wounds è tratto dalla novella dello scrittore americano Nathan Ballingrud, Il Nero Visibile (The Visible Filth), a sua volta contenuta nella sua seconda raccolta di racconti, Wounds: Six Stories from the Border of Hell. Da noi la raccolta non è uscita, ma è possibile acquistare la novella in italiano, pubblicata dalla Hypnos; il mio consiglio è di acquistarla e leggerla, non necessariamente prima di aver visto il film (io l’ho fatto il giorno dopo), perché ne uscirete arricchiti. Ballingrud è una delle voci più interessanti e originali della narrativa horror e weird contemporanea, ed è anche molto complicato da trasporre in immagini, perché racconta, appunto, di un orrore che non è soltanto una minaccia esterna e ultraterrena, ma prospera, cresce e trova terreno fertile dentro di noi, nel nostro sudiciume quotidiano: “Tu non sei neanche una persona reale, sei soltanto un corpo”, così dice la fidanzata di Will, Carrie (Dakota Johnson), al protagonista, in quella che è forse la scena più bella di tutto il film e, nonostante Wounds sia molto avaro di spiegazioni, basta quel dialogo per comprendere appieno dove risieda il nucleo orrido del film.
Will fa il barista in un localaccio di New Orleans infestato dagli scarafaggi e frequentato da una clientela di varia umanità, con diversi gradi di disperazione, che però è anche quanto di più simile a concetto di “famiglia” vedrete in questo film; vive con la sua fidanzata, che è una studentessa universitaria, e flitra spesso e volentieri con una habitué del bar, Alicia (Zazie Beetz). La vita di Will è tutta qui: non ha ambizioni, non ha qualità, non ha pensieri, galleggia tra pessimi alcolici e giornate vuote nel caldo infernale della sua città, senza chiedere o desiderare altro.
Poi, una sera, arriva un gruppo di ragazzini nel bar, scoppia una rissa, qualcuno dimentica un telefono e lui, distrattamente, se infila in tasca e se lo porta a casa.
Qui comincia l’incubo, e la narrazione stessa del film se ne va in frantumi insieme alla vita di Will, trascinato con gli spettatori in un mondo che non è più il suo, o meglio, è ancora il suo, ma i cui interstizi cominciano a cedere, lasciando filtrare quel sudiciume di cui parla il titolo del racconto di Ballingrud.
Dà proprio un’impressione di progressivo sfaldamento, Wounds: gli scarafaggi aumentano ed escono da ogni angolo, non solo nel bar, ma anche nell’appartamento di Carrie e Will, e da una ferita sul corpo di Will, che non si capisce come si sia procurato; sullo schermo del computer di Carrie appare un lungo tunnel nero, video e foto presenti nella galleria del cellulare smarrito fanno sospettare di alcuni omicidi rituali per evocare non si sa quale entità “esterna”, e via così, in un campionario di orrori da farsi venire il capogiro.
Anvari e Ballingrud condividono un dettaglio in particolare, che li rende un’accoppiata perfetta di regista e autore: sono eleganti e profondamente inquietanti, riescono, entrambi, a far passare le immagini più disgustose possibili senza mai apparire grossolani o volgari.
Wounds funziona proprio perché resta sempre sottile, ambiguo, non offre certezze o appigli, non ti fa capire in anticipo in che direzione sta andando e quindi non ti rilassi mai.
In realtà, i particolari espliciti sono centellinati e, prima che il film entri nel territorio dell’horror, passa almeno una buona mezz’ora, tutta occupata dalla costruzione dei personaggi e dell’atmosfera. È una mezz’ora utilissima, perché poi, quando Anvari scatena l’inferno, conosciamo quella gente molto bene, e ne abbiamo apprese le dinamiche con piccoli tocchi di classe disseminati nella prima parte del film. E quelle dinamiche pesano tantissimo, poi, nell’irruzione spietata del soprannaturale che fa deflagrare il film e ci conduce a un finale allucinato con una perfetta chiusura del cerchio.
Se andiamo a scavare nel senso profondo di un film come Wounds, quello che ci resta è la perdita di aderenza con la realtà di un personaggio estremamente sgradevole, con un vuoto enorme da riempire e così inconsapevole da non sapere di averlo: in quel vuoto va a fare il nido l’orrore, come un nugolo di insetti, come una sorta di infiltrazione, è sempre stato nascosto lì, e basta pochissimo per estrarlo e lasciarlo libero nel mondo.
Anvari è bravissimo a creare un quadro molto preciso della desolazione di Will, soprattutto quando lo fa interagire con i due personaggi femminili (tre, se si contano i brevi scambi con la proprietaria del bar, Rosie) o lo mette di fronte a due immagini opposte e speculari della mascolinità incarnate dal ragazzo di Alicia e dal cliente e amico che fa scoppiare la rissa nel locale all’inizio del film. Will è un protagonista costruito narrativamente (e visivamente) in base ai suoi rapporti col mondo esterno, fallimentari o costruiti su autoindulgenza e commiserazione.
Da quando il cinema horror è tornato a essere lo specchio principale delle nostre paure contemporanee, si è detto tante volte che lo ha fatto in particolare mettendo le donne al centro della scena; ora sta cominciando ad andare verso la distruzione sistematica del personaggio maschile classico, che forse richiede anche un coraggio maggiore.
Vediamo come la prenderanno i fan. Io non posso fare altro che festeggiare.
Intanto, il prossimo progetto di Anvari è una serie tv tratta dalla seconda raccolta di racconti di Ballingrud, North American Lake Monsters. Pare che questi due si siano proprio trovati.
