Regia – Susan Lacy (2017)
Verso la fine di questo monumentale documentario dedicato alla vita e alla carriera di Steven Spielberg, l’attrice Sally Field (co-protagonista di Lincoln) e la produttrice storica del regista dai tempi di E.T., Kathleen Kennedy dicono la stessa cosa con parole differenti: a Spielberg non è mai stato perdonato di essere uscito dall’immagine che il mondo del cinema aveva di lui e di aver provato a crescere. Se avesse continuato a fare gli stessi film per sempre, sarebbe rimasto in un alveo rassicurante in cui includerlo e nessuno si sarebbe offeso. E invece Spielberg non ha voluto e sono cominciate le critiche velenose, le accuse di aver “rovinato il cinema” (come se la rovina del cinema, cosa tutta da dimostrare, potesse essere imputata a un unico responsabile), l’isteria che di solito coglie i cinefili seri e intellettuali al solo sentire il suo nome.
“Non è mai abbastanza cinico, mai abbastanza oscuro, mai abbastanza velenoso, mai abbastanza provocatorio”, per usare le parole di Sally Field, anche se io preferisco quelle della Kennedy: “Come ha osato Spielberg affrontare certi temi, come ha osato smettere di giocare con le astronavi e parlare di Olocausto, Seconda Guerra Mondiale, Costituzione americana?”
Già, come ha osato?
So che molti di voi non riescono ad associare la parola “osare” al nome di Spielberg. Eppure, la bellezza di questo documentario sta, tra le altre cose, nel sottolineare l’audacia che ha caratterizzato la sua carriera. Un’audacia che è propria solo dei grandi artisti, quale Spielberg è, forse uno dei più importanti e influenti della cultura occidentale.
Artista non è una parola scelta a caso e ricorre più volte durante il film firmato da Susan Lacy che racconta la vita e il percorso professionale di Spielberg, dai primissimi cortometraggi fino alla realizzazione de Il Ponte delle Spie, seguendo un ordine non cronologico ma tematico ed emotivo, nella convinzione, fortissima e presente per tutte le due ore e venti di durata, che non si possa comprendere l’opera di Spielberg senza partire da un punto fermo: Spielberg è un grande artista popolare.
Ora, io non voglio difendere Spielberg per la milionesima volta da quando è nato questo blog (e non conto le volte in cui l’ho difeso al di fuori del blog), quindi non venite a rompermi le scatole nei commenti, perché su Spielberg e su un paio di altri nomi non c’è margine di discussione. Chi mi legge da un po’ sa cosa significhi per me Spielberg e non c’è bisogno che lo ribadisca oggi. Quello che mi preme è, scrivendo a proposito di un documentario magnifico che tutti, detrattori compresi, dovrebbero vedere a prescindere, è proprio l’annosa questione dell’arte popolare.
Si dice che Spielberg non sia un artista, ma un manipolatore di emozioni. Io sono una persona poco sofisticata, ma non capisco la distinzione. Senza neanche parlare di arte in generale, parliamo di narrazione: da quando esiste, sia essa scritta, rappresentata su un palcoscenico o filmata, si basa sulla manipolazione. E anzi, tanto più io pubblico sono manipolato, tanto più tu artista hai fatto bene il tuo lavoro.
Il lavoro di Spielberg è quello del narratore per immagini e porrei l’accento sul concetto di narratore, perché ciò che ha da sempre contraddistinto Spielberg è stata la capacità di usare il mezzo cinematografico come strumento del racconto, cosa per cui ha un istinto formidabile, oserei dire innato. Tramite l’armonia tra messa in scena, movimenti di macchina e scelta dei piani, Spielberg porta lo spettatore esattamente dove ha deciso che deve andare e non c’è mai niente, nei suoi film, che non sia funzionale in maniera rigorosa al racconto.
Sapete qual è il problema? È che lo fa sembrare facile. Troppo facile, troppo naturale, troppo spontaneo. Diventa facile per noi che il film lo vediamo, comprendere ogni dinamica dell’azione che si svolge sullo schermo. Pensate al caos organizzato di Salvate il Soldato Ryan o alla scena, presa a esempio nel documentario, di Munich in cui il commando deve far detonare una bomba nascosta in un apparecchio telefonico: molteplici punti di vista, svolgimento a orologeria, una decina di cose che accadono nello stesso momento. Ed è tutto chiaro, non vi perdete nulla di importante, avete una visione globale, complessiva, come se foste contemporaneamente in ogni angolo della scena.
