Fright

Regia – Peter Collinson (1971)

Ricominciamo a pescare a casaccio titoli dalle liste settimanali, senza un ordine o una direzione precisa, giusto perché uno degli effetti collaterali di selezionare dieci film per ogni anno è quello di volerli anche rivedere e, sporadicamente, infliggerli a voi, soprattutto se si tratta di opere con un certo peso nella storia del genere, e ancora di più se questo peso è ignorato o misconosciuto, come nel caso di Fright, uscito in Italia come L’Allucinante Notte di una Baby Sitter.
Perché prima di Halloween, addirittura prima di Black Christmas, che è considerato il proto-slasher per antonomasia, e nello stesso anno di Reazione a Catena, c’era questo thriller inglese (ancora la superiore razza britannica all’opera) ove la povera Susan George è brutalizzata per una quarantina di minuti da un folle, attestandosi come prima, vera, final girl della storia dell’horror moderno, e mostrando di saper strillare a un volume tale da far impallidire la buonanima di Marilyn Burns in Non Aprite quella Porta.

Fright, intendiamoci subito, non è uno slasher, e non solo perché ha un body count estremamente basso e vicino allo zero, ma perché ha più la struttura dell’home invasion  più un pizzico di rape & revenge (e anche lì era abbastanza in anticipo sui tempi), con una giovane donna sola e in pericolo e un individuo animato da cattive intenzioni che si introduce in casa minacciando la sua incolumità e quella del bambino di cui si sta prendendo cura. Ma Carpenter e Debra Hill avevano in mente questo film quando scrissero Halloween, e Susan George quando delinearono il personaggio di Laurie.
Guadando Fright con attenzione infatti, si riconoscono tanti elementi che, in seguito, sarebbero diventati parte integrante dell’immaginario legato allo slasher, nonché tanti vezzi linguistici che lo stesso Carpenter avrebbe fatto propri.
Il regista, Collinson, morto nel 1980 a soli 44 anni, era un innovatore di grande talento, anche se noto per avere un atteggiamento dispotico sul set e per mettere i suoi attori in condizioni di grande stress, e devo dire che entrambe le caratteristiche sono qui molto evidenti.

Fright è un film molto intenso, forse anche troppo, e non solo per i parametri dei primi anni ’70: ciò cui è sottoposta la protagonista Amanda è un vero e proprio calvario, fisico e psicologico. C’è anche un certo compiacimento sadico nel metterla di fronte alle peggiori situazioni in cui una donna può trovarsi, sebbene tutto avvenga fuori campo e il massimo di violenza esplicitamente mostrata riguardi un paio di cazzotti in faccia a un personaggio secondario. È sgradevole da guardare, ti mette a disagio, in particolare nell’ultima mezz’ora, quando deflagra in una cacofonia di urla e deliri.
Eppure l’accanimento feroce con cui Amanda viene fatta a brandelli è molto simile, per alcuni aspetti addirittura superiore, ai famigerati ultimi venti minuti di uno slasher a caso, quelli dove la nostra final girl si confronta, rimasta ormai da sola, con l’assassino, e spesso viene condotta al limite della sanità mentale.
Laurie Strode è un personaggio più interessante e sfaccettato rispetto ad Amanda, forse perché in sede di scrittura c’erano penne e sensibilità superiori a quelle di Tudor Gates, ma ciò non toglie niente alla persecuzione cui è sottoposta.

Capita di considerare lo slasher alla luce dei suoi aspetti esteriori, quelli più evidenti: gli omicidi, l’assassino mascherato, la presenza di un’ultima sopravvissuta. Poco considerato è invece il rapporto personale che viene a crearsi tra final girl e killer.
In Fright la questione è ancora a uno stadio embrionale: lo psicopatico vede in Amanda la sua ex moglie, nonché madre del bambino a cui la ragazza sta facendo da baby sitter; in altre parole, c’è una ragione per cui si accanisce contro di lei. Con l’avvento dello slasher propriamente detto, il caso prenderà il sopravvento, perché dove esiste il vuoto assoluto di spiegazioni risiede il terrore puro. Ed è anche per questo che ho sempre trovato la parentela tra Laurie e Michael pretestuosa e poco efficace, ma non divaghiamo.
Sta di fatto che il  precedente di questa guerra a due, di questa lotteria del caso che diventa un fatto personale, si trova in Fright, nella relazione tra Amanda e il suo aguzzino, che possiede ancora un volto, delle motivazioni, una sua psicologia, se vogliamo, ma che col tempo avrebbe perso le connotazioni umane per trasformarsi in una maschera senza lineamenti.

Credo che gran parte delle accuse di misoginia rivolte allo slasher derivino da qui: la sessuofobia diffusa con il corollario della verginità imposta alla final girl, l’atteggiamento punitivo nei confronti dei personaggi, le vittime di sesso femminile (illazione smentita dai numeri), le nudità generosamente esposte, sono tutti falsi problemi, quasi specchietti per le allodole.
Quello che ogni slasher ben realizzato narra è la persecuzione spietata di un assassino, di solito uomo, ai danni di una persona, di solito donna. Gli altri sono danni collaterali, il vero obiettivo del killer dello slasher è lei, la final girl destinata a ucciderlo.
Final girl spesso passiva e arrendevole per buona parte del film, proprio come la nostra Amanda, che strilla e fa la fanciulla in pericolo fino dieci minuti dalla fine, quando la sua rabbia esplode e conduce Fright a una chiusura traumatica e inaspettata, di quelle che lasciano a bocca aperta e, prima che la figura della final girl venisse istituzionalizzata dal cinema alla fine del decennio, rappresentava una novità di un certo rilievo.

