Halloween

 Regia – David Gordon Green (2018)

In merito alla saga di Halloween, orientativamente e senza voler fare un torno a nessuno, esistono due scuole di pensiero, l’un contro l’altra armate, che si possono sintetizzare in: quelli che apprezzano il reboot di Rob Zombie e quelli che sono rimasti fermi al secondo capitolo, firmato da Rosenthal nel 1981. Nel mezzo c’è un oceano di opinioni differenti e in questo oceano navigano gli estimatori di Halloween III (pochi ma buoni), i completisti ossessivi della serie classica, per i quali, in fin dei conti, persino Halloween 6 ha qualcosina di buono e almeno c’è Donald Pleasance, i sostenitori della capacità di intrattenere, nonostante tutto, di H20 (contatemi tra questi) e i puristi carpenteriani per cui esiste un solo, unico Halloween, quello del 1978. Ma alla fine, fermo restando che tutti schifano Resurrection, quando si arriva a parlare di Rob Zombie, e soprattutto del suo Halloween II, le truppe si dividono e scoppia la guerra.
Cosa c’entra tutto ciò con Halloween 2018, prodotto da Jason Blum (hai vinto ancora, Jason), con le musiche di Carpenter e il ritorno di Jamie Lee?
Presto detto: se fate parte della fazione Rob Zombie, vi farà schifo, lo odierete, tornerete a casa e vi sparerete entrambe le director’s cut di Halloween I e II, godendovi quattro ore di urla e fuck assortiti.
Se, al contrario, le urla, i fuck assortiti e la messa in scena da comunione di mio cugino, ma girata dallo zio ubriaco e con uno sciame di formiche nei pantaloni, vi sono risultati un po’ indigesti, credo proprio che il film di Green lo apprezzerete, come è successo a me.

Inutile che io stia qui a raccontarvi la trama del nuovo film: sono passati 40 anni da quando Michael Myers ha dato in escandescenze ad Haddonfield; Laurie, unica sopravvissuta a quel massacro, è una donna traumatizzata che vive da reclusa, ha un rapporto conflittuale con sua figlia e cerca di costruirne uno più sano con la nipote; Michael scappa durante un trasferimento dall’istituto in cui è rinchiuso da allora a un altro, e vaga libero per la sua città natale, ammazzando a destra e a manca.
Cominciamo con le cose che mi sono piaciute: Laurie, innanzitutto; credo che siano riusciti a caratterizzarla al meglio, con un’operazione in realtà non dissimile da quella compiuta da Williamson e Miner in H20 (non a caso, uno dei miei sequel preferiti), ma con una maggiore carica drammatica. Laurie non è soltanto una persona paranoica e impaurita: lei vive in funzione di quella notte di 40 anni prima, è definita da quella notte, e la sua intera esistenza è ruotata intorno a essa. È quindi danneggiata nel profondo, perché dentro di lei qualcosa si è rotto quando l’Uomo Nero è andato a bussare alla sua porta. Lei è l’unica a sapere che l’Uomo Nero tornerà, perché torna sempre. E, una volta venuto a mancare il dottor Loomis, è anche l’unica a sapere cosa sia Michael veramente. Torneremo su Michael più tardi, perché bisogna trattarlo a parte, ma Laurie (e con lei la sua discendenza femminile, che rende questo Halloween uno dei film più matriarcali io abbia mai visto) è straordinaria e Jamie Lee Curtis riveste i panni del personaggio con cui ha esordito portandosi dietro una vita intera. Questa vita pesa, è scavata in solchi nel suo volto e aggiunge delle sfumature molto interessanti a quella che è stata la prima final girl certificata della storia del cinema.

Altro elemento positivo è la messa in scena. Certo, Green plagia Carpenter spesso e volentieri, ma d’altronde c’era da aspettarselo, con il Maestro alla produzione esecutiva e sapendo che questo film è una filiazione diretta del capostipite. Non devo essere io a dirvi che tutti i sequel non sono mai esistiti, nella linea temporale di Halloween 2018, giusto?
E tuttavia, nel ricalcare lo stile di Carpenter, Green è efficace, perché lo modernizza il giusto, senza tuttavia scadere nel delirio di macchina a mano di un Rob Zombie a caso. Il film scorre fluido, pure con un bel piano sequenza che vede il nostro Michael scatenato per le abitazioni di Halloween, e ci sono un paio di scene (quella nel bagno su tutte) in cui si prova un terrore reale.
Se si può parlare di aggiornamento ai gusti attuali del pubblico, è perché Halloween 2018 è un film molto gore e molto violento. Anche qui, non si tratta della violenza sopra le righe, caricaturale e sempre urlata di Rob Zombie: sangue, mutilazioni, ferite esposte e inquadrature shock non mancano, ma è il senso della misura a prevalere. Insomma, è uno slasher, non un torture porn, e la faccenda è, per fortuna, molto palese.
Bisogna ringraziare Green anche perché non si è adagiato sui jump scares (ce ne saranno giusto un paio in tutto) e ha preferito basarsi su una costruzione progressiva della tensione che precede ogni attacco di Michael.