Questo è Spielberg, questa è la sua arte. Questo, mi verrebbe da dire, è il cinema, se non fosse che il cinema è un’altra mezza milionata di cose e se non fosse che Spielberg le conosce tutte. Molte le ha addirittura inventate.
Parliamo di un personaggio che ha cambiato la grammatica cinematografica almeno un paio di volte, se non di più, nel corso della sua carriera; che con Jurassic Park ha compiuto per primo una rivoluzione pari soltanto, per usare le parole di George Lucas, anche lui intervistato nel documentario, all’avvento del sonoro; che ha sperimentato, si è sempre messo in gioco, non si è mai accontentato e ha sempre superato i limiti del consentito o di quello che si credeva fosse consentito a un regista da studios come lui.
Perché il documentario non rinnega la natura popolare del cinema di Spielberg, ma la rivendica con forza; Spielberg è stato il perfetto regista per il cinema degli studios e, allo stesso tempo, è stato ed è, soprattutto oggi, anche un autore. Non c’è conflitto tra le due cose, non è necessario che ci sia: sono costruzioni edificate a posteriori sul cinema dal pubblico cinefilo e da un certo tipo di critica. L’idea che una cosa apprezzata da milioni di persone non abbia valore e che, di conseguenza, Spielberg valga di meno quanto più il pubblico lo ama, è del tutto posticcia, e serve soltanto ad applicare ai film etichette non richieste.
Scegliendo come impostazione quella di rendere finalmente giustizia a Spielberg in quanto artista popolare, il film di Susan Lacy diventa qualcosa di più di un semplice documento biografico o di una collezione, seppure straordinaria, di testimonianze, immagini, ricordi e interviste; diventa il ritratto di un uomo che è sempre stato costretto a dover dimostrare qualcosa e che ha dato il meglio di sé quando ha capito di non dover dimostrare nulla a nessuno, quando ha preso coscienza del proprio genio (sì, genio) e lo ha liberato, abbattendo i confini tra cinema di pura evasione e cinema “impegnato”, diventando capace di girare, nello stesso anno, Schindler’s List e Jurassic Park e di uscire vincitore da entrambe le imprese, difficilissime da portare a termine, ognuna per i suoi motivi che mi pare anche inutile spiegare.
È il ’93 l’anno in cui Spielberg trova la direzione definitiva della sua carriera da regista. Questo non significa togliere importanza a quanto fatto prima, ma solo evidenziare la maturità raggiunta. Ed è paradossale se si pensa alla convinzione di molti detrattori, secondi i quali Spielberg è “bollito” dalla fine degli anni ’80. Invece, mettendo in prospettiva la sua carriera, ci si accorge (ma non siamo noi spielberghiani a doverci accorgere di una cosa del genere) che, se di sicuro il periodo dalla seconda metà degli anni ’70 ai primi anni ’80 è quello che ha più segnato un certo tipo di immaginario, è a partire dagli anni ’90 che Spielberg ha trovato la sua identità di autore, dopo essere anche passato attraverso cocenti delusioni, mezzi passi falsi ed episodi di transizione come 1941, Il Colore Viola e L’impero del sole.
Io non posso essere del tutto lucida: non considero poco riuscito alcun film di Spielberg e, per quanto mi riguarda, ci sono solo gli Spielberg bellissimi e quelli un po’ meno belli. Da ogni sua singola opera si può imparare qualcosa. Uno dei tanti colleghi intervistati nel corso del documentario è Scorsese e dice una cosa molto vera e interessante: lui, spesso, i film di Spielberg li guarda senza volume perché il racconto si capisce perfettamente anche privo di musica e dialoghi. È un dettaglio a cui ho fatto caso anche io quando, l’anno scorso, sono stata a un concerto delle colonne sonore di Williams e ho visto alcune sequenze de Il Regno del Teschio di Cristallo private del sonoro: erano strepitose, nonostante il film sia forse il meno riuscito di tutta la lunga carriera di Spielberg.
