Il titolo originale del film è una citazione letterale delle parole pronunciate dal giudice quando, alla fine del processo in cui Bundy era imputato per l’omicidio di due giovani donne in Florida (più il tentato omicidio di altre tre), lo condannò a morte; la sentenza sarebbe stata eseguita circa vent’anni dopo e, nel frattempo, ci sarebbe stato un altro processo, sempre in Florida, per l’assassinio di un bambina di dodici anni.
Giustamente, il Consiglio dei Malvagi Titolisti Italiani, ha pensato, per la distribuzione nel nostro paese, di chiamare il film Ted Bundy-Fascino Criminale, neanche si stesse parlando di Diabolik o di un ladro gentiluomo a caso di cui tutte le fanciulle si innamorano, perché è criminale ma, ehi, in fondo è solo un cucciolo coccoloso.
Ora ci manca solo che, in questo 2019 sempre più simile agli anni ’50, qualche mentecatta se ne esca con una fan fiction dedicata a Bundy e siamo a posto. Sempre che qualcosa del genere non esista già, e ho il forte sospetto che esista.
Per cui scusatemi tanto se mi rifiuto di usare il titolo italiano: non è snobismo, il mio, è legittima difesa contro l’idiozia e la volontà di far passare un messaggio che, oltre a essere sbagliatissimo di per sé, non ha nulla a che spartire con il lavoro del regista Berlinger.
Ecco, Berlinger è uno che la storia di Bundy la conosce molto bene: è infatti l’autore dell’ottimo documentario Conversazioni con un Killer: Il Caso Bundy (trovate tutte e quattro le puntate su Netflix) e questa è la sua seconda incursione da regista nel territorio del cinema di finzione. La prima fu lo sfortunatissimo seguito di The Blair Witch Project, della cui vicenda produttiva molto triste e travagliata, potete trovare un ottimo sunto qui. Dopo quella batosta delle dimensioni di un transatlantico, Berlinger si è dato in pianta stabile al documentario e ha all’attivo una cinquantina di lavori. Torna adesso alla fiction per raccontare la storia di Bundy da un punto di vista un po’ diverso dal solito, che no, non riguarda l’attrazione che molte donne nutrivano nei suoi confronti; al contrario si riferisce a come il rapporto con Bundy abbia distrutto psicologicamente, ridotto a dei meri oggetti tanto quanto lo erano le sue vittime, le due donne con cui ha avuto una relazione lunga nel corso della sua vita, ovvero Elizabeth Kendall (autrice del libro da cui il film è tratto), interpretata da Lily Collins, e Carole Anne Boone, interpretata da una irriconoscibile Kaya Scodelario.
Non c’è un solo istante, nelle quasi due ore di durata del film, in cui Bundy venga messo sotto una luce positiva, non un solo istante in cui venga dato al pubblico di credere che i suoi sentimenti nei confronti di Liz siano sinceri, non un solo istante in cui il suo personaggio cinematografico emani qualcosa che si avvicini, anche solo di striscio, al “fascino criminale”.
Il Bundy messo in scena da Berlinger (e quanto diamine è bravo Zac Efron) è un ometto miserabile e squallido, capace tuttavia di sfruttare la sua intelligenza media e il suo aspetto fisico per manipolare chi lo circonda. Non è un genio del male (e basta vedere il disastro che combina quando si difende da solo in aula per capirlo), non è un demonio: è un individuo ridicolo nella sua arroganza e, allo stesso tempo, terrificante perché sappiamo di cosa è stato capace.
Bisognerebbe vedere, se se ne ha lo stomaco, la serie documentario e il film uno dietro l’altro; io l’ho fatto, non ne sono uscita benissimo, un po’ perché ho un pessimo rapporto con il true crime, un po’ perché i serial killer non mi affascinano, semmai li trovo repellenti, e non comprendo l’attrazione morbosa nei confronti delle atrocità assortite di cui si macchiano.
Detto questo, la sensibilità di Berlinger nel dirigere documentario e film mi ha parzialmente salvata. Il documentario è molto più dettagliato e, se vogliamo, exploitativo rispetto al film, che lascia sempre la violenza fuori campo e non è affatto un film dell’orrore, ma un dramma, spesso sconfinante, grazie alle numerose sequenze ambientate durante in tribunale, nel thriller processuale.
