Regia – Joe Dietsch, Louie Gibson (2017)
Di storie basate sul meccanismo della caccia all’uomo è pieno il cinema, da La Pericolosa Partita in giù, passando per Elio Petri e Bogdanovich prodotto da Corman, per John Woo che scatena Van Damme, per gli esperimenti da reality di Contenders Serie 7 e per Schwarzenegger in tutina gialla ne L’Implacabile, di esempi ce ne sono a decine, in varie versioni e ambientazioni. Ma, nonostante il tema sia stato trattato così tante volte, ha sempre il suo fascino e continua ad attrarre spettatori e registi, perché quella dell’individuo braccato dai suoi simili che vogliono farne una preda è una formula che funziona e continuerà a funzionare, sia che si svolga in un futuro possibile sia che la si declini nella forma di un survival e la si collochi in un qualche luogo dimenticato da Dio, una città di frontiera, magari, dove alle caratteristiche tipicamente horror si può aggiungere qualche suggestione western.
Ed è questo il caso di Happy Hunting, esordio a basso costo di due registi, Dietsch californiano, Gibson (figlio di Mel) australiano, entrambi con qualche esperienza televisiva alle spalle e niente altro.
Fa sempre molto piacere scoprire esordi così centrati, che neanche diresti siano stati girati con pochi soldi per come vengono sfruttate bene le risorse a disposizione; un cinema indipendente che non ha paura di confrontarsi con immagini di ampio respiro, quasi interamente ambientato in esterni, e che brilla soprattutto nella gestione degli spazi enormi del deserto e nei campi lunghi, cosa non da poco per chi si mette per la prima volta dietro la macchina da presa.
Ma, a parte queste considerazioni di carattere estetico, c’è della sostanza, in Happy Hunting, non si limita a essere lo spettacolo pornografico della caccia all’uomo. Al contrario, prende questo tema abusato da un punto di vista abbastanza inusuale, il che permette di far andare la storia in direzioni niente affatto ovvie.
Protagonista di Happy Hunting è Warren (Martin Dingle Wall), un piccolo spacciatore alcolizzato; riceve una telefonata dal Messico in cui lo avvisano che una sua ex è morta e gli ha lasciato una figlia di cui prendersi cura. Non avendo più nulla da perdere, Warren parte in auto alla volta del confine e commette l’errore madornale di fermarsi a dormire a Bedford Flats, uno di quei posti che ti chiedi se esistano davvero, da qualche parte: se la parola desolazione può essere resa con un’istantanea, le inquadrature dall’alto sulle case della fittizia Bedford Flats servono magnificamente allo scopo. In questo minuscolo paese al confine con il Messico non c’è nulla, solo polvere, sudore, alcol e disagio. Un tempo, dicono i suoi abitanti, era stata una città di cacciatori, mentre ora si rivive questa tradizione soltanto nel festival annuale dedicato alla caccia che, ma tu guarda la combinazione, cade proprio il giorno successivo all’arrivo di Warren.
Essendo povero in canna, disgraziato e miserabile, Warren finisce alche le scorte di alcolici e comincia a sperimentare i primi effetti delle crisi d’astinenza: come gli viene detto da un volontario degli Alcolisti Anonimi, molte persone non muoiono per l’alcol, ma per quello che gli accade immediatamente dopo aver smesso. Con Warren le cose sembrano anche più gravi, perché lui senza bere non funziona proprio, è come una macchina inceppata.
Quando il festival della caccia di Bedford Flats si rivelerà per ciò che è, ovvero una caccia all’uomo in piena regola, con Warren e altri quattro derelitti facenti funzione di preda, Warren non solo dovrà lottare per sopravvivere, ma anche cercare di procurarsi da bere. Questo particolare dà al film un taglio satirico molto interessante, perché da una premessa simile ci si aspetterebbe un arco narrativo tipico, basato sul percorso calvario-redenzione, con il protagonista che esce da una brutta avventura mondato dai suoi peccati. Invece Warren ha un modo tutto suo di affrontare il suo problema di dipendenza e, scevro da ogni forma di moralismo (con una storia così il rischio c’era) Happy Hunting diventa un film selvaggio di pura sopravvivenza che tuttavia non rinuncia a delle riflessioni di carattere sociale tutto sommato intelligenti. Non è poco per un’opera dalla struttura all’apparenza così derivativa.
Il festival della caccia rimanda a dei tempi più felici, a una tradizione ben precisa (senza tradizione non siamo niente, dice a più riprese lo sceriffo di Bedford Flats) che teneva insieme la comunità. Ora che di questa tradizione è rimasto solo il ricordo, ora che i grandi animali non ci sono più, si cacciano le persone e non persone qualsiasi, ma vagabondi, tossici, alcolizzati. E non solo gente di passaggio come Warren e altre vittime, ma cittadini di Flats che hanno sbagliato, che sono caduti troppo in basso, mandati a morire dai loro stessi genitori. Se guardate a cosa è Bedford Flats (desolazione, squallore, miseria, bocche sdentate, corpi sfasciati, espressioni ebeti, in una parola, bifolchi) il paradosso di voler ripulire il mondo dai reietti per risvegliare il senso di appartenenza a una comunità formata a sua volta da reietti non vi sfuggirà.
Non si tratta più, come nei survival degli anni ’70, di ragazzotti borghesi alle prese con l’America profonda e spietata. Qui è una guerra tra sfigati in cui si va a eliminare chi è appena un minimo più rifiuto sociale. Non c’è l’illusione che si trasforma in un incubo, si nasce direttamente nell’incubo e si sopravvive giusto per non dargliela vinta, a quegli stronzi, si sopravvive per cocciutaggine e tigna, fino a quando non si è troppo stanchi.
I tempi in cui vi era una contrapposizione, anche se non sempre nettissima, tra individui civilizzati che entravano a contatto con delle sacche di resistenza alla civilizzazione, sono tramontati. La civilizzazione, semmai è esistita, è solo un lontano ricordo o, peggio, un macabro scherzo.
Rimangono quei luoghi in cui smarrirsi ed essere dimenticati, loro sì invariati, perché eterni nella loro indifferenza. Ma vuoti di presenze che non siano disperati in fuga o altri disperati in caccia. Non ci sono neanche gli animali, non c’è nulla.
Si sta parlando molto di altri titoli, mentre Happy Huntig sta passando un po’ inosservato. Non fate l’errore di perdervelo.
Bella rece!
Pur non essendo tratto da una sua opera, in Happy Hunting ho scorto nettissimo il profilo di Joe Landsdale: il sud profondo delle grandi lande, rozzezze redneck, filosofia individualista spicciola e soprattutto un crudo sense of humor a tratti realmente fulminante.
Grazie!
In effetti hai proprio ragione: è un film perfetto per gli amanti di Landsdale!
Già! E chissà che un giorno non si possa aprire un Drive-in anche là, a Bedford Flats… 😉
Ciao, ti ho assegnato un premio, se ti va passa a trovarmi:
http://lastanzadigordie.blogspot.it/2017/10/blogger-recognition-award-la-stanza-di.html