Ma, a parte le mie (e di Scorsese, ma tu guarda) fissazioni, non c’è opera diretta da Spielberg che non abbia una peculiarità, un marchio, un momento di grandissimo cinema, anche solo uno, ma che supera a destra qualunque altro regista suo contemporaneo e a lui successivo. La visione di Spielberg è unica al mondo, imitata in centinaia di altri film e da decine di colleghi, eppure inconfondibile. Un film firmato da Spielberg lo si riconosce dalla prima inquadratura. Non potrebbe essere di un altro. Persino il suo più fedele imitatore, JJ Abrams, che di Spielberg ha cercato di replicare nel dettaglio ogni elemento di stile, non è in grado di ricreare l’illusione; persino quando viene citato direttamente, come in una scena della seconda Stagione di Stranger Things in cui si ripropone, inquadratura per inquadratura, una sequenza storica di Incontri Ravvicinati, il confronto è perso in partenza.
Come mai è così difficile imitare Spielberg, se Spielberg è così caratteristico e così facile da capire?
Perché Spielberg è un artista e gli altri noi.
Detto in termini ancora più terra terra, perché lui è Spilby e voi non siete un cazzo. Ora e per sempre.
Questo documentario voglio vederlo pure io, devo recuperarlo assolutamente. Ad ogni modo negli anni ho difeso molto spesso due registi, uno è Ridley Scott, ma non è questa la sede corretta, l’altro Spielberg. I detrattori di quest’ultimo di solito non hanno nemmeno idea della sua intera filmografia, quindi prenderli in fallo è abbastanza semplice e a quel punto tagliano corto tirando fuori per l’ennesima volta tutta la mitologia del “cinema giocattolo”. Ecco se esiste un cinema che non è minimamente un giocattolo è proprio quello di Spielberg e guardo un po’ non lo è mai. Non è un giocattolo “Jurassic Park” (anzi è forse l’ultimo enorme film di avventura prodotto), come non lo è “The Terminal”, o “Munich” o lo splendido “Tin Tin” (in Pixar secondo me hanno perso 10 anni di vita dopo aver visto la sequenza del deserto di Tin Tin). Il problema con il cinema di Spielberg è che è fin troppo chiaro, come scrivi tu fa sembrare tutto troppo semplice, questo porta ad una comprensione quasi istantanea della sua opera anche su più piani di lettura. Quello che i “C”inefili del cinema giocattolo faticano a comprendere è che Spielberg non ha un linguaggio cinematografico semplice o banale, ma estremamente forbito ed allo stesso tempo una capacità talmente elevata nell’utilizzarlo che la sua presenza come regista non si percepisce durante il film nella sua globalità, eppure basta una semplice sequenza presa a caso per imputarla al regista americano. Se prendessimo dei giornalieri di un suo film di cui ancora non sappiamo nulla riusciremmo ad associare il girato all’autore, questa è la sua grandezza. Ma per vederla non basta farsi una cultura su wikipedia e youtube.
Esattamente: Spielberg racconta con una naturalezza tale che, se non analizzi attentamente le singole sequenze, non ti rendi conto della difficoltà del suo cinema.
E, davvero, se il “cinema giocattolo” è Jurassic Park, datemi giocattoli tutta la vita e io ne sarò contentissima 😀
Anche io sono favorevole ai giocattoli per tutta la vita. Per fortuna il prossimo anno ne escono due. Tra “Ready Player One” e “The Post” non so davvero quale attendo di più. Tra l’altro una cosa che non ho scritto prima è che in ogni film di Spielberg c’è sempre una prima volta cinematografica, nel senso che in ogni suoi film troviamo sempre qualcosa che prima non avevamo mai visto, o che non era mai stata realizzato nel modo in cui lo fa Spielberg. Si beh, potremmo scrivere e parlare per ore di ogni suo singolo film. Meglio fermarsi qui.