È rischioso, raccontare una storia del genere privando lo spettatore della parte pornografica, negandogli i particolari raccapriccianti, raccontati dal procuratore ma mai mostrati in maniera diretta; in altre parole, non volendogli dare quello per cui crede di aver pagato il biglietto.
È rischioso perché sono certa che molti troveranno Extremely Wicked, Shockingly Evil and Vile di una noia mortale, uno di quei film dove, si dice, “non succede niente per due ore”; ed è rischioso perché in mani meno attente, poteva diventare sul serio una sorta di apologia di Bundy, eroe solitario contro il sistema, artefice di rocambolesche evasioni, a tanto così dal fregare la giustizia, e chissà cosa sarebbe successo se non avesse bruciato quel paio di segnali di stop nello Utah con il suo Maggiolone…
Per fortuna questo non è accaduto, nonostante la distribuzione italiana voglia farci credere il contrario: è un film sofferto e meditato sulla manipolazione psicologica, su quanto l’amore mal riposto sia distruttivo e, dall’altro lato, su una società ipocrita e puritana, dipendente dalla violenza come da una droga, su una vicenda che si è conclusa con la folla che festeggiava la morte di un altro essere umano, in una grottesca parodia di un party studentesco a base di birra e magliette celebrative.
Ecco, nessun fascino, solo tanta disperazione (delle vittime, dei loro parenti, di Liz), tanto squallore, tanta morte. Il tutto narrato con la sobrietà di un film di denuncia anni ’70, tanto che, a parte qualche voluto anacronismo musicale, non sembra materiale uscito in questo strambo e triste 2019.
Forse è un po’ troppo lungo, forse in alcuni momenti tende a girare a vuoto, ma questi difetti vengono ampiamente ripagati da un confronto finale, tra Liz e Bundy, gestito con il respiro e la tensione del grande cinema.
E poi sì, sarebbe anche il caso che cominciassimo tutti a farci qualche domanda sul perché si sia ritenuto necessario accostare la parola fascino al nome di Bundy per distribuire il film qui da noi. Ma sono domande senza risposta e, se una risposta c’è, io non sono sicura di volerla conoscere.
Hai ragione al 100%,
purtroppo in Italia i distributori hanno il vizio di storpiare i titoli dei film, ma anche con il doppiaggio non vanno di meno, non parlo delle voci, ma proprio dell’adattamento dei dialoghi, inseriscono delle parole che non sono presenti in originale, solo per effettuare il sync con il labiale.
Meno male che io guardo i film rigorosamente nella loro lingua nativa.
Certo che associare la parola fascino con un serial killer e’ una cosa di cattivo gusto 😦
Anche io, quando posso, li guardo sempre sottotitolati. In sala è purtroppo ancora molto difficile trovare film non doppiati. 😦
Ultimamente è stato splendido il caso del bellissimo “Pájaros de verano” tradotto niente meno che “Oro Verde – C’era una volta in Colombia”
Birds of Passage in inglese, vorrei conoscere questi geni che storpiano i titoli bellissimi dei film,
ma li pagano? 😦
Recensione stupenda! Il film mi incuriosiva e non vedevo l’ora di vederlo e sono d’accordo con te quando dici che il titolo italiano è qualcosa di orrendo e stupido. Ottimo lavoro!
Grazie!
Che poi è un film di Netflix, distribuito su Netflix in tutto il mondo, tranne in Italia dove esce in sala. Mah…
infatti, non ci sono nemmeno i sottotitoli in italiano 😦
Effettivamente è qualcosa di strano ma sono comunque felice di poter vedere un film in sala. Adoro l’atmosfera che riesce a creare una sala cinematografica. Spero solo che non abbiano fatto fan fiction su quest’essere…
ce l’ho in rampa di lancio da qualche giorno, devo solo trovare il tempo!
zac efron soffre secondo me della “sindrome da high school musical”, nel senso che non se lo caga quasi nessuno perchè tutti lo associano al bamboccio disney che era qualche anno fa; in realtà lo trovo maturato moltissimo, e sono felice che tu mi dia la conferma della sua prova attoriale in questo film 😀 lo stesso lily collins, che a me piace moltissimo specialmente in ruoli drammatici.
stendiamo un velo pietoso sui malvagi titolisti italiani u.u certa roba é incommentabile, punto.