Purtroppo, a fronte di tutte queste note gioiose e positive, ci sono parecchi problemi di struttura, in Halloween. Oserei dire che c’è troppa trama, ove per trama intendo l’aggiunta di elementi narrativi del tutto inutili, che spezzano il ritmo e non riesco a spiegarmi quale funzione abbiano. Per esempio, a un certo punto ci dobbiamo sorbire tutto un ballo scolastico di cui poco ci interessa e che al film non dà assolutamente nulla.
C’è poi un twist, a due terzi del film, che mi ha fatto saltare sulla sedia, e non nel senso buono del termine. Sulla mia faccia si è dipinto un gigantesco “WTF?” e temo anche di aver detto ad alta voce: “Ma siete scemi? Ci siete o ci fate?”
Anche perché, tre minuti dopo, questo twist messo lì un po’ alla come capita, viene gettato alle ortiche come se non fosse mai avvenuto.
L’idea che mi sono fatta, a tale proposito, è che nel 2018, lo schematismo elementare, ma elegantissimo, del film di Carpenter sia inconcepibile per il pubblico odierno. O forse che, se non ti chiami John Carpenter, quello schematismo non te lo puoi permettere e sei costretto a deragliare, perché la storia di “un uomo mascherato che ammazza le baby sitter” non ti basta, non sei abbastanza bravo per tirarci fuori un film intero.

Altra cosa fuori posto sono i momenti di alleggerimento comico. E qui mi stupisco di come un regista che i tempi comici li dovrebbe conoscere molto bene, non si sia reso conto della goffaggine dei vari tentativi di permettere al pubblico di respirare. A parte che non è necessario che il pubblico tiri il fiato, ma se è una scelta parzialmente giustificabile all’inizio del film, lo è molto meno quando, a pochi minuti dal confronto decisivo tra Laurie e Michael, mi piazzi un dialogo completamente sopra le righe tra due agenti di polizia che discutono di panini. Seriamente, David? Come è stato possibile che una scena del genere sia passata al vaglio dei produttori senza che venisse in mente loro di tagliarla? In che modo, arrivati a tanto così da quello che stiamo aspettando da 40 anni, ti permetti di rovinare tutto?
Per fortuna il film ti ripaga con una parte finale bellissima e, se sei nella disposizione d’animo adatta, finisci per perdonargli un po’ tutto. Ma se dovesse esserci un seguito (dati gli incassi, lo darei quasi per scontato) eviterei queste stronzate, grazie.

E veniamo al motivo per cui, alla fine, io a questo film mi sento di perdonare ogni scivolone, ogni dialogo fuori posto, ogni errore marchiano da dilettanti e ogni momento in cui mi sono trovata a tanto così da mandare al diavolo tutti: MIchael Myers. Hanno centrato in pieno il personaggio, che è tornato a essere lo spauracchio silenzioso e glaciale di un tempo, quella forma vuota, quel guscio di essere umano, contenitore delle nostre paure. L’Uomo Nero, per farla breve. Non un bifolco gigante che ammazza grugnendo, non una versione redneck di Jason con la mamma amorevole e il cavallo bianco; nessuna motivazione, nessuna storia personale, nessuna infanzia infelice: Michael è il male incarnato in quello che non è più un uomo, ma un’entità metafisica capace solo di uccidere. Di Michael sono riusciti ad azzeccare ogni cosa, a partire dalle movenze robotiche (il modo in cui si rialza, ogni volta), all’indifferenza nei confronti delle sue vittime, alla calma glaciale con cui le uccide. Michael non è un ragazzino arrabbiato e in credito con la vita, non è uno psicopatico e non è neanche un serial killer: è l’incarnazione dei terrori infantili, il mostro nascosto nell’armadio o sotto il letto, è quel Male eterno che abita il nostro mondo e lo rende un brutto posto.
Tutte le interpretazioni successive sono fallimentari o, anche quando non lo sono del tutto, non hanno nulla a che vedere con Michael “The Shape” Myers.
Perché Michael uccide? Perché non pronuncia una sola parola? Perché è così difficile da ammazzare? Non c’è bisogno di rispondere a queste domande, Michael non necessita di spiegazioni. Più lo spieghi, più lo rovini. In questo, Green e gli altri due sceneggiatori sono stati perfetti e hanno davvero riportato il personaggio alle sue origini.
Prima che mi dimentichi e chiuda il post senza farne menzione (non me lo perdonerei mai), la colonna sonora di Carpenter e figlio è maestosa. La sto ascoltando in loop da ieri mattina.