Bellissimo articolo come sempre, mi trovo daccordo su tutto quello che hai scritto. Se certi cinefili snob parlano male di Michael Bay – da me odiatissimo – potrei capirlo, ma Spielberg per me è intoccabile ^_^
“Perché il documentario non rinnega la natura popolare del cinema di Spielberg, ma la rivendica con forza; Spielberg è stato il perfetto regista per il cinema degli studios e, allo stesso tempo, è stato ed è, soprattutto oggi, anche un autore. Non c’è conflitto tra le due cose, non è necessario che ci sia: sono costruzioni edificate a posteriori sul cinema dal pubblico cinefilo e da un certo tipo di critica. L’idea che una cosa apprezzata da milioni di persone non abbia valore e che, di conseguenza, Spielberg valga di meno quanto più il pubblico lo ama, è del tutto posticcia, e serve soltanto ad applicare ai film etichette non richieste.”
Dopo queste parole, è impossibile non essere intrigati dalla visione di questo monumentale documentario.
Per raffinatezza stilistica, capacità comunicativa del suo cinema e professionalità, Spielberg è un genio, non ce ne sarebbe nemmeno da discutere. Una certa cinefilia d’essai lo critica a prescindere perchè è un cineasta innamorato del cinema classico che ha mosso i primi passi quando un bel po’ di registi americani suoi coetanei (hai citato Scorsese, ma anche De Palma, e tanti altri) la concezione del cinema classico la mettevano in dubbio, ne trasgredivano le regole e ne destrutturavano le impostazioni. Questa critica mi appare fuori fuoco, mentre non mi sento di criticare chi scorge in alcune sue opere una sgradevole sensazione di asetticità e politically correctness; grazie alla sua bravura, Spielberg è in grado di parlare un po’ “alla pancia” degli spettatori, solleticarli nei loro punti deboli, il chè ha reso a mio parere poco coraggiose, opache o scialbe alcune sue incursioni in territori “seri” e, al contrario, sgradevoli e ambigue altre opere apparentemente di puro intrattenimento.
Mi associo nel considerarlo uno dei più grandi autori viventi, ma non sono assolutamente d’accordo nel considerare la sua filmografia esente da pecche (alcune sue opere le trovo proprio brutte, senza grandi giri di parole).
E’ sempre bello leggere le tue lettere d’amore a questo genio della settima arte, soprattutto in un periodo in cui ci si riferisce genericamente a lui come “autore bollito”, “vecchio”, quando ad essere bollito e già vecchio è gran parte del cinema che lo circonda. Spielberg, d’altro canto, ha sempre cercato di rinnovarsi, sia nella tecnica che nello stile, ma anche nelle tematiche affrontate, tutto questo mantenendo sempre fermo il centro morale del suo cinema. Ci ha sempre ricordato cosa voglia dire essere umani, cosa c’è di buono da salvare nella nostra specie. Indubbiamente un messaggio che è diventato fuori moda, ma proprio per questo sempre attuale
Spielberg e il miglior storyteller di sempre e sono un popolano gli unici difetti che per eccesso di sentimalismo ha rovinato ad esempio Minorty Report e I.A e aver raccomandato Shia Leboeuf
Non gli è mai stato perdonato di aver provato a crescere, vero. Né, aggiungo io, si trova facilmente chi sia disposto ad ammettere (senza astio) che c’è riuscito… chissà che questo documentario non contribuisca a far piazza pulita, una volta per tutte, delle tonnellate di triti e ritriti pregiudizi nei suoi confronti.
E infatti giusto ieri ho dovuto leggere le solite stronzate di chi non ammette neanche che Spielberg sia inserito tra i grandi maestri del cinema.
Io non ce la faccio davvero più.
Documentario molto interessante. Mi sto rendendo conto nell’ultimo periodo di quanta gente ce l’abbia con Spielberg e lo consideri sia un pessimo regista che una persona che distrutto il cinema. E ti giuro che ci sono rimasto malissimo. Non credevo che avesse così tanti “haters”. Ovviamente non è perfetto, ha fatto anche lui dei passi falsi (tipo il quarto di Indiana Jones oppure Always, film che non mi ha mai detto nulla), ma ha creato delle pellicole stupende come Lo squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo, L’impero del Sole, Munich, Schinder’s List ecc… Delle pellicole che sono ormai indimenticabili e che hanno dimostrato la sua bravura come regista. Dire che è sopravvalutato mi pare una cavolata enorme. (gli unici errori che può fare in un film sono legati alla narrazione, ma mai alla regia. Lì non sbaglia quasi mai).