Anvari ha fatto un nuovo film e io non ne sapevo niente?! Grazie mille per averci segnalato questa pellicola. Under the Shadow è un film a cui sono molto affezionato e che reputo strepitoso e non vedo l’ora di vedere questo Wounds.
Poi fammi sapere se ti è piacuto! 😉
Visto! Vorrei rivederlo una seconda volta per comprendere meglio certe dinamiche ma intanto posso dire che è riuscito a inquietarmi in certi frangenti. Sicuramente un horror molto interessante.
Visto oggi, prima di leggere il tuo pezzo. A me è piaciuto tantissimo….a quanto pare siamo in due 🙂 Già L’ombra della paura era stata un sorpresa. Quest’ultimo è la conferma di un regista molto interessante!
Ho visto che esistono altre persone a cui, per fortuna, è piaciuto! Non siamo così sole! 😀
Visto, ma onestamente non mi e’ piaciuto molto. La storia e’ veramente banale, ho visto di meglio.
Alla prossima
Mi associo ai non estimatori, l’ho trovato un guazzabuglio senza capo né coda noiosissimo nella prima parte e pretenzioso e un po’ ridicolo nella seconda. Su una cosa siamo comunque d’accordo, il protagonista è di un’idiozia abissale.
Per me delusione cocente.
Infatti, se tralasciamo 3-4 sequenze pseudo horror la storia parla di un uomo alcolizzato che cerca di farsi un’altra donna, ma gli va male, torna a casa e lascia la la fidanzata, impazzisce e …stop.
Nemmeno in Dallas succedevano queste cose.
Non conosco Babak Anvari, non ho visto nemmeno il suo film precedente, ma ho capito la mano del regista.
Niente a che vedere con Mike Flanagan, di cui mi sono innamorato delle sue opere alla prima visione, lui si che riesce a creare l’atmosfera giusta, e spaventare.
Bello! Finalmente non i soliti protagonisti e soliti percorsi. Lo guardi senza sapere dove andrà a parare e, come al solito quando capita, funziona stupendamente dal lato inquietudine.
Solo, mi ha lasciato quasi l’impressione di un corto, vorrei fosse continuato ancora e ancora )
L’ho guardato l’altro ieri e infatti penso che ne scriverò a breve anche io e devo ammettere che pure io pensavo di essere l’unica al mondo a cui questo film avesse detto qualcosa. Le ferite di cui parliamo, poi, al di là del “vuoto” di Will che citi anche tu, non possono essere anche quelle di una storia d’amore ormai caduta nel baratro (lo stesso che si vede al pc?). Io l’ho interpretata anche così. Comunque Under The Shadow era n’altra roba proprio, questo bisogna dirlo.
Sì, concordo: Under the Shadow, altro livello. Ma questo si difende. Ora vediamo come si comporta con una serie TV.
E così è tornato anche Anvari! Con un’opera “ostica” alquanto diversa da Under The Shadow, leggo… O.K., comincio già a mettere in conto la doccia calda 😉
Eh, quella alla fine del film ti tocca per forza! 😀
Veramente inquietante ed interessante..un orrore suggerito,direi quasi lovecraftiano,se mi passi il termine..ha un difetto, avrebbe dovuto durare un po’di più ed eliminare qualche punto morto,ma va benissimo così 😊
Non conoscevo Babak Anvari. Dopo aver letto la tua recensione ho quindi visto Under the Shadow. Poi ho letto il racconto Il Nero Visibile di Nathan Ballingrud e ieri sera ho visto Wounds. E mi è piaciuto tutto. Prima di tutto lo stile di Babak Anvari, asciutto, preciso, rigoroso e il suo procedere lento che invece di annoiare crea progressivamente una tensione verso un finale che non delude le aspettative. Mi piace poi lo scontro e il dialogo tra una realtà sporca e malsana, costruita attorno a rapporti precari, conflittuali e pronti a sfaldarsi e un male irreale che si fa concreto.
Per certi versi ho addirittura preferito Wounds ad Under the Shadow, per gli attori e per una questione di estetica anche se dal racconto mi aspettavo un film più sporco e cupo (comunque, grandissima trasposizione). Bellissima la scena della vasca da bagno. Grazie quindi per avermi fatto conoscere questo regista (dopo Mike Flanagan e S. Craig Zahler).
Mi fa piacere che ti sia piaciuto! Anvari è una grandissima promessa per il futuro del genere, e mi piace il connubio con Ballingrud, perché affrontano tematiche simili. Forse è vero che il racconto è più marcio del film, ma a me piace anche molto la scelta di usare una fotografia solare e dei colori molto caldi per raccontare una vicenda così sporca.
Spero di farti conoscere altri registi in futuro!
Quasi dimenticavo, mi hai fatto conoscere anche Nicolas Pesce, del quale ho preferito The Eyes of my Mother rispetto a Piercing. Sono film molto diversi e ho preferito il primo perché quello che davvero cerco in un film horror è l’aspetto inquietante e il film del 2016 ancora adesso disturba a volte le mie notti 🙂
E chissà cosa combinerà adesso con il remake di The Grudge!
Ho visto a suo tempo l’originale del 2004 di Takashi Shimizu e in tutta sincerità l’avevo trovato una porcata. Ma sono in effetti molto curioso di vedere quello che farà Pesce! Dovresti fare ogni sei mesi una lista dei film da tenere d’occhio nei successivi sei 🙂 Così da confrontare aspettative e risultato finale.
Cioè mi stai dicendo che questo film è stato demolito? È un gioiellino di degrado e angoscia, scherziamo?