10 commenti

  1. valeria · ·

    recensione magnifica 🙂 avendo adorato alla follia il primo “halloween” (ma poi, ci sarà qualcuno a cui non è piaciuto? xD) e letteralmente ODIATO il reboot (salvo forse qualcosa del primo, ma il secondo era una cosa abominevole), attendevo con ansia il tuo parere. ora vado decisamente tranquilla 😀

    a proposito di michael, credo che questi bambini concordino in pieno con te 😉 guardalo perchè è esilarante xD https://www.youtube.com/watch?v=4yh2ws82sVw

    1. Ahahahahahahah! La bambina che se lo abbraccia sono io! 😀

  2. Alberto · ·

    Sono contento che ti sia piaciuto, io me lo sono proprio gustato (sono della fazione primi tre Halloween e poi la polvere) e gli ho perdonato praticamente tutto, in cambio del dinamico duo di protagonisti. Persino il twist – se ho capito cosa intendi – mi ha fatto fare un sorrisetto complice 🙂

    1. Io sono della fazione H20 tutta la vita (con qualche apertura benevola nei confronti di Halloween 4, perché c’è Danielle Harris e poi ha quel finale potentissimo), perché fondamentalmente sono di bocca buona 😀
      Laurie e Michael sono perfetti in questo film. E mi è piaciuto anche il tentativo di superare il concetto di final girl con il finale.

      1. Alberto · ·

        H20?

        1. Halloween H20, quello di Steve Miner del 1998

          1. Alberto · ·

            Ah, Halloween 20 anni dopo. Chiedo scusa per dormire in piedi.

  3. Blissard · ·

    Complimenti per la recensione sentita.
    Io faccio parte del meno nutrito gruppo di quelli che hanno apprezzato sia il remake di Rob Zombie che quest’ultimo.
    La versione 2018 di Michael Myers è chiaramente ispirata a quella originale, ma è tutto il resto che però è cambiato: mentre nel capostipite di Carpenter erano la candida innocenza di Laurie e la “scienza” di Loomis chiamate ad affrontare il male incarnato, in questo sequel vanno a farsi benedire entrambe, sostituite dal barricarsi e armarsi. Nella mia rece ho definito, in maniera forse un po’ riduttiva, Halloween 2018 la variante “trumpiana” del film del 1978; non è una critica la mia, sia chiaro, è anzi un modo di rimarcare come il film di David Gordon Green non si limiti ad essere una fotocopia da fanboy (una delle accuse più spesso rivolte al film) ma che raffiguri trasversalmente i cambiamenti social-culturali che che si sono verificati negli USA negli ultimi 40 anni.

    1. Certo, è più in linea con lo spirito dei tempi, ma il personaggio è rimasto una pura incarnazione del male e non lo hanno trasformato in un bambino traumatizzato con le visioni.
      Non è affatto una fotocopia, questo film, e non capisco come la si possa definire tale. Come dici tu, è una versione aggiornata, che prende in pieno la mentalità corrente.

  4. Giuseppe · ·

    No, di Rob Zombie alle prese con Michael Myers non ne voglio più sapere, mai più! 😀
    Qui, invece, mi sembra sia stata praticata l’unica opzione sensata, volendo riparlare ancora di Michael Myers dopo anni dagli ultimi due infelicissimi remake: riallacciarsi al suo essere malefico e non umano così com’era secondo Zio John, senza spiegazioni esplicite/motivi/traumi/legami familiari, prima che le interpretazioni successive date nei capitoli di una sempre più incoerente e insoddisfacente saga -l’affascinante terzo capitolo che, di fatto, ne sta al di fuori è ovviamente cosa a parte 😉 – lo riducessero man mano a un’ombra evanescente (ecco, Halloween 4 aveva forse l’idea finale che poteva concludere degnamente la saga, senza bisogno di altri sequel, reboot o remake)… credo che questo ritorno alle origini aiuterà anche me a passare sopra o, comunque, a non far troppo caso ai difetti da te sopra elencati (e che, in un’operazione ambiziosa come questa, potevano essere evitati).

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