Il finale di Fright sancisce infatti la distruzione definitiva del personaggio di Amanda così come l’abbiamo conosciuta all’inizio del film, è una conclusione connotata da un pessimismo allucinante, e non ha niente della spensieratezza, della semplicità, della superficialità dello slasher anni ’80; questo perché Fright e il suo regista, pur anticipando temi e caratteristiche in futuro tipiche dello slasher, sono in tutto e per tutto figli della propria epoca e, come tutti sappiamo, la transizione tra gli anni ’60 e i ’70 nel cinema horror è una faccenda sofferta e complicata. Negli Stati Uniti, il new horror era appena un neonato, ma in Inghilterra film come Fright sancivano cambiamenti importanti, e non è affatto casuale che Amanda, in una sequenza, guardi alla televisione La Lunga Notte dell’Orrore e reagisca con un moto di noia: è roba superata, sembra volerci dire Collinson, roba che non fa davvero paura. Volete vederla una cosa che fa davvero paura?
In maniera molto simile, Raimi avrebbe messo una locandina de Le Colline Hanno gli Occhi in Evil Dead, per farla strappare da Bruce Campbell.
In tutto questo continuo gioco di rimandi che è la storia del cinema dell’orrore, Fright occupa un posto speciale, anche perché siamo davvero pochi a ricordarci della sua esistenza. E tuttavia, è ammirevole il suo essere un film in grado accumulare in 85 minuti tutta una serie di elementi divenuti riconoscibilissimi nell’horror dei due decenni successivi.
Forse se lo sono dimenticato perché, in fin dei conti, lo hanno copiato tutti troppo.

8 commenti

  1. Con Honor Blackman e Ian Bannen!
    Dovrò cercare di recuperarlo perché non melo ricordo, e non pare il genere di film che ci si scorda facilmente. Ne ho certamente letto in giro (credo ne parli Kim Newman nel BFI Companion to Horror) ma temo di non averlo visto.

    1. No, non si scorda facilmente, se non altro, le tue orecchie non lo scordano facilmente 😀
      Mi pare di ricordare che Newman fosse un suo estimatore, quindi sì, è facile che ne abbia parlato nel libro.

  2. Alessandro Cortese · ·

    Questo film, in videocassetta, mi fu regalato quando ero adolescente e l’ho rivisto anche di recente.
    Sia ieri che oggi, questo film mi ha fatto lo stesso effetto: datato.
    Sì, è brutale; sì, possiede una fotografia sporca; sì, ha una rozzezza di fondo; sì, ha una recitazione per molti versi sopra le righe; ma il fatto di essere l’embrione di qualcosa che dopo verrà decodificato meglio e con maggiore profondità, per me ha pesato moltissimo.
    La tensione viene molto annacquata, i decibel scaraventati contro lo spettatore alla lunga esasperano e annoiano, l’atmosfera aspra e la messinscena volutamente sgraziata stuccano, e anche la psicologia dei personaggi mi è sempre parsa sbozzata.
    È un prodotto che, per me, nonostante sia stato seminale, cosa che gli riconosco, ha risentito molto del trascorrere del tempo, al contrario di altri classici.

    1. Sì, è un po’ datato, di sicuro, ma spesso mi domando se i film che consideriamo datati non siano soltanto stati saccheggiati così a fondo da farci sembrare tutto il repertorio già visto.
      È ovvio che non abbia il fascino di un Black Christmas, e non ne parliamo se ci riferiamo ad Halloween.
      Ma, secondo me, resta un film da vedere, se non altro come reperto storico.

  3. Blissard · ·

    L’ho visto vari anni fa e onestamente non mi era piaciuto; non lo ricordo neanche troppo bene, ricordo solo le urla, la lentezza estenuante e una sensazione wtf finale. All’epoca scrissi:
    “L’inizio è intrigante: una villetta isolata, una misteriosa coppia che lascia il proprio figlio ad una giovane ed avvenente babysitter, tanti fruscii e occhi che scrutano dalle finestre. Ma dopo appena mezz’ora il film perde nerbo, e peggiora gradualmente fino all’imbarazzante ultimo scorcio.
    Peccato, perchè Susan George – che recita male, intendiamoci – è deliziosa, la coppia è adeguatamente sinistra, Ian Bannen non è male come psicopatico e persino il bimbo ha uno sguardo torvo.”
    Pur non mettendo in discussione il valore storico, temo che sciovinisticamente mettere questo film e Reazione a Catena nella stessa frase sia quantomeno scriteriato 😀

    1. Ma metterli su una stessa frase non significa volerli comparare qualitativamente. È curioso che siano usciti tutti lo stesso anno.
      Anche mettere in una stessa riga Black Christmas e Fright è sacrilego: il primo è talmente superiore che Fright sparisce.
      A me però, di Fright, interessa il modo in cui ha gettato certi semi.

  4. Giuseppe · ·

    Visto parecchio tempo fa e in effetti no, nemmeno le mie orecchie se lo sono scordato 😀
    Un film seminale, senz’altro. Datato relativamente, ma più che altro talmente saccheggiato a destra e a manca da far dimenticare ai più chi avesse gettato quei semi poi maturati nei due decenni a venire…

    1. È il destino di questo tipo di film: non sono capolavori, quindi non resistono bene alla prova del tempo, e allora vengono dimenticati. Però, per avere un’idea esaustiva di come è andata l’evoluzione del genere, bisogna conoscerli.

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