Ma infatti ha lo stesso problema di molti attori giovani e bellocci che vengono giudicati incapaci a prescindere. Un po’ la sindrome da Pattison, che per essere riconosciuto come attore, ha dovuto sbattersi come un matto.
Se poi sei una donna, allora è anche più complicato.
Lucia ottimo articolo come sempre. Vorrei solo segnalare che la tua paura è già manifesta.
Dark Paradise: A Ted Bundy fanfiction ovvero la storia di una dottoressa che rimane ossessionata da Bundy e farà di tutto per “averlo”. E su Wattpad non è neppure l’unico.
Purtroppo siamo in una struttura sociale che ha perso di vista il buon senso.
Guarda, immaginavo che qualcosa del genere esistesse già. Ma dopotutto, ho letto che rendere romantici i “cattivi” è una cosa giusta e se critichi certi atteggiamenti, non sei abbastanza femminista, quindi forse il problema siamo noi.
Sarà! Ma a parer mio un serial killer è un pericolo più di quanto la gente normale possa credere. Un conto è rendere “romantico” un cattivo da fiction. Molto diverso è idealizzare un criminale e maniaco reale. Non ci stupiamo poi se dei ragazzini seguono le sue orme per gioco… e diventano il nuovo Mostro nostrano.
Ma perché la distinzione tra realtà e fiction è sempre meno chiara, temo.
Uno come Bundy passa per una specie di figura mitica, assimilabile ai cattivi dei film e delle serie tv.
Già, le persone dovrebbero soffermarsi di più su frasi come “Basato su eventi reali”.
Bundy è certamente ricordato come un uomo affascinante – un tratto che sfruttava per conquistare la fiducia delle sue vittime. Ma era anche solito attirare l’attenzione delle vittime fingendosi disabile o in difficoltà, o impersonando una figura autoritaria, per aggredirle e stuprarle in luoghi appartati. Dobbiamo altresì ricordarlo anche come colui che talvolta tornava sulla scena del crimine per avere rapporti sessuali con i cadaveri in decomposizione, e che ha decapitato almeno 12 vittime, conservando le teste nel suo appartamento come trofeo.
Definirlo un romanticone… è estremamente pericoloso.
Molto spesso questi dettagli macabri vengono presi quasi come se fossero accidentali. Ma sì, che vuoi che sia, ha stuprato, seviziato e ucciso 30 donne (non necessariamente in quest’ordine), ma con me sarebbe diverso.
Se ci pensi, è una forma mentis atroce.
Ricordiamoci che Edmund Kemper (“Co-ed Killer” – quello che viene intervistato nella prima stagione di Mindhunter) incominciò perchè la madre gli diceva “Non avrai mai una ragazza!” Allora lui le rapiva e poi “esagerava” e doveva smembrarle e nasconderle. Il Serial Killer inizia dalla mente, con pensieri, che alla fine si manifestano nella realtà. Se non si fa chiarezza su queste forme mentis rischiamo di avere grosse conseguenze.
A mia memoria, fortunatamente non mi sono mai imbattuto in opere di fiction che provassero a trattare Bundy diversamente da quel disgustoso serial killer che era: anche dove ci fossero stati protagonisti fisicamente attraenti come, ad esempio, Mark Harmon o Corin Nemec non si è mai mancato mai di far capire cosa si nascondesse davvero sotto una labile apparenza civile, altro che l’idiota “fascino criminale” inventato qui a sproposito dai nostri titolisti, quando il titolo originale dice tutt’altro! Com’è tutt’altro film quello con cui quegli spettatori eventualmente attirati dal suddetto incomprensibile fascino si troveranno ad aver a che fare, e chissà che la formula scelta da Berlinger non li costringa ad una seria riflessione circa i rischi che si corrono ad ammantare di un ingannevole alone “mitico” la figura e le gesta di un pericoloso serial killer…
E Marc Harmon è stato un grandissimo Bundy. Credo poi che quella miniserie fosse una delle primissime a occuparsi di serial killer, anzi, dovrebbe addirittura aver lanciato la “moda” dei serial killer televisivi.